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Le iguane di Gusvar
Le iguane di Gusvar
Le iguane di Gusvar
E-book232 pagine3 ore

Le iguane di Gusvar

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Info su questo ebook

Nel piccolo borgo marinaro di Gusvar si intrecciano le vicende di due famiglie tra loro molto diverse: i Basthian, pescatori, nativi del luogo e i Fernaspe, Tom e la moglie Nicole, proprietari di una villetta di vacanza il cui ingresso è impreziosito da due iguane di pietra di origine Maya. Il ritrovamento in mare del corpo di Pepi Spanovitz, noto costruttore edile, accende l’interesse della comunità. Le indagini condotte da un tenace Delegato di polizia cercano di far luce sulle tragiche modalità dell’annegamento, finendo per coinvolgere Tom Fernaspe, giornalista di successo e il giovane Jonas Basthian, sino a una conclusione drammatica di cui le iguane di pietra sono testimoni.
LinguaItaliano
EditoreGM Libri
Data di uscita27 lug 2020
ISBN9788855289047
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    Anteprima del libro

    Le iguane di Gusvar - Sandro Guidorizzi

    libri@gmlibri.it

    Prologo

    La brezza del mare... molto tempo fa

    Chi oggigiorno desiderasse raggiungere la cima del selvaggio promontorio sovrastante il borgo marinaro di Gusvar, si ritroverebbe a saggiare la bontà delle proprie gambe, dovendosi arrampicare sin lassù per un impervio sentiero che si diparte dall’ultimo pugno di case in riva al mare. La traccia, da percorrere passo dopo passo con gli occhi a terra per schivare spuntoni di roccia e radici d’ulivo disseminati ovunque, mena con varie circonvoluzioni alla sommità, ove fa bella mostra di sé un rustico edificio in pietra annesso a un piccolo faro tuttora in uso. Messo piede all’interno attraverso un portoncino, solido nonostante gli anni e le intemperie, il visitatore verrebbe inevitabilmente attratto da una vecchia pergamena fissata a un semplice telaio di legno illuminato da una finestrella ricavata negli spessi muri perimetrali. Su di essa, una breve poesia, vergata a larghi caratteri in inchiostro di china, riesce a catturare l’attenzione di chi sa soffermarsi, prima a leggere, e poi a riflettere sull’ispirazione lirica dell’ignoto autore.

    Brezza del mare a Gusvar

    Srotola le nubi,

    piega la nebbia,

    abbraccia la marea,

    parla alle rocce, e

    alle dimore vuote

    di uomini senza radici

    racconta un rapido

    passato.

    Si narra che questi versi fossero stati composti da un navigante, scrittore e poeta, sbarcato più di un secolo addietro da un veliero, tramite una scialuppa che lo aveva traghettato sino alla spiaggia in prossimità delle case dei pescatori. Le ragioni di tale fatto non vennero mai chiaramente alla luce, tuttavia tra la gente del posto serpeggiava la convinzione che il forestiero volesse sfuggire a un’epidemia scoppiata a bordo, e, per questo motivo, nei primi tempi, tutti si tenevano ben alla larga dalla casa isolata ai margini del villaggio in cui aveva preso dimora. L’uomo, di età non più giovanile, una gran barba da profeta, corporatura snella ma di fibra vigorosa, era riuscito dopo poco tempo a insediarsi al faro in qualità di guardiano. Isolato sulla cima del promontorio, aveva trascorso quasi dieci anni meditando e scrivendo. Il forestiero non mancava però di scendere in paese durante i giorni di festa, sedendosi a bere un bicchiere di vino alla locanda, ove soleva leggere a un uditorio, che nel tempo si era fatto più attento e nutrito, i suoi racconti ambientati in posti di mare lontani e sconosciuti, ricchi di arcane suggestioni che catturavano la stupita attenzione degli ascoltatori. La piacevole consuetudine si era interrotta bruscamente con l’improvvisa e misteriosa scomparsa del personaggio, che se ne era andato così come era venuto, lasciando come pegno della sua permanenza la poesia sulla Brezza del mare a testimoniare l’incanto che gli ispirava la natura del luogo.

    Tuttavia un differente pegno, e di ben altra natura e consistenza, si venne a manifestare pochi mesi dopo la sua dipartita – apparendo con ciò palese la ragione del suo repentino dileguarsi – attraverso la venuta al mondo di un bel maschietto partorito con serena discrezione da una delle figlie nubili della famiglia Basthian. Con spirito pragmatico il patriarca del clan Basthian accolse senza fare drammi il nuovo venuto, idealmente prendendolo a bordo come futuro membro dell’equipaggio sulla loro imbarcazione per la pesca in mare. Alla sfortunata donna rimase l’eco dei racconti sospirosi e una reputazione macchiata dall’onta del peccato carnale consumato con il guardiano del faro.

    Questa storia, tramandata, come altre, di generazione in generazione, era patrimonio della famiglia Basthian, insediata da tempo immemore nel piccolo borgo di Gusvar. Un piccolo borgo sito sul litorale dell’incantevole Costa degli Ahvari, il cui nome deriva dal gruppo etnico che sin da epoche remote si era insediato nella regione, attratto dal clima favorevole e dalla struttura del territorio, variegato e selvaggio, in grado così di offrire un naturale riparo dalle incursioni di popolazioni ostili ed errabonde alla ricerca di nuovi insediamenti e di nuove conquiste.

    Le iguane di Gusvar

    I

    Barche in mare

    (molto tempo dopo, in un anno imprecisato del XX secolo)

    Analogamente a molte località della Costa, anche Gusvar aveva beneficiato dell’impetuoso sviluppo economico del Paese a partire dalla fine della guerra. Ciò tuttavia non aveva cambiato di molto lo stile e le consuetudini di vita, da sempre orientate allo sfruttamento ingegnoso di tutte le possibili risorse locali, in primis quella del mare, visto come un serbatoio alimentare di inesauribile potenzialità. E basterebbe a dimostrarlo appunto l’abilità dei Basthian nella cattura del pesce, tramite una variegata strategia di insidie sapientemente messe in atto a bordo della Santa Anita, la barca di famiglia.

    Come naturale prolungamento delle attività in mare, le femmine della famiglia gestivano una piccola rivendita di pesce, alimentata durante la stagione balneare anche da saltuari approvvigionamenti al mercato ittico del vicino capoluogo, e spesso offerti alla clientela di città come appena portati a riva con la loro barca. Questa innocente astuzia, lungi dal provocare sensi di colpa a chi la metteva in atto, al contrario, veniva considerata un favore prestato all’ignaro compratore, che in tal modo, secondo i concetti non proprio campati in aria di mamma Adelaide, avrebbe gustato con maggior entusiasmo il prodotto venduto.

    Dei maschi Basthian, si distingueva nella piccola comunità di Gusvar il giovane Jonas, il quale, oltre alla invidiabile padronanza del mestiere in mare secondo le migliori tradizioni familiari, aveva saputo coltivare, a differenza dei suoi coetanei locali, una vasta serie di interessi e conoscenze. Ciò in virtù di uno straordinario spirito di curiosità e di una acuta capacità di riflessione, costruita attraverso un processo mentale intuitivo assai singolare per velocità di elaborazione e, per così dire, bizzarro nel suo dispiegarsi. Certamente la sua preminenza era aiutata da un aspetto fisico assai particolare rispetto a quello comune della popolazione del villaggio. Caratterizzata questa, causa anche l’abitudine di sposarsi tra locali, da tratti somatici non propriamente conformi ai classici canoni di bellezza, laddove un’abbondante peluria nera arricchiva le parti a vista e quelle nascoste di entrambi i sessi, con nasi generosi, gambe corte e andature dondolanti, che, per qualche stravagante antropologo, erano dovute alla consuetudine a equilibrare il moto ondoso trasversale nel quotidiano lavoro sulle barche da pesca. Tuttavia confutabile, questa teoria, dal fatto che non ne erano esenti neppure le donne, che di regola non uscivano mai in mare.

    Non si sa spiegare quindi come Jonas, di fisico asciutto e agile, ben proporzionato di spalle, con fianchi stretti e mani forti ma affusolate, occhi azzurri e dentatura regolare che un sorriso dolce e aperto metteva in mostra insieme al dispiegarsi gradevole di piccole rughe a lato degli occhi, segno manifesto della consuetudine al lavoro in piena luce, avesse dunque egli un aspetto del tutto diverso dai normotipi della costa. A tal proposito c’era chi in famiglia non mancava di fare esplicito riferimento ai geni trasmessi dal guardiano del faro, lontano e misterioso personaggio venuto da fuori, autore di storie e composizioni poetiche, con l’aiuto delle quali aveva incantato la mente e approfittato del corpo di una remota progenitrice.

    Prima della partenza per la pesca notturna, particolarmente nelle sere di tarda estate, Jonas amava isolarsi sul piccolo molo costruito a protezione delle case del paesino, a osservare l’andare lento e monotono della risacca che arrotolava lingue di acqua scura attorno ai massi affioranti, coprendo e scoprendo le colonie di piccoli animali e vegetali a essi abbarbicati, uniti a fornire una comune ragione di vita organica. Da essi si sprigionava forte l’odore di salmastro, dolce ma penetrante, un brusio di nenia dondolante avanti e indietro, interrotta da piccoli rigurgiti di aria intrappolata in qualche anfratto. Sospiri del mare, che i miti delle storie passate mettevano in bocca alle sirene o ad altri esseri marini antropomorfi, personaggi femminili ingannevoli e inafferrabili, compagni della fantasia o dell’illusione di chi in mare sa di dover stare a lungo e senza certezze.

    Le poche luci davanti alle case mostravano i preparativi per la pesca notturna, con rade figure di pescatori ormai pronti a salpare dalla spiaggia, avendo trascinato sino alla battigia le barche su larghi pali di legno ingrassati di sego e incisi dai segni di scorrimento di innumerevoli chiglie. Oooh-hop, uno strattone via l’altro, lo scafo sapeva percorrere con riottosa inerzia il tratto di cammino dall’arenile sino all’acqua, ove, abbandonata la goffaggine terrestre, si dondolava in serena maestà pronto ad accogliere gli uomini che alla voce si coordinavano all’imbarco.

    Jonas, salito che fu sulla Santa Anita, apparecchiata quella sera con le nasse e le esche necessarie per la pesca delle aragoste, tuffò i remi nell’acqua nera per dare un primo abbrivio lento e solenne all’imbarcazione. Si mosse la Santa Anita lasciando una leggera scia di piccoli vortici d’acqua alla poppa, mentre il padre Bergi Basthian si industriava al centro della barca per l’avvio sempre lunatico del motore diesel. Avvio che si manifestava, dopo un attimo di silenziosa suspense, con uno scoppiettio rumoroso, accompagnato da ritmici sbuffi di fumo, denso di particelle incombuste tipiche della prima inefficiente alimentazione di infreddolite molecole di gasolio nei cilindri del motore.

    «È partito subito anche stavolta!»

    Bergi manovrava soddisfatto la manetta del gas, inserendo la trazione dell’elica di bronzo per un primo sobbalzo in avanti, seguito dall’aumento dei giri motore sino al regime di navigazione, ove valvole, bielle, albero motore e di trasmissione si armonizzavano in un rassicurante rumore di parti metalliche tra di loro cooperanti.

    Jonas, semisdraiato a prora, osservava il cielo stellato sopra di sé, godendosi la sera senza luna, calma e tiepida, la schiena appoggiata alla matassa di sagole pronte per essere calate in acqua, il viso appena illuminato dalle deboli luci di posizione, appagato dall’atmosfera distesa e foriera di buoni auspici che pareva accompagnare la navigazione. Amava il suo mestiere. Le crisi dell’adolescenza, innescate dalla sofferta interruzione degli studi, gli avevano lasciato solo un piccolo tarlo che sapeva tenere ben sepolto nel profondo. Di contro aveva imparato ad apprezzare i vantaggi di una vita scandita dai ritmi della natura, che gli offriva proprio in quel momento la sensazione di essere in pace con Dio e con il mondo.

    «Mi sa che è la sera buona che se ne vengono a mangiare a ca’ Basthianin» disse Jonas, intendendo con ciò materializzare l’immagine di una schiera di aragoste e granchi giganti entrare in parata nelle loro nasse calate sul fondo.

    «Sì ma per mangiare, ce ne han di tempo da aspettare... che venga un poco di chiaro» rispose Bergi, tirando una boccata di fumo da una sigaretta umida e spiegazzata, estratta da un pacchetto di carta gualcito che teneva nella tasca interna della cerata insieme agli zolfanelli.

    Sbucata che fu la Santa Anita oltre l’ombra di Punta Grixella, i Basthian avvertirono un che di mutato nell’aria. Si era alzato un tiro di vento non forte, ma sgradevole. Provava Jonas fastidio forse per via dell’imprevisto scomparire di una tranquillità appagante, sostituita subitamente dalla consapevolezza che il lavoro che li attendeva sarebbe stato più faticoso e complicato. Al rinforzarsi del vento, Bergi si era lasciato andare a una bestemmia mentre dava più gas al motore, per contrastare un accresciuto battere di onda contro il fianco della barca. Spingendo lo sguardo nell’oscurità, scorgevano le luci della costa a un paio di miglia in lontananza, a delineare il contorno del golfo che stavano attraversando per portarsi a ridosso di Capo Valdez, ove si trovava il luogo fissato per la pesca. A sovrastare le colline a corona del golfo, appariva, alla luce dei lampi, un ammasso di nuvole temporalesche, imponenti in altezza e minacciose nel loro accendersi, come alimentate da una fornace interna, le cui scariche elettriche arancio-carminio si perdevano brontolando nelle labbra scure del cumulo nembo.

    «Si va, si cala in fretta, si torna subito. Sfogato il temporale stanotte, domattina siamo qui a recuperare i visitatori di ca’ Basthianin» sentenziò Bergi dopo alcuni minuti di riflessione, seduto a poppa con la barra del timone saldamente impugnata nella destra, dando la massima propulsione al natante. Jonas annuiva nel buio, non era certo il tipo da lasciarsi impaurire da un temporale in mare, tuttavia sentiva montargli dentro una certa inquietudine, che cercava di scacciare con fastidio. Avvertiva in modo oscuro non tanto un pericolo per sé, quanto un disagio nel portare a termine una missione che stava prendendo un verso balordo, alla cui rinuncia si sarebbe pagato, al più, il prezzo irrisorio di qualche commento ironico al bar del paese: «E adesso i Basthian si mettono paura di due gotte di acqua». Nulla di irritante o provocatorio, piuttosto qualcosa di simile a un bonario riscontro e una indiretta conferma, se mai ce ne fosse bisogno, circa la responsabilità con cui gli uomini di mare sono avvezzi a trattare gli elementi naturali che li riguardano da vicino, con sentimenti improntati a un rispetto reverente, se non a una trepidazione sottile, quando si fa riferimento alle prerogative di sua maestà il mare, nel cui dominio si entra in punta di piedi, sapendo bene di avere a che fare con una forza potente e ostinata, che non rende favori a nessuno, quando decide altrimenti.

    «Non ci metteranno paura due gotte di acqua» esclamò Bergi al primo scroscio di pioggia, come avesse letto nei pensieri del figlio.

    Allacciata per bene la cerata sino alla punta del mento, i due avevano raggiunto la zona stabilita per la calata delle nasse sul fondo, mezzo miglio dalla punta del capo, a giudicare dalla luce del piccolo faro che si intravedeva tra le strisciate di pioggia, ove una secca del fondale offriva una eccellente probabilità di cattura. Le onde spinte dal vento imprimevano allo scafo un rollio che intralciava il maneggio delle nasse, nella cui gola si dovevano imboccare le esche contenute nel secchio sul fondo della barca, e rollando lui medesimo insieme a tutto il resto, di alcune se ne era già sbarazzato, esondandole sui paglioli infradiciati.

    «Butta!» aveva ordinato Bergi, riducendo i giri del motore e manovrando per tenere sottovento il bordo della barca da cui doveva operare Jonas.

    Il lembo meridionale del temporale era ormai al di sopra del capo, la pioggia aveva aumentato la propria intensità e cadeva con un brontolio di gocce sonore, picchiettando la cerata di Jonas, che si affrettava al disbrigo di quanto era nel suo incarico: calare a fondo la sagola di testa con il suo galleggiante di segnalazione, filare il giusto valutando lo scarroccio della barca e mettere a mare la fila di nasse innescate.

    Prima che il vento aumenti, altrimenti... Il pensiero di Jonas aveva il tono di una invocazione di fronte a un chiaro presagio. Sapeva infatti che quella relativa calma di vento era un preludio a ben più severe condizioni, come se l’aria si spostasse davanti alla tempesta, lasciandole il passo con una sorta di elegante riverenza. Un breve intervallo scandito da una calma minacciosa, come un piccolo spazio lasciato aperto, in cui il vento di burrasca potesse con più forza precipitarsi.

    E così avvenne. Sbucando da terra dietro la sommità di Capo Valdez, le nubi si buttarono sul mare con un’ampia curva discendente, comprimendo l’aria al di sotto in una progressione titanica, a sprigionare una infilata di scariche elettriche e turbini di vento che schizzarono sulla superficie del mare, trascinando con sé mulinelli di spuma bianca. La Santa Anita, presa all’improvviso, ruotò su se stessa disponendosi di traverso al vento, sbandata sull’acqua.

    Jonas aveva appena calato la seconda nassa. Si trovò la sagola girata al di sotto della chiglia, catapultato sul bordo sottovento, a stento trattenendo con una mano l’attrezzatura, l’altra aggrappata al bordo per non perdere l’equilibrio.

    Volando sul mare assieme al colpo di vento, una nube d’acqua si abbatté sulla Santa Anita con un ruggito di soddisfazione.

    Non era certo la prima volta che i Basthian affrontavano una situazione di burrasca in mare e, in molti casi, in condizioni anche peggiori, con onde alte e formate, dalle bianche creste schiumanti, soprannominate dai locali aragostoni, a significare quanto battessero duro con la loro superficie contro gli ostacoli che incontravano sul loro cammino. O la mitica onda madre, la più alta di un treno di tre, in arrivo da sud che, dopo aver percorso centinaia di chilometri sospinta dai venti portanti, si frangeva con fragore sulla spiaggia, chiudendo la sua corsa con una sorta di coup de théâtre, ovverossia elevandosi alquanto nelle ultime decine di metri di volata, mano a mano che la parte bassa rallentava sul fondo sabbioso avanti il litorale, sino a modellarsi in un ricciolo perfetto, lunghissimo, parallelo alla costa, verde smeraldo striato di linee bianche, che si richiudeva su di sé come una tenaglia dalle liquide mascelle, da cui prorompevano cascate di spuma bianca. Spuma destinata a esibirsi in un conclusivo, voluttuoso, lento e delicato slinguamento della porzione terminale di spiaggia bagnata. Subito dolcemente ritratto.

    Entrambi sapevano cosa fare e come comportarsi in queste circostanze. Impugnando il coltello che aveva con sé, Jonas tagliò la cima che aveva in mano per consentire alla barca una più libera manovra. Mentre portava a termine l’operazione, un improvviso frangente sbucato dall’oscurità lo sbilanciò di nuovo costringendolo, con l’aggrapparsi al bordo, ad abbandonare la presa, lasciando inesorabilmente inghiottire dai flutti il suo amato coltello.

    «Andiamo più a terra, al riparo del capo!» Con un grido rauco Bergi aveva iniziato a manovrare per dare alla Santa Anita un abbrivio sufficiente a rompere l’assedio degli elementi, che sembravano imprigionare mortalmente lo scafo in una liquida rete, ordita tra i torrenti discendenti dalle nuvole basse e i fiotti di spuma che si sollevavano dal mare in mulinelli repentini.

    Al chiarore dei fulmini, Capo Valdez appariva vicino, sporgendo il suo muso tozzo e vuoto nell’acqua, come un gigantesco animale acquattato nel buio.

    Il motore improvvisamente cessò di funzionare. Il familiare borbottio che si accompagnava in sottofondo a tutta la congerie di sonorità e fragori dodecafonici apparecchiati per la circostanza da madre natura, si spense, lasciando un vuoto di sgomento presto riempito da grida e imprecazioni dei due uomini. Jonas con un balzo sbarazzò a mare le

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