Miraggi africani
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Miraggi africani - Stefania Falasco Volpin
L'autore
PARTE I
1
Il sole sorgeva al di là del Kilimanjaro, come ogni mattina. L’aria era fredda, pungente; ci sarebbe voluta almeno un’ora buona prima che potesse scaldarsi con i primi raggi. Poi le nuvole avrebbero abbandonato, pigre e riluttanti, la cima della Montagna che Brilla, come ogni mattina.
Talib si era svegliato presto. In realtà, non aveva quasi chiuso occhio per tutta la notte. Come tutti i Moran del villaggio, dopo il rito di circoncisione i nuovi giovani guerrieri Masai avrebbero dovuto iniziare a dare prova del loro grande coraggio. Era il primo giorno da soli nella savana, da veri guerrieri.
«Alzati, Azibo! È tardi, dobbiamo andare. Oba! Sadiki! Questo vale anche per voi… volete sembrare degli smidollati? Le ragazze del villaggio poi non vi degneranno di uno sguardo.»
Con un grugnito, Azibo e Oba abbandonarono il rude giaciglio, goffi e assonnati. Avevano rispetto per Talib, anche se erano coetanei. Inconsapevolmente l’avevano già eletto leader del gruppo.
Talib aveva tredici anni ma era più alto degli altri. Si era dipinto il volto con cura; l’ocra rossa mescolata al grasso prendeva forma e vita sul suo viso, sulle braccia, sul petto, attraverso i rapidi e decisi tocchi delle sue giovani ma sapienti dita. Le piume di struzzo, delicatamente e accuratamente posate sui lunghi e nodosi capelli, impregnati anch’essi di grasso animale, completavano l’immagine virile che Talib voleva dare di sé. Come ogni vero guerriero che si rispetti, con serietà aveva preso questo nuovo ruolo che l’avrebbe tenuto lontano dal villaggio d’origine per molto tempo.
I tre giovani si misero in cammino, addentrandosi nel bush. I primi ciuffi d’erba cominciavano ad affacciarsi timidi sulla collina, incoraggiati dai brevi ma intensi scrosci d’acqua di quegli ultimi giorni. I ragazzi erano ormai abituati alla rapida metamorfosi che, ogni stagione, trasformava improvvisamente il paesaggio: la terra secca e arida beveva avida le prime grosse gocce e in poco tempo tutto intorno era un tripudio.
I primi a festeggiare erano gli insetti, di tutte le taglie, che tornavano a tormentare i giovani guerrieri in cammino. Sembrava se ne fossero stati nascosti per mesi, ad aspettare il momento buono per uscire allo scoperto, tutti insieme, a infestare bestiame e umani. Come stupidi buffoni, appostati tra le rughe della vecchia Madre Terra, si divertivano a sorprendere i passanti con i loro stupidi scherzi. Saltavano fuori a centinaia, striscianti, volanti, appiccicosi, pericolosi. Ma per un guerriero Moran erano solo un trascurabile, immeritevole fastidio.
In fondo, si sa, la pioggia era sempre una gran benedizione. Prima di tutto per il piccolo gregge di capre del villaggio, che finalmente aveva qualcosa da brucare (oltre alle scarpe faticosamente assemblate con gli avanzi dei copertoni che i muzungu abbandonavano incuranti in ogni dove) e poi per gli animali della savana tutti.
Ai Masai in realtà interessavano soprattutto quelli di piccola taglia, che si potevano cacciare con più facilità, grandi felini permettendo: impala, facoceri, piccoli uccelli. Era difficile, sì, ma non impossibile. E poi c’era il sogno inconfessato di ogni vero guerriero: simba, il leone, il re della savana. È vero, i tempi stavano cambiando e non era più come il laibon, il capo del villaggio, raccontava nei suoi aneddoti, ma il desiderio di colpire a morte con la propria lancia un leone maschio, appropriarsi della sua criniera, adornarsene e farsene vanto con tutti restava la ragione primaria che li spingeva a percorrere chilometri sotto il sole cocente.
Bisognava sbrigarsi; in men che non si dica, se la stagione delle piogge era davvero iniziata, le pozze si sarebbero riempite, i fiumi avrebbero raggiunto di nuovo la loro portata massima e di conseguenza i branchi si sarebbero presto dispersi in un territorio più ampio. Sarebbe stato più impegnativo trovare qualche preda, per le quali sarebbe stato un gioco da ragazzi nascondersi tra l’erba sempre più alta.
2
«Ragazzo, tutto bene? Ti senti bene?» Il ragazzo non rispose. Pareva non avesse nemmeno sentito, camminava curvo, barcollante.
«Tieni, prendi da bere.» Dovette allungare il passo per raggiungerlo, lo prese per un braccio per fermarlo.
Allora si voltò, come se si fosse accorto solo ora che qualcuno si stesse rivolgendo a lui.
Il ragazzo aveva gli occhi troppo grandi, gonfi, che vagavano persi, come se non si capacitassero. Le pupille sembravano galleggiare su una ciotola di latte di capra appena munto.
«Bevi.» Gli allungò la sua borraccia. Il ragazzo bofonchiò qualcosa e ne tracannò avidamente tutto il contenuto. Pareva essersi accorto solo ora dell’arsura che gli aveva seccato la gola e tagliato le labbra.
«Vieni, siediti un attimo qui all’ombra dell’acacia.» Il ragazzo lo seguì remissivo, confuso. Si lasciò cadere come un sacco vuoto, esausto.
«Come ti chiami?»
«Talib.» Bene, se non altro rispondeva, capiva. Il sole cocente non aveva fatto danni. Del resto non doveva dimenticare che la pelle coriacea e i capelli crespi non erano una casualità della natura.
«Cosa ti è successo? Dove sono i tuoi compagni?» Era evidente che fosse un guerriero Moran, anche se non aveva con sé la lancia. Era troppo strano che fosse solo.
«Cosa ti è successo?» ripeté in swahili.
«Sadiki, Sadiki...» balbettò il ragazzo. E le lacrime sciolsero i suoi occhi scuri in un pianto finalmente liberatorio.
«Dovevo proteggerlo, dovevo proteggerlo…»
«Calmati