Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il silenzio della strega di Linghar
Il silenzio della strega di Linghar
Il silenzio della strega di Linghar
E-book399 pagine5 ore

Il silenzio della strega di Linghar

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In seguito alla morte di Re Bastian, avvenuta in circostanze misteriose, il trono della Contea di Linghar, una delle cinque che formano il Reame di Liuto, è passato al figlio Lein. Il nuovo sovrano, coadiuvato dalla fidatissima consigliera Hopi, prosegue sul solco del saggio operato del padre, assicurando al regno una forma di governo che garantisce dignità e benessere ad ogni cittadino. Lein è sempre pronto a prodigarsi per il bene collettivo e per aiutare i più sfortunati, e quando in seguito a una rischiosa spedizione la stessa Hopi si ritrova in pericolo non esita a spendersi in prima persona per risolvere la situazione: ne scaturirà un inaspettato incontro con Amelyn, una strega dall’imprevedibile passato.
Questo romanzo gotico nasce con l’intento di far conoscere ai lettori il mondo celtico-norreno e di avvicinarli ai personaggi del folklore popolare, attraverso le vicissitudini dei personaggi e grazie al ricco glossario finale.

Jessica Belli è nata venerdì 13 aprile 1990. Vive nella media Val Brembana, in provincia di Bergamo, in una casa di legno circondata da boschi e creste innevate. È Perito Agrario e attualmente lavora con la madre nell’agriturismo di famiglia. Ama gli animali, i boschi, la musica metal, classica e celtica e le montagne in cui vive (Orobie). È appassionata di lingue straniere, geologia, filosofia, rally e libri! È atea, ma crede nella sacralità della Natura. Oltre a Il silenzio della strega di Linghar, ha scritto anche Cronache di un mondo perduto e Il testamento di Ishka.
 
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2022
ISBN9788830672499
Il silenzio della strega di Linghar

Correlato a Il silenzio della strega di Linghar

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il silenzio della strega di Linghar

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il silenzio della strega di Linghar - Jessica Belli

    LQ.jpg

    Jessica Belli

    Il silenzio della strega di Linghar

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6627-6

    I edizione ottobre 2022

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Il silenzio della strega di Linghar

    Dedico questo libro a mio papà e a mio nonno Giovanni,

    per essere stati per me maestri di vita, grandi esempi di

    onestà, coraggio e dignità. Rivivete in ogni mio gesto.

    Ad Anouk, Pajkos, Zago, Nancy e a tutti

    i miei animali scomparsi, per avermi insegnato

    ad amare ed avermi donato ricordi indelebili.

    E, infine, lo dedico a me, per non

    aver mai mollato, nonostante tutto.

    "Nulla può svanire, come un ricordo non scritto

    sulle pagine della nostra esistenza…

    sulle pagine ingiallite del Tempo.

    Facciamo di ogni giorno una grande conquista,

    la più grande!

    E vendiamoci come eroi al nostro destino!

    Facciamo della nostra vita il più misterioso dei libri!

    Coloro che lo leggeranno saranno poeticamente

    trasportati attraverso di noi nella più grande utopia:

    la nostra vita!"

    L’autrice

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Capitolo 1 - Linghar

    Nelle terre non lontano da dove ha inizio il mondo, sorgeva splendente la Contea di Linghar, una delle cinque Contee che, insieme, formavano il Reame di Liuto.

    Isolata, ma immensa, questa splendida Contea custodiva in grembo floridi villaggi; si riparava sotto la possente presenza dei Monti Miseria e si abbandonava nel dolce abbraccio del lago Cariad, nelle cui acque terribili creature trovavano dimora. Molti pescatori, mariti e padri dediti all’onesto lavoro, non fecero mai più ritorno alle addolorate famiglie una volta salpati dalle infauste battigie.

    A nord vi erano i Monti Miseria, facenti parte del gruppo dell’Ardesia, che condividevano la loro imponenza coi confinanti Monti Avari ad ovest e con gli inospitali Monti del Cervo ad est. Erano un meraviglioso complesso di montagne rocciose, puntellate di tanto in tanto di cespugli a fiore colorati e qualche sporadico bosco; le cime erano perennemente innevate; donavano al viandante che vi si inoltrava l’impressione di essere in un mondo lontano, fresco e intonso. Tra le nude rocce si poteva sentire, nel più assordante dei silenzi, l’eco di vite lontane, anime libere da un’esistenza terrena, che vagavano attente per le nuvole ed i crepacci, in cerca di qualche avventuriero da guidare. Molti ne erano intimoriti, ma i vecchi saggi, dalla notte dei tempi, tramandavano di figlio in nipote che non i morti si devono temere, bensì i vivi! Quale profonda verità si nascondeva dietro ad un’affermazione tanto banale quanto ovvia!

    Ai piedi di questi maestosi monti piccole pianure, intervallate da colline dolci e verdi, si estendevano per interi ettari. Tutt’intorno proliferava un verde silvano, interrotto da qualche serpeggiante ruscello, che sorgeva dalla catena montuosa. Gli abitanti della Contea di Linghar erano da sempre molto legati ai loro boschi e a ciò che essi ospitavano. Narravano le leggende che stirpi di draghi erano vissute all’ombra di quegli alberi secolari, e che il Piccolo Popolo ancora amava soggiornare al fresco dell’ombra di foglia.

    I fiumi principali della Contea di Linghar erano il Calder e il Dover. Una leggenda, che nasce e si perde nella notte dei tempi, narra di due giovani ragazzi, innamorati l’uno dell’altro. I loro nomi erano Calder e Dover, appunto. Il codice di decoro rigido ed inflessibile di quel tempo impedì loro di potersi amare liberamente. I due, logorati dalla sofferenza, decisero di chiedere aiuto agli Dei. Uno di questi s’impietosì e decise di trasformare i giovani in fiumi, simbolo di mutevolezza continua e di costante tenacia. Separati e costretti, come in vita, a percorrere strade parallele, senza possibilità di incrociarsi, si poterono congiungere finalmente nel lago Cariad e lì poterono amarsi in eterno. Che la leggenda riportasse la verità o semplice poesia, non si può sapere per certo. Si sa, invece, che per secoli hanno trasportato tronchi, barche e merci da un villaggio all’altro. Questi ultimi sorgevano numerosi, ma sparsi, tutti ad una buona distanza gli uni dagli altri. Ognuno, anche a seconda della localizzazione geografica, produceva prodotti differenti che vendeva o barattava con gli altri villaggi. A nord, ai piedi del gruppo dell’Ardesia, vi erano allevamenti di pecore, mucche e capre da latte, quindi si producevano lana da filare, caldi maglioni e gustosi formaggi. Vi era, inoltre, un’intensa attività boscaiola: le leggi vigenti richiedevano una sana pulizia del suolo boschivo, così da occupare i ragazzi nei periodi di poco lavoro e garantire un territorio pulito e sicuro. Questi villaggi erano: Val Grande, Colle Aperto e Prato Ombroso. Scendendo a sud, sulle colline, ben visibili, sorgevano numerosi vitigni e meleti. Altri frutteti erano, ovviamente, presenti: peri, actinidie, nespole, cachi. Alberi resistenti alle rigide temperature invernali, che potessero dare nutrimento anche quando l’inverno bussava alle porte e soggiornava fino ad Imbolc (1), per poi andarsene piano piano, allentando la fredda morsa sul territorio. D’estate, invece, le colline producevano pesche, albicocche, fiori ornamentali, prugne, ciliegie, lamponi, fragole… tutti frutti succosi e colorati, per resistere alle calde temperature della bella stagione. I villaggi delle colline erano localizzati tutti su un’unica linea immaginaria, ognuno su una delle collinette più alte. Ribes, Viasecca, Sottosasso e Bacco erano i loro nomi. Ancora più a sud, nelle pianure, vi erano le due Grandi Città di Pontevecchio e Foscoborgo e qualche piccola cittadella. La sede della capitale della Contea era contesa da queste ultime due ed il Re, per non creare futili insurrezioni, decise saggiamente di regnare per metà dell’anno in una e per l’altra metà nell’altra. Le città trasformavano produttivamente parte dei prodotti che giungevano dai villaggi a nord: i tronchi venivano tagliati in assi e levigati per poi essere venduti ai falegnami o ritrasportati ai villaggi, mediante carovane di artigiani costruttori; i massi dei fiumi venivano frantumati in sassi, ghiaia e sabbia per l’industria edile e le argille in mattoni solidi e duraturi. Nei borghi in pianura, invece, si coltivavano immensi appezzamenti di terra a frumento, granturco, orzo, soia, per la produzione di farine. In altrettanti enormi campi venivano coltivate patate, carote, pomodori ed ogni sorta di ortaggio, complice la temperatura lievemente più mite. Avendo le città vicine, questi villaggi (Cascina dei Pioppi, Falda, Borgo di Riva, Centolaghi e Fiorume) trasportavano le loro materie prime nelle grandi fabbriche in cui centinaia di persone lavoravano duramente per trasformarle in prodotti di più lunga conservazione (torte, farine, conserve, eccetera). La Contea di Linghar si autososteneva con questo semplice metodo: ogni villaggio produceva prodotti unici che poi vendeva e scambiava con gli altri, facendo girare l’economia interna del piccolo reame. Non vi erano reietti, né vi erano famiglie troppo ricche e potenti. La popolazione stava mediamente bene, e pochissimi aristocratici godevano di qualche danaro in più, ma le disparità tra le classi sociali erano molto blande. Non vi era insoddisfazione.

    Diversi erano i Regni che formavano il Reame di Liuto: Linghar in centro, Grigiùr a nord oltre i Monti del gruppo dell’Ardesia, Ghiandarotta ad est, Midium a sud del lago Cariad e Centolaghi ad ovest. Il malumore in questi altri Regni era palpabile da ben lontano; tempi addietro qualcuno di questi territori subì l’ingiuria della malasorte: frane, pestilenze, saccheggi e rapimenti erano diventati normalità. L’economia era morta da anni e fame e miseria colpivano tutti indistintamente. Le carestie, unitamente ad alluvioni e siccità, mettevano a dura prova la sopravvivenza di ogni cittadino. Leggenda narra che, secoli or sono, il vecchio Re Sirio della Contea di Midium, ove queste forze oscure avevano preso piede, si lasciò cadere in un vortice di depressione e si fece convincere dai suoi infimi consiglieri ad avventarsi contro i nuovi nati di sesso femminile, in quanto si vociferava di terribili tormenti per i Regni nei quali i nati femmine fossero stati più dei neonati maschi. Colto da un attacco d’isteria, ormai nel pieno del panico più subdolo, ordinò ai suoi uomini il genocidio delle innocenti. Uomini incappucciati andavano di porta in porta a censire i neonati per poi ucciderne le bambine. Laddove una madre piangeva, sangue innocente imbrattava la terra. Una politica di contenimento sadica che creava sempre maggiore fermento nelle folle. Da quei cupi tempi, un maleficio si abbatté sulla triste Contea di Midium: il terreno si colorò permanentemente di rosso, le nuvole grigie non smisero di oscurare il sole nemmeno per un giorno, nessun bambino nasceva più, così nessun fiore o nessun alberello. La vita negli abitanti superstiti scorreva lenta nelle vene, ma nei loro occhi non ve ne era più una sola goccia. Sentivano di tanto in tanto qualche forestiero arrivare e raccontare delle bellezze della Contea di Linghar. La rabbia e l’odio crebbero esponenzialmente, finché il malcontento non si fece realtà ed esplose. Il bel Reame di Linghar fu attaccato e distrutto più volte, e da quel momento non fu più lo stesso. L’invidia e il rancore sono state cause concatenanti di barbare uccisioni che si sarebbero potute benissimo evitare, come in ogni guerra.

    Lunghi anni di guerre e saccheggi avevano messo in ginocchio il ricco e felice dominio, ma di tanto in tanto una sorta di pace bonaria si impossessava dei rigogliosi boschi, defraudati dai vili nemici. Tutto, in quei brevi intervalli, sembrava scorrere tranquillamente e fluidamente, come se il tempo si fosse fermato, come se quel tempo che, inesorabile, scolpisce rughe sui volti dei bambini, si stesse preparando ad una nuova imminente avversità. Terminate queste parentesi di quiete apparente, il clima ripiombava nella tetraggine delle sventure. Gli abitanti dei villaggi e delle città della Contea di Linghar si abituarono a sopravvivere nell’angoscia che affligge i condannati a morte; non abbassavano mai la guardia. Sfruttavano i temporanei momenti di calma per riprendere fiato, ma non s’illudevano che potessero essere duraturi. Attendevano nuovi attacchi, nuove aggressioni, nuove tasse, nuove torture. Si affidarono spesso al Piccolo Popolo per cercare un qualche supporto morale che desse loro quella forza per andare avanti senza che nessuno potesse vedere la paura che alimentava i loro tristi occhi. Questo stato d’ansia durò finché, uno per uno, gli abitanti di Linghar non smisero di pensare al futuro e si concentrarono sul presente. Fu così che, senza che nessuno se ne rendesse conto, i tempi migliorarono. Questa storia si perde nella notte dei tempi e, decenni dopo i terribili attacchi, la prospera Contea sembrava nuovamente rifiorita. Una nuova felicità e un rassicurante benessere erano ormai ospiti fissi delle dimore dei Linghariani. Talvolta anche l’uomo impara dai propri errori e, guardandosi alle spalle, vedendo sangue e morti, si pone alcune domande. Fortunatamente a volte trova anche qualche risposta.

    L’economia all’avanguardia, sebbene atavica, di questo piccolo Regno ne era la prova: un’autosufficienza a prova di guerre e depredazioni, una politica di baratti e compravendite strutturate in modo tale che nessuno potesse essere abbastanza ricco da comprare la casa del vicino e nessuno tanto povero da esser costretto a svendere la propria (2). L’umanità col quale si regnava era una nuova forma di governo sperimentale che pareva funzionare bene: istruzione garantita a tutti, diritti e doveri uguali per ogni uomo e donna, assistenza sanitaria assicurata ovunque e a chiunque e un tetto certo sulla testa di ogni singolo cittadino. Nessuno sarebbe diventato spropositatamente ricco, ma tutti avrebbero avuto la giusta dignità e un sano benessere. La ricchezza, era stato notato da Re Lein, erudito uomo di indubbia sensibilità ed intelligenza, nuoce a chi non la possiede e degrada e corrompe il buon cuore di chi ne ha troppa. Talvolta il possesso di incredibili tesori può portare alla pazzia, come il noto caso di Sir Doug, dalla vicina Contea di Centolaghi. Ogni sera seppelliva i figli e la moglie in giardino con una sola cannuccia di legno per respirare attraverso la terra, in modo tale che lui potesse dormire sogni tranquilli, senza doversi preoccupare che la famiglia tentasse di rubargli qualche bene. Fu arrestato quando, ahi loro, il pazzo Doug si dimenticò di fornire ai malcapitati la cannuccia vitale e l’indomani, disseppellendoli, li trovò morti soffocati. Fu impiccato il giorno seguente. Tutti lo rispettavano e avevano per lui sempre una buona parola; «un uomo a modo», «un vero Signore», «sua moglie? Una stolta plebea» dicevano le bisbetiche del villaggio; «un buon affarista», «un perfetto gentiluomo», «uno svitato dai gusti eccentrici», dicevano gli invidiosi vicini. Eppure un uomo tanto a modo ogni sera perpetrava una violenza disumana sulle persone a cui aveva dato la vita. Un altro colletto bianco che si macchiò di sangue. La stessa gente perbenista era solita criticare e far arrestare, tuttavia, quei poveri padri di famiglia che, sempre nella vicina Contea di Centolaghi, erano costretti ad elemosinare e chiedere qualche tozzo di pane per i figli a casa che non potevano nutrire, a causa della profonda crisi del lavoro che aveva colpito il Reame. Re Lein, conoscendo queste surreali vicende, si chiedeva spesso dove fosse finita la vocazione umana ed etica dell’uomo! Dove si era persa la coscienza? Da quando delle volgari monete valevano più della vita di un uomo? Troppo spesso il saggio Re si rispondeva con verità tristi e avvilenti per un uomo di cultura della sua portata. Nutriva ancora speranza per un avvenire equo e sereno del genere umano, la custodiva nel suo cuore fiducioso, ma poi si ricredeva. Sempre dai confinanti Regni arrivavano voci di piccole rivolte, di uccisioni, di complotti tra i borghesi di una famiglia contro aristocratici di un’altra. Il potere stava prendendo, purtroppo, il posto principale nella vita dell’uomo. I rapporti andavano perdendosi, si tradivano amici di vecchia data o compagni in affari, per arrivare sempre più in alto, dimenticandosi i sani valori che, invece, dovrebbero guidare un uomo integro e dignitoso. A Re Lein questo nuovo mondo faceva paura. Non era troppo vecchio e dal candore dei suoi quarantadue anni sentiva di non appartenere ad un epoca così cupa e corrotta. La sua Contea non era ancora stata toccata dalla cupidigia e dalla bramosia di potere, tuttavia i confini erano ostacoli non così invalicabili. Il Male avrebbe potuto invadere anche il suo piccolo specchio di pace. In cuor suo si sentiva che non avrebbe regnato a lungo, ma era sempre più risoluto nel portare avanti i suoi nobili compiti di governatore e giusto giudice, di scrupoloso organizzatore e umile padre di tanti e tanti sudditi che in lui credevano. Voleva lasciare un buon segno, voleva insegnare quel poco che aveva imparato dall’onesto padre, voleva che la gente che abitava la sua Contea non cedesse alla brama di un volgare potere, ma che si legasse eternamente a quei valori etici e moralmente irreprensibili di cui finora aveva fatto buon uso.

    Era un inguaribile romantico il saggio Re Lein.

    Capitolo 2 - Re Bastian

    Il grande e onesto Re Bastian, padre amato e stimato di Lein, Edith ed Erio, lasciò la corona al figlio maggiore Lein, quando ancora egli era adolescente. Gli strascichi delle guerre con la Contea di Ghiandarotta ancora non si erano assopiti del tutto. Qualche nemico dimorava ancora tra le intime amicizie di corte. Re Bastian lo sapeva perfettamente questo e, perennemente vigile, si guardava bene dall’eccedere nelle confidenze. Amava molto i suoi tre figli e la dolcissima moglie Estel, sposata quando ancora erano fanciulli, secondo il rito del matrimonio combinato.

    Stava molto attento a tenerli tutti al sicuro e lontani dai pericoli, ma quelli, talvolta, non se ne curavano e, sebbene non fossero attesi e benvoluti, s’infiltravano nell’intimità della nostra sicurezza, rovinandola irrimediabilmente. Il Re era un uomo non molto alto, di mezza età, con barba e baffoni morbidi e rossicci. Il suo viso rotondo e simpatico ispirava il consenso e la benevolenza dei sudditi. Usava vestirsi come un qualsiasi uomo: blusa bianca, pantaloni stretti infilati in stivali di cuoio e un mantello spartano. Portava sempre con sé un fazzoletto azzurro ricamato dalla moglie quando ancora erano promessi sposi; lo portava nel taschino della blusa, sul cuore. Vi erano ricamate di rosso le iniziali dei loro nomi, immersi in una cascata di fiori e farfalle. Lo amava tanto e adorava raccontarne la storia. Aveva, inoltre, sempre una cintura di cuoio con intarsiate delle rune (3), la fibbia di questa era di argento e risplendeva sovente quando scostava il mantello dalla grassoccia pancia. Sulla fibbia vi erano dei decori finemente incisi. Fiori, rune e un cervo s’intrecciavano all’interno del suo ovale. Aveva già in mente di investire il figlio Lein ufficialmente della carica di vice-re durante la Festa di Beltane (4). Aveva anche già pensato chi affiancargli per i primi anni del governo (temeva che l’inesperienza l’avrebbe potuto corrompere e portare su una cattiva strada). Il suo nome era Hopi: una giovane strega, molto controversa; talvolta timida, altre esuberante, talvolta triste, altre euforica. Era stata una fedele e ottima consigliera. La chiamava quando il suo cuore di uomo non sapeva che percorso intraprendere. Lei avrebbe certamente aiutato il figlio a regnare giustamente, quando fosse venuto il momento. Gliel’avrebbe fatta conoscere in gran segreto prima dell’investitura. Ahimè, il destino beffardo non sempre lascia il tempo per concludere gli affari terreni!

    Il giorno in cui gli tesero l’agguato era in sella al suo fiero destriero, rossiccio e grassottello come il suo cavaliere; si stava recando ad una battuta di caccia, una consuetudine che talvolta svolgeva con i consiglieri più fidati. Il Re se ne andava in giro sovente da solo, non voleva una scorta che potesse perder la vita al posto suo, non lo trovava giusto; non si sentiva più importante di nessuno né pensava che la sua vita potesse valere più di quella di un qualsiasi garzone. Mentre si trovava sul sentiero, alla sue spalle, dal bosco che costeggiava il percorso, una voce di donna, concitata e terrorizzata, lo raggiunse:

    «Scappate, scappate più veloce che potete… scappate! Sta arrivando!»

    Il Sire si voltò spaventato di scatto, e d’istinto chiese:

    «Chi va là?»

    «Non ha importanza, mio Re, scappate più veloce del vento… vuole la vostra testa… Correte!» e ansimante, la voce di ragazza, si perse nella silvana oscurità.

    Si volse verso la strada, dinanzi a sé, e cominciò ad incitare il suo fedele amico: «Vai, Bucefalo, amico mio, vola fino al castello» e senza voltarsi indietro iniziò una corsa tremenda, in preda al terrore e a mille domande. Non fece molta strada che sentì un dolore lancinante. Abbassò lo sguardo e vide una freccia nera, bagnata di una sostanza viscosa simile a pece, uscirgli dal petto sanguinante.

    «Corri più che puoi amico mio, è l’ultimo viaggio che avrò l’onore di condividere con te. Bucefalo, portami da Estel e dai bambini» disse a fatica tra la voce tremolante e il respiro che si faceva sempre più debole. Tentò di voltarsi per vedere chi fosse il suo aguzzino, ma sentì che le forze e l’equilibrio lo stavano abbandonando. Si accasciò sfinito sul suo destriero galoppante che, lesto, anche se con molta difficoltà, lo portò al castello. Subito Estel e i figli lo raggiunsero nel cortile, avvisati dalle trombe allarmate delle vedette. Il Re si lasciò scivolare da cavallo, tra le braccia di un amico in preda al panico. Qualcuno si occupò del cavallo, sudato e ansante, stremato dalla fatica. Estel corse dal marito morente e, accarezzandogli il viso, gli domandò in lacrime cosa fosse successo. L’uomo disse affannosamente:

    «Ag… agguato. No…n fidarti, am…ore mio. Lein… vieni».

    Lo spaventato Lein, di soli sedici anni, si avvicinò al padre e, con gli occhi traboccanti di lacrime, disse:

    «Ditemi padre, sono qui per servirvi».

    «Il Regno ora è tuo, figlio mio… Regna con on… onestà, umil…tà e giusti…zia. Non lasc… lasciare che l’oscurità s’impossessi del tuo buon cuore. Avrai una speciale consigliera con te, oltre a tua madre… si chiama Hopi… Ri…cordati le mie parole… Vi… vi amo tutti».

    E pronunciando queste ultime parole spirò tra le braccia dell’amico, con la moglie che in lacrime e straziata gli teneva la mano e i figli che lo abbracciavano inconsolabili. Le lacrime degli eredi bagnarono le esanimi spoglie in ossequioso silenzio. Singhiozzi s’intervallavano a tristi sospiri. Nessuno riusciva a capacitarsi dell’accaduto.

    Estel, chinata sull’uomo, ancora legata alla sua mano, sentì che stringeva qualcosa di morbido tra le dita. Gli aprì delicatamente la mano e vide il fazzoletto azzurro che il marito tanto amava, intriso di sangue e con un buco al centro. La freccia avvelenata l’aveva colpito alle spalle, andando pericolosamente vicino al cuore, ma ferendolo comunque mortalmente. Doveva aver trafitto il fazzoletto che, prontamente, staccò dalla presa della punta e strinse in mano fino agli ultimi respiri.

    Lein era il fratello maggiore e si sentì subito responsabile per la famiglia. Prese le parole del padre come un forte impulso per debellare gli atti vili come quello che l’avevano privato del genitore e creare un Regno sano e forte, virtuoso e produttivo, senza il marciume che le vecchie guerre avevano lasciato. I funerali si svolsero il giorno seguente, con metà della Contea presente e in lutto per la perdita, non solo di un giusto sovrano, ma anche di un valoroso uomo, esempio di moralità e giustizia, onestà e bontà, virtù e saggezza.

    Il corpo fu cremato nel cortile del castello. Le ceneri vennero sparse un po’ per tutto il territorio. Nel silenzio di una dimora in lutto, il rumore dei tristi pensieri e dei cuori che sanguinano dal dolore rende inquieto ogni spirito. Un rumore silenzioso. Un rumore che non esiste, ma che penetra nelle coscienze e nel subconscio dei tristi discendenti. Nessuno parla. Tutto tace e si fonde in un silenzio talmente assordante che l’animo si contorce dal dolore e urla un grido terrificante, che nessuno può sentire.

    Lein se ne stava rannicchiato sul suo letto, accanto alla sorellina Edith che non smetteva di singhiozzare. Guardava con sguardo perso e assente lo spigolo del pavimento. Fissava quel punto da ore, distraendosi ogni tanto solo per accarezzare la testolina della sorella. Sentiva un peso soffocante al petto. Un qualcosa di impalpabile che gli stringeva in una morsa gelida il cuore e che gli impediva di respirare normalmente. Amava tantissimo il padre e non si dava pace.

    Tutto a un tratto, spalancò gli occhi ed esclamò:

    «La cintura! Non aveva la cintura!»

    Capitolo 3 - Hopi

    Lein era cresciuto in fretta dopo la morte dell’amato padre. Nella sua mente non poteva cancellare quegli occhi morenti mentre gli affidava il Regno. Erano tanto fieri l’uno dell’altro, ma l’orgoglio e la vergogna a volte fanno restare mute parole che, invece, dovrebbero essere urlate.

    È pur vero che, non nelle parole, ma nei fatti si dimostrano i veri sentimenti. Ed entrambi coglievano ogni singolo gesto d’affetto ed ogni timido segno di stima.

    Dopo i funerali aveva per lungo tempo cercato sui sentieri e per boschi la tanto amata cintura del padre, ma senza esito. Oramai non se la ricordava nemmeno granché bene. Serbava gelosamente il fazzoletto che la madre Estel aveva ricamato per Bastian e che, dopo la sua morte, ella lavò accuratamente e riparò con minuziosa precisione. Lo donò al figlio quando prese in sposa la bella Anthiel, dama di grande cultura e raffinatezza, amante delle arti e dal gusto sopraffino. Purtroppo, nel lungo matrimonio, non riuscì a dare a Lein un erede, condannando così la fine della sua stirpe. Lein non se ne preoccupò mai, in quanto aveva un fratello giovane, forte e vigoroso al quale poteva lasciare il comando. Amava molto sua moglie, non l’avrebbe mai tradita nemmeno per avere il tanto desiderato erede (cosa che, invece, spesso accadeva nelle corti di ogni Regno. Talvolta le mogli sterili venivano persino giustiziate o fatte segregare in grigie torri e lasciate a morire in silenzio, di una terribile e lenta agonia. La morte per inedia toglieva alle malcapitate anche il lusso di poter urlare il loro dolore per la poca forza che rimaneva loro).

    Erio era spesso in viaggio; non era un buon politico, né tantomeno un buon comandante od organizzatore. Era diametralmente opposto al fratello Lein. Quando Bastian morì, Erio aveva poco più di nove anni. Soffrì molto e si attaccò in modo viscerale alla madre, che lo coccolò e viziò finché poté. Mentre Lein volle impegnarsi nel diventare l’uomo probo e giusto che era, Erio si limitò a godersi la vita, avendo in sé maturato l’idea che essa può scivolar via in un qualsiasi momento, senza lasciar spazio a ripensamenti o seconde possibilità. Entrambi i pensieri erano plausibili e comprensibilissimi, scaturiti dalla medesima tragedia, eppure così radicalmente opposti. Il primo sembrava quasi temere gli eccessi e l’abuso sfrenato della buona sorte, rifugiandosi in una realtà pacata, composta e morigerata, l’altro pareva esorcizzare la paura della morte, godendosi le proibizioni di una vita sregolata e, talvolta, sfidandola.

    Non era affatto un uomo cattivo o stupido, solo aveva un tremendo timore di farsi mancare qualcosa; temeva di morire prima ancora di aver imparato a vivere. Lein pensava alla famiglia, al futuro, a costruire qualcosa di robusto nel tempo, ad essere un uomo giusto e amato; voleva lasciare ai posteri qualcosa di buono e, senza presunzione, anche un piacevole ricordo di sé. Erio, invece, pensava solo a se stesso; a godersi appieno una vita che a lui e soltanto a lui poteva appartenere, senza pensare di avere un figlio a cui affidare il proseguo della stirpe (sebbene ne avesse vari sparsi qua e là per il Reame) o a lasciare un segno del suo passaggio. Probabilmente neanche ci aveva mai pensato. In realtà sentiva il tempo scivolargli addosso, e quando tentava di arrestarlo per assaporarselo, ancora più velocemente questo gli sfuggiva. E allora si dava ad un altro viaggio, un’altra sbronza solenne, un’altra scommessa sconsiderata, un’altra donna nell’ennesimo letto e così via. La sua fonte di sostentamento era la caccia. Aveva ereditato dal padre la buona mira, che gli rendeva bene alle competizioni più importanti. Caccia di cervo, cinghiale, orso o tiro al bersaglio, con arco o con pugnali. Si destreggiava bene anche con la spada e con la lancia. Fin da piccolo aveva dato prova di essere un ottimo tiratore.

    Lein, invece, trovava la caccia un’attività riprovevole e degradante. Non sopportava le inutili uccisioni di animali al solo scopo ludico e stava difatti per emanare un editto che vietava suddette competizioni e passatempi. Trovava oltremodo disdicevole che un figlio di Re si comportasse in tali modi in mezzo ai

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1