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Spellbound
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E-book508 pagine7 ore

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Info su questo ebook

Mike, un giovane liceale americano, si trasferisce, dopo la morte del padre, in Inghilterra, a Spellville, paese d’origine della madre. Ancora provato nel profondo dalla morte del padre, accetta questo trasferimento controvoglia, per ritrovarsi addirittura iscritto alla prestigiosissima St. James, una scuola privata di antichissima origine ammantata nel mistero della leggendaria Sarah Blunt. A colpire Mike, però, non sono solo i compagni, che ben presto si trasformeranno in fidati amici, ma la bellissima e altrettanto misteriosa Meredith Bennett, una ragazza di eterea bellezza che sembra vivere in una cupa solitudine, nonostante le incredibili doti. Tutto questo sarà solo l’inizio di un fitto mistero, ma soprattutto di un amore capace, forse, di superare perfino gli ostacoli della morte. 
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2020
ISBN9788830632417
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    Anteprima del libro

    Spellbound - Angela Zullino

    Spellbound

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: «Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere».

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi, ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei Santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre, è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi, potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Ringraziamenti

    Vorrei ringraziare il Gruppo Albatros - Il Filo, e in special modo: Anna Elia (per essere stata di nuovo la prima a credere nel mio progetto) e Marco Puci, oltre alla redazione, alla produzione e alla tipografia (in particolare Chiara Angioni), per avere seguito passo a passo la realizzazione di questo libro. Ringrazio anche l’Ufficio Stampa, e in particolare Filippo Lastaria.

    Un ringraziamento particolare va alla mia famiglia: nonni, zii e cugini. Una menzione d’onore va a mio zio Lorenzo, per l’entusiasmo da lui dimostratomi. Più di tutti, ringrazio mia madre e mio padre, senza i quali questo libro non avrebbe mai visto la luce.

    Ringrazio anche tutti gli insegnanti che ho incontrato nella mia vita, perché da ciascuno di loro ho imparato qualcosa; e, in particolare: la professoressa Maria Enrica Allaria e il professor Alessandro Bordin, che mi conoscono e mi sostengono da sempre.

    Ringrazio inoltre tutti i miei amici (in special modo: Silvana, Clarissa e Andrea), e, come sempre, Giovanni, semplicemente per tutto. Ringrazio inoltre le prime due persone che hanno appreso di questo nuovo libro, e che per prime mi hanno sostenuta: Anastasia, per essere un’amica straordinaria; e Mattia, per tutti i momenti trascorsi insieme.

    Infine, ringrazio tutti i miei lettori, presenti e futuri, e soprattutto quanti mi hanno seguita fin dall’inizio di quest’avventura. Grazie, grazie, grazie a tutti.

    A mia zia Rosanna (zia Rosy),

    perché so che avrebbe tanto voluto leggere questo libro.

    «È sciocco chi si vuole opporre all’amore,

    come se si potesse fare a pugni con lui.»

    (Sofocle)

    I – OCCHI VIOLA

    Spellville, settembre 2008

    Mike non aveva idea che il suo primo giorno alla St. James sarebbe stato così. Non aveva idea che il cielo sarebbe stato azzurro – aveva piovuto per una settimana intera – e che l’aria avrebbe avuto quel sapore che solo i primi giorni di settembre hanno. Non aveva ancora neppure finito di imprecare mentalmente contro sua madre, che aveva insistito tanto per iscriverlo a quella ridicola scuola privata.

    «Vedrai che ti troverai benissimo, tesoro. Ho studiato lì anch’io e conservo ancora dei magnifici ricordi degli anni che vi ho trascorso...», gli aveva detto con la voce leziosa che prendeva ogni volta che voleva convincerlo a fare qualcosa che egli non voleva. In quei diciotto anni, le era sempre bastato assumere quel tono per essere sicura che non si sarebbe mai sentita rispondere un no da suo figlio. E così era stato anche quella volta.

    «Maledetta uniforme!», imprecò Mike, sottovoce. «Sembro un pinguino! Neppure al funerale della prozia Rachel facevo così schifo! E avevo nove anni! Papà non avrebbe mai voluto vedermi agghindato così! Un paio di jeans andrà benissimo!, avrebbe detto.». Esatto. Suo padre avrebbe detto proprio così... peccato solo che suo padre non fosse lì; d’altra parte, se suo padre ci fosse stato, Mike non si sarebbe mai trovato in quel luogo. Con uno sbuffo, Mike scacciò quel pensiero e continuò a percorrere il viale alberato che lo avrebbe condotto alla sua nuova scuola. Scuola, che, beninteso, fino a quel giorno (e nonostante l’insistenza di sua madre), si era categoricamente rifiutato di vedere.

    Mike era un ragazzo di diciotto anni, dall’aspetto serio e affascinante, molto alto e con un fisico sportivo. Aveva corti capelli castano chiaro, con la riga a sinistra e un ciuffo appena abbozzato. I tratti del suo viso erano molto decisi e virili, ma al contempo delicati. Aveva un sorriso pulito e cristallino e possedeva una voce profonda e dalle inflessioni molto dolci. I suoi occhi erano grandi, luminosi, e brillavano di un azzurro puro e sincero.

    «Odio questa uniforme! È orribile!», tornò a imprecare, questa volta ad alta voce.

    «Tranquillo! È sempre così il primo giorno! A me è servito un intero anno per abituarmici! Ma, in compenso, pensa al fascino dell’uniforme!».

    Mike si voltò. Un ragazzo veniva verso di lui. Parlava con evidente accento inglese e non poteva che essere un abitante di Spellville.

    «Ciao.», lo salutò il giovane sconosciuto.

    «Ciao.», rispose Mike, osservandolo meglio, ora che gli si era fatto più vicino.

    Era un bel ragazzo, senza dubbio, all’incirca della sua stessa statura, con luminosi occhi color ghiaccio, estremamente freddi e seri, che si scontravano con l’aria divertita che gli conferivano il suo sorriso smagliante e le lentiggini che risplendevano al sole settembrino, che dorava i suoi capelli biondi fino a farli brillare.

    «Scusa se mi sono intromesso, ma ti ho sentito lamentarti e... beh, ti assicuro che so che cosa significa.», spiegò, esibendo un ampio sorriso e portandosi una mano al petto, simulando una finta aria afflitta.

    «Grazie. Siete tutti così gentili da queste parti?», rispose Mike, ricambiando il sorriso e sentendosi riconoscente per la comprensione.

    «Nooo! Cioè, non c’è male, però io, modestamente, sono il re della scuola e i miei modi non possono che essere regali.».

    «Il re della scuola?», ripeté Mike, non sapendo se dovesse ridere oppure no.

    «Beh, sì...», replicò il ragazzo, socchiudendo le palpebre, a metà fra serio e divertito. «È un ruolo difficile, sai? E... perché no? Se ti comporterai bene – e guarda che ho detto se – potrei anche decidere di ammetterti nella mia corte. È un grande onore, sai?».

    «Non ne dubito...», sorrise Mike, stendendogli la mano e accennando una specie di inchino. «Mike Hamilton, per servirla, maestà.».

    «Ricky Macmillan. È un piacere.».

    «Credevo che voi inglesi foste più freddi.».

    «Non siamo tutti così. Oltre al fatto che io ho antenati scozzesi da parte di mio padre. E poi io mi occupo di pubbliche relazioni, quindi devo mostrare un certo savoir faire...».

    «Ovviamente.», convenne Mike, mentre riprendevano il cammino.

    «Di dove sei?», chiese Ricky, curioso: doveva aver notato il suo accento straniero.

    «Di Washington.».

    Ricky scoppiò in una fragorosa risata.

    «Cosa c’è?», sbottò Mike. Non gli piaceva che deridessero la sua casa.

    «Niente, niente, scusa! È solo che non capisco come si possa lasciare Washington per venire a rinchiudersi a Spellville!».

    «Già. Me lo chiedo anch’io...». Mike avrebbe voluto dire qualcos’altro, perché sentiva che Ricky era in attesa di una spiegazione più dettagliata, ma il nodo alla gola che avvertiva ogni volta che gli tornava in mente suo padre non gli consentì di andare oltre.

    «Odio questa uniforme!», disse dopo un momento, stropicciandosi i pantaloni blu e guardando di traverso una manica della giacca dello stesso colore.

    «S’intona ai tuoi occhi.», gli disse Ricky, rivolgendogli uno dei suoi sorrisi affascinanti.

    Mike, tuttavia, non fu molto convinto dalle parole del suo nuovo amico e continuò a sbirciarsi di sottecchi la camicia bianca e la cravatta azzurra fino a quando giunsero a scuola, non dimenticando mai di rivolgere di tanto in tanto un’occhiata sprezzante allo stemma della St. James, una sorta di scudo blu e verde dal bordo dorato, sul quale era disegnata una freccia dorata che trafiggeva un cuore rosso, con il bordo ugualmente ricamato in filo dorato; lo stemma era cucito sulla giacca, proprio in corrispondenza del suo cuore. Mike non poteva certo immaginare che, molto presto, anche quello sarebbe stato trafitto...

    A passo spedito, Mike continuò a percorrere ancora per qualche minuto il viale lastricato, fiancheggiato da due file di alberi, una per lato, e alla destra del quale si innalzava un alto muro, da cui spuntavano le cime di altri alberi. Camminava al fianco di Ricky. Gli piaceva quel ragazzo. Istintivamente, almeno. Gli ricordava uno dei suoi vecchi amici, Johnny. Anche lui era sempre stato il re della scuola, anche se non si era mai definito tale. Chissà che cosa stavano facendo in quel momento lui e gli altri... La scuola non era ancora cominciata a Washington, ma era questione di ore. O, meglio, di fusi orari... Ma che cosa stava dicendo? I suoi vecchi compagni di classe dovevano essere già partiti per il college! Soltanto lui, Mike, era costretto ad un altro anno di scuola superiore...

    Ma che cosa ci faceva lui lì? Il suo posto era con loro, e non lì, in quella ridicola scuola inglese, frequentata da gente ancora più ridicola, che indossava delle uniformi mille volte più ridicole! No, Ricky non era ridicolo, si disse. Però...

    «Avete degli alberi molto belli, qui in Inghilterra.», disse Mike, per riempire il silenzio.

    «Grazie. Sono di Sarah Blunt.», rispose Ricky, con semplicità.

    «Di chi?», fece eco Mike.

    «Di Sarah Blunt.», ripeté Ricky, con ovvietà.

    Mike lo guardò interrogativo, ma lui si limitò a ricambiare il suo sguardo, sorridendo in modo appena accennato.

    «Sono querce, vero?», proseguì Mike, sperando di scoprire qualcosa di più.

    «Faggi, a dire la verità. Ma non preoccuparti: non credo che Sarah Blunt verrà a rapirti dal tuo letto stanotte per questo piccolo errore!».

    Ricky rise di nuovo, mentre Mike cominciava a chiedersi se fosse del tutto sano di mente.

    Ma dove sono capitato?, pensò, alzando gli occhi al cielo, sconsolato.

    Girarono un angolo, continuando a costeggiare l’alto muro di pietra.

    «Ci siamo.», esclamò a quel punto Ricky. «Benvenuto alla St. James, la seconda scuola più antica della Gran Bretagna.».

    «E qual è la prima?», chiese Mike, incuriosito.

    «Non ne ho idea! Ma, qualunque fosse, è stata distrutta da un incendio più di cento anni fa, quindi ora è la St. James a vantare il primato.».

    Con le mani sui fianchi, Ricky contemplò l’imponente edificio che si ergeva a poca distanza davanti a loro, circondato da quel muro di pietra che avevano così a lungo costeggiato, e davanti alla cui facciata era posto un enorme cancello, già aperto per consentire il passaggio di studenti e insegnanti.

    «Queste sì, sono querce, prima che tu me lo chieda... Ma queste non sono di Sarah Blunt; cioè, non proprio: sono di sua sorella, Mary Jane.».

    «Ed è un vantaggio per me?».

    «Non direi, visto che è stata lei ad uccidere Sarah! L’hai guardata bene?».

    «Cosa?», chiese Mike, perplesso, mentre Ricky continuava a starsene lì impalato, con le mani sui fianchi e un’espressione di enorme orgoglio impressa sul viso.

    «Ma la St. James, cos’altro?!».

    «Ne vai molto fiero?».

    «Ma è ovvio! Qui hanno studiato i più grandi personaggi della Storia d’Inghilterra! Esserne parte è uno dei più grandi onori che ti possano capitare nella vita!».

    «Davvero?». Mike inarcò le sopracciglia, scettico.

    «Stai per entrare in uno dei Templi della Saggezza, mio caro. Considerati fortunato.». Ricky trasse un lungo sospiro di soddisfazione.

    Mike contemplò l’edificio. Si trattava di un palazzo che conservava ancora le torri gotiche costruite nel XII secolo. Ciononostante, vi erano state senza dubbio apportate alcune modifiche che avevano mutato non poco la struttura originaria. La facciata, infatti, mostrava la sobrietà tipica vittoriana. Nell’insieme, l’effetto che ne risultava era piuttosto inquietante. Mike fu percorso da un brivido. Si chiese se sarebbe mai arrivato a provare per quella scuola gli stessi sentimenti di orgoglio e venerazione che palesava Ricky. In quel momento, quell’idea gli parve del tutto irrealizzabile.

    «Che cosa è rimasto dell’edificio originario, quando la struttura era interamente in stile gotico?», chiese.

    Ricky strabuzzò gli occhi.

    «Ma non sai proprio nulla su questo posto?», proruppe, a metà fra sorpreso e sconcertato. «Quando i miei genitori mi hanno iscritto a questa scuola, mi hanno raccontato praticamente tutto quello che c’era da sapere sulla sua storia!».

    «Beh, mia madre non mi ha detto nulla...», si giustificò Mike, sentendosi a disagio. «Io non ho voluto sapere nulla.», soggiunse, più sinceramente.

    «Ma ora sei curioso, eh? Comunque, non è mai stato un edificio completamente gotico. La scuola risale al I Secolo dopo Cristo. Fu fondata da alcuni monaci missionari, se non ricordo male. Si trattava di una piccola casupola, poi annessa ad un monastero con tanto di chiesa, che vennero costruiti in seguito. La scuola era in realtà un luogo dove si impartivano semplici lezioni di base. Fu soltanto nel Duecento che i monaci che la gestivano decisero che era il caso di cominciare ad istruire i ragazzi di buona famiglia, come si stava già facendo nelle neonate università. Ma questa non è mai stata un’università: non ne aveva la pretesa, perché il suo scopo era quello di essere aperta a più persone possibile e, ovviamente, il numero di coloro che frequentavano l’università era ancora molto esiguo... In quel periodo, quindi, la parte più vecchia dell’edificio fu ricostruita secondo il gusto dell’epoca, ossia in stile gotico. Nel Cinquecento, però, la scuola fu costretta a chiudere e venne quasi completamente distrutta, così come il monastero e la chiesa, dei quali oggi non rimane più nulla.».

    «Per quale motivo?».

    «La St. James era gestita da monaci cattolici e il re Enrico VIII ordinò che venisse chiusa. Fu riaperta solo quarant’anni dopo, grazie alla regina Elisabetta, che la trasformò in una scuola protestante. L’edificio venne ricostruito ancora una volta e l’insegnamento rimase attivo fino alla fine del Settecento, quando la famiglia Blunt acquistò la scuola, con lo scopo di renderla privata e laica. Le cose andarono bene fino al 1857, quando la scuola fu parzialmente distrutta da un incendio. A quel punto, passò nelle mani dello Stato, che riedificò le parti crollate secondo lo stile vittoriano e l’affidò poi alla famiglia Charrington, che la gestisce tuttora.».

    «Capisco... Ma perché non è rimasta nelle mani dei Blunt?».

    «Beh, perché tutti i membri di quella famiglia si erano estinti.».

    «E che cosa era loro successo?».

    «Beh, Sarah... Però!».

    «Cosa c’è?».

    «Non cosa c’è, ma chi c’è!».

    Ricky guardava dritto davanti a sé, verso la strada che proveniva da sinistra. Mike vide nel suo sguardo qualcosa che lo colpì. Seguì i dardi fiammeggianti che scagliavano i suoi occhi e vide dove tentavano invano di conficcarsi: una ragazza camminava verso la scuola. Li aveva già superati ed era quindi di spalle. Mike la vide avanzare, tenendo due o tre libri stretti al petto. Mike non poteva vederla in viso, ma qualcosa nella sua andatura decisa, eppure elegante, e nell’ondeggiare dei suoi lisci e fluenti capelli castani, che le coprivano le spalle e buona parte della schiena, gli fece intuire che cosa stesse passando nella mente di Ricky.

    «Chi è?», chiese.

    «Una dea. La regina di questa scuola.», rispose Ricky, in tono sognante.

    «È anche la tua regina?».

    «Magari lo fosse!», sospirò Ricky.

    «Ti ha detto di no, eh?».

    «Già. E non solo a me...», ammise Ricky, amaramente, cercando forse di sminuire il suo fallimento personale con quella precisazione. «Dai, andiamo, altrimenti faremo tardi. A proposito, io sono dell’ultimo anno, e tu?», soggiunse, più vivacemente.

    «Anch’io.».

    «Bene. Allora potremo stare vicini, se vuoi. Ma dobbiamo sbrigarci, o perderemo i posti migliori.».

    «Credevo andassimo a scuola, non a teatro!».

    «Sì, ma... anche a scuola c’è qualcosa che merita di essere... contemplato.».

    «Credo di aver capito. Ti seguo.».

    Ricky s’incamminò verso la scuola, con Mike che gli trotterellava al fianco, incerto su cosa pensare. Stava per entrare nel Tempio della Saggezza al fianco del re della scuola, la quale poteva vantare anche una regina... Quello che lo sconvolgeva di più, però, era la misteriosa Sarah Blunt, di cui aveva già sentito fare il nome non ricordava più quante volte in meno di dieci minuti.

    Chiederò spiegazioni alla mamma: lei ha studiato qui, ne saprà certamente qualcosa., si ripromise Mike.

    Varcarono il cancello, al pari di tanti altri ragazzi e ragazze, che indossavano la loro stessa divisa. Mike si sentì investito da una strana sensazione. Era come Ricky aveva detto: esattamente come appressarsi ad un tempio. Attonito, si chiese se la sensazione su di lui prodotta dall’aver semplicemente mosso qualche passo sul prato di quella scuola sarebbe mutata una volta entrato al suo interno e, se così fosse stato, in che modo.

    Socchiudendo i suoi penetranti occhi azzurri, Mike aspirò l’aria fresca.

    «Che cos’è questo profumo?», chiese.

    «Gelsomino bianco.», rispose Ricky, prontamente.

    «Non sapevo fiorisse a settembre.».

    «Infatti. Ma qui c’è sempre questo profumo, anche a Natale, benché in inverno sia il gelsomino giallo a fiorire.».

    «Perché?».

    Ricky si strinse nelle spalle.

    «Sarah Blunt, immagino.», rispose. «Ehi, ciao, Albert! Passato delle belle vacanze?», soggiunse, rivolto ad un ragazzo dai capelli neri, che gli aveva appena fatto un cenno con la mano da una certa distanza.

    «Sì, maestà!», rispose Albert, con un sorriso.

    «Vuoi dirmi chi diavolo è questa Sarah Blunt?», saltò su allora Mike, che cominciava davvero ad irritarsi con quella Sarah Blunt e, soprattutto, con Ricky.

    «Te lo dirò, ma non ora. Quelle laggiù sono rose. Cioè, è un roseto, ma le rose ormai sono quasi tutte appassite.».

    «So riconoscere da solo una rosa, grazie. Sai, comincio a pensare che tu sia il tipico primo della classe!».

    «Nooo, non lo sono, anche se ho sempre avuto una B in scienze... Non nego che mi piacerebbe essere il primo della classe, ma purtroppo quel primato spetta a qualcun altro.».

    «E chi sarebbe?».

    Ricky stava per rispondere, quando scorse in lontananza un capannello di persone.

    «Stai per essere introdotto nella mia corte. Vieni.».

    I due si diressero verso il gruppetto di persone. Si trattava di un paio di ragazzi cui, proprio mentre Mike e Ricky stavano per raggiungerli, si erano unite due ragazze. Mike indovinò dalle loro espressioni un po’ rammaricate che stessero discutendo delle vacanze appena trascorse.

    «Ehi, ultimo anno!», salutò Ricky.

    «Guardate chi c’è! Sua maestà Ricky Macmillan!», esclamò uno dei ragazzi, allegramente.

    Ricky fu ricevuto da un coro di saluti. I ragazzi gli diedero pacche sulle spalle, mentre lui si chinava a baciare la mano delle ragazze.

    «Chi è il tuo amico?», chiese lo stesso ragazzo.

    «Lui è Mike Hamilton. È appena arrivato da Washington e sto seriamente considerando di ammetterlo nella mia corte, quindi guai a chi di voi osa trattarlo male.».

    «Ricevuto. Non ci presenti?», replicò l’altro ragazzo, quello con i capelli più scuri.

    «Sì, certo. Allora... Le signorine sono Martha Watson e Cathy O’Brien. Questi, invece, sono Eddie Stevenson e Henry Williams. Per la cronaca, Eddie e io ci conosciamo da una vita e lui è stato il mio primo suddito, mentre Lady Watson è la promessa sposa di Sir Williams.».

    «Davvero?», chiese Mike, incuriosito e divertito insieme dal linguaggio pomposo di Ricky.

    «Stiamo insieme, ma non sono la sua promessa sposa.», si affrettò a chiarire Martha, una ragazza molto minuta e delicata, con profondi occhi verde pistacchio e capelli biondi, che portava quasi sempre raccolti in una treccia.

    «Per ora...», precisò Henry, un bel ragazzo dall’aria seria e compita, molto alto – a differenza della sua promessa sposa – con capelli e occhi incredibilmente scuri, che contrastavano con il suo incarnato chiarissimo.

    «È un piacere conoscervi.», disse Mike, stringendo la mano a tutti loro.

    «Washington...», meditò Martha «Non sono mai stata lì. Com’è?».

    «Beh, è casa mia, suppongo.», rispose Mike, dopo aver ponderato la domanda per un momento.

    «Vedrai che ti troverai bene anche qui.», lo rassicurò lei. Aveva un’aria molto dolce, notò Mike, esaltata inoltre dai profondi occhi verdi.

    «Sì, Martha ha ragione. Spellville non è poi così male, per viverci. Anch’io ho vissuto a Washington, per un certo periodo. Papà aveva degli affari lì, ma poi ha deciso che la vecchia Inghilterra gli mancava troppo e così siamo tornati qui, lui, mia madre, la mia sorellina e io. Papà però va lì molto spesso. Almeno tre o quattro volte l’anno. Ma non sta mai via molto.», raccontò Ricky.

    «Di cosa si occupa?», s’incuriosì Mike.

    «Non l’ho mai capito con esattezza. Credo che si occupi di navigazione, o qualcosa di simile. In ogni caso, credo che prima o poi dovrò capirlo, visto che mi toccherà prendere il suo posto!».

    «E tuo padre di cosa si occupa?», chiese allora Cathy, i cui lunghi capelli castani, molto mossi e ribelli, e gli occhi scuri e fiammeggianti accentuavano la sua personalità, che Mike avrebbe presto scoperto molto forte e tenace.

    «Lui...», iniziò Mike.

    «Ehi, Ricky, guarda laggiù!», lo interruppe Henry. Nel profondo del suo cuore, Mike gliene fu grato, perché non era ancora pronto a parlare di suo padre.

    Videro Henry ammiccare, fissando un punto alle spalle di Mike e Ricky. Tutti si voltarono da quella parte.

    «Sbaglio, o quella è la tua regina?», continuò Henry, con malizia.

    «Ehi, è vero!», gli fece eco Eddie – che a Mike sembrava il più tranquillo e silenzioso del gruppo, ma che aveva sempre un’espressione sbarazzina nei vivaci occhi grigio-verdi – mentre Martha e Cathy arricciavano il naso, contrariate. A Mike bastò un solo sguardo per capire perché.

    La ragazza che lui e Ricky avevano intravisto mentre si dirigeva verso il cancello poco prima stava ora passando a pochi passi da loro. E, questa volta, Mike la vide. Vide i suoi capelli scuri ondeggiare sulle sue spalle ancora una volta, mentre lei avanzava con lo stesso passo deciso di poco prima. Vide il suo incarnato pallidissimo, quasi etereo. Vide i suoi occhi risplendere alla luce del sole. Sembravano azzurri, ma, quando attraversò una zona d’ombra, Mike comprese che non potevano essere azzurri. Verdi, forse? No, non erano verdi... Ma allora di che colore erano? Mike non avrebbe saputo dirlo...

    Mike contemplò i suoi lineamenti. Erano freddi, rigidi. I muscoli del suo viso sembravano non aver mai sorriso. Eppure, da essi traspariva qualcosa che Mike non avrebbe saputo descrivere. Era come se quella ragazza fosse, in qualche modo, ultraterrena. Che sciocchezza!, si disse. Tuttavia, quella sua fermezza, che si rivelava ad ogni suo movimento, ad ogni suo passo, ad ognuno dei rapidi gesti con i quali ravviava i lunghi capelli... Tutto di lei emanava una dolcezza infinita, impenetrabile. Come se vivesse solo per portare a termine una missione, come se la sua esistenza non fosse legata ad altro che alla necessità di apportare qualcosa al mondo. O alla vita di qualcuno. Solo la durezza dei suoi modi tradiva che doveva esserci dell’altro. Come se la grazia infinita della quale sembrava essere dotata dovesse, per qualche ragione, rimanere celata fino al momento in cui avrebbe dovuto o potuto essere svelata. Mike non aveva mai visto nessuna ragazza così. Si sentì stregato.

    Si chiese dove fosse stata in tutto quel tempo: da quando lui e Ricky l’avevano vista, non era ancora entrata. Perché?

    «Non so che cosa ci troviate in lei.», borbottò Cathy, voltandosi dall’altra parte e assumendo un’aria imbronciata, mentre Mike constatava che loro non erano stati gli unici a girarsi verso la ragazza, perché almeno la metà degli studenti presenti nel cortile aveva fatto altrettanto.

    «Già.», fece eco Martha.

    «Siete solo gelose!», replicò Eddie.

    «Gelose, noi? Eddie, non essere idiota!», proruppe Cathy, punta sul vivo.

    «E tu ricordati che stai con me!», Martha apostrofò Henry, che stava ancora contemplando il punto in cui la ragazza era scomparsa, vale a dire la soglia della scuola. Mike stava facendo altrettanto.

    «Non avreste tutti i torti ad essere gelose. Lei è... lei.», esalò Ricky.

    «Parli così solo perché sei innamorato di lei. Sono anni che sei in queste condizioni pietose. Quando lo capirai che di te non-ne-vuole-sapere?», sbottò Cathy, stizzita.

    «Non è solo di me che non ne vuole sapere. Metà degli studenti di questa scuola le ha chiesto di uscire e lei ha sempre rifiutato. E l’altra metà degli studenti avrebbe voluto chiederglielo, solo che sapevano che sarebbe stata una battaglia persa in partenza e perciò hanno desistito.», ribatté Ricky, seccato.

    «Ha detto di no al re della scuola, come potrebbe accettare di uscire con chiunque altro?», aggiunse Martha, lusinghiera.

    «Forse il nostro giovane Washington avrà più fortuna di noi...», rifletté Ricky. «Cosa ne pensi? Ehi, Washington?».

    «Sì? Scusami, ero distratto.», ammise Mike, afferrando in ritardo che Ricky si stava rivolgendo a lui.

    «Sì, lo avevamo notato.», rise Eddie.

    «Anche tu le hai chiesto di uscire.», gli rammentò Ricky.

    «È stato secoli fa! Ormai non ci penso più. Cioè, non nego che eserciti ancora un certo fascino anche su di me, ma tu sei davvero malato, amico mio!», scherzò Eddie.

    «Come si chiama?», chiese Mike, come riavendosi da un sogno.

    «Meredith Bennett.», rispose Eddie.

    «Meredith Bennett...», ripeté Mike, lentamente. «Un nome... normale.», constatò, quasi deluso. Eppure, non poteva fare a meno di notare come pronunciare quel nome gli provocasse una strana sensazione.

    «Di... Di che colore sono i suoi occhi?», chiese.

    «Viola.», rispose Martha, prontamente.

    «Viola?», ripeté Mike, stupito.

    «L’hai osservata bene, eh?», commentò Henry, per pungolare Martha.

    «Non ho mai sentito di nessuno che avesse gli occhi viola.», ammise Mike.

    «Neanch’io. A parte Sarah Blunt, è ovvio.», disse Ricky.

    «Cosa?», si stupì Mike. «Ma questa Sarah Blunt è lo spauracchio della scuola, una specie di uomo nero al femminile per chi non ha voglia di studiare, o cosa?».

    «Non sai chi è Sarah Blunt?», esclamò Henry, sgranando gli occhi.

    Proprio in quel momento, però, dall’interno si sentì suonare la seconda campanella, quella d’inizio delle lezioni.

    «Andiamo!», invitò Ricky.

    «Sta’ tranquillo: tutti sanno che il posto d’onore è tuo!», gli gridò dietro Martha, mentre Ricky si lanciava verso l’entrata della scuola.

    II – PRIMO GIORNO ALLA ST. JAMES

    Come Mike aveva sospettato, o forse temuto, la strana sensazione che aveva provato nel giardino della scuola non poté che aumentare una volta che fu al suo interno. Notò che quel gradevole profumo di gelsomino che l’aveva pervaso poco prima si era ora lievemente attenuato. Forse lì la fantomatica Sarah Blunt non esercitava il suo potere? Era presto per dirlo.

    L’interno della scuola era ancora più strabiliante dell’esterno. La prima cosa che colpì Mike fu la temperatura: i muri di pietra la rendevano molto bassa. Credette che neppure in estate avrebbe potuto indossare una t-shirt. Forse era per quello che l’uniforme prevedeva la giacca anche in primavera e in estate... Per il resto, era tutto assolutamente superbo: ogni dettaglio di quella scuola trasudava antichità. Mike comprese appieno che cosa Ricky avesse voluto dire, informandolo che stava per entrare in uno dei Templi della Saggezza, perché era esattamente così che Mike si sentiva: come uno studioso che penetri i misteri di un antico edificio, e non come un qualunque studente dell’ultimo anno.

    L’atrio era enorme, con un’ampia scalinata di marmo. Le pareti erano coperte di quadri che – Mike ne era certo – dovevano essere opera di artisti famosi. I colori predominanti nei dipinti, così come nell’arredamento, peraltro piuttosto scarso, erano cupi, ma non tanto da risultare spaventosi o grotteschi. L’atmosfera aveva un che di sepolcrale, e ogni quadro, ogni gradino, ogni tappeto, ogni piastrella del pavimento di marmo, ogni foglia dei ficus posti negli angoli emanava quiete. Mike aveva provato una pace simile solamente visitando un cimitero.

    Gradualmente, più di un centinaio di studenti stava affollando l’atrio. Le loro voci riempivano l’aria, ma quella pace da poco sperimentata da Mike persisteva. Non era naturale. Non assomigliava a nulla che Mike avesse mai provato nella sua vita. Una volta di più, quel primo giorno alla St. James, si sentì stregato.

    «Sei pronto, Washington?», gli chiese Ricky.

    «Non chiamarmi Washington! Per cosa?».

    «Per il tuo primo giorno. Adesso stiamo davvero per iniziare e, ti assicuro, qui si fa sul serio. Il primo giorno alla St. James non si dimentica.».

    «Tu ricordi ancora il tuo?».

    «Beh, certo... Che domanda è? Non tutti i giorni si conosce Sarah Blunt!».

    Mike ebbe un’illuminazione.

    «Ma allora è un’insegnante!», esclamò, battendosi una mano sulla fronte. «Cominciavo a temere che fosse il fantasma della scuola o qualcosa di simile!», aggiunse, del tutto dimentico che Ricky gli aveva detto che questa Sarah Blunt era stata uccisa da una certa Mary Jane.

    «E chi ha detto che è un’insegnante?», rispose Ricky, misterioso. «Dai, andiamo.».

    Finalmente, cominciarono a salire le scale. Mike procedeva rapidamente, per non perdere di vista Ricky, un gradino davanti a lui. Dietro di lui, Martha, Cathy, Eddie e Henry.

    Mike tentava di non venire sopraffatto dalla ressa degli studenti, tenendo sempre l’occhio puntato su Ricky; il risultato fu che non poté ammirare gli stupendi quadri che, sulle pareti, accompagnavano la marcia dei ragazzi. Per coloro che vi erano ormai abituati non costituivano più un’attrattiva, ma lo sarebbero di certo stati per Mike, con i loro personaggi dotati di occhi che, al pari della Monna Lisa di Leonardo, sembravano seguirvi dovunque andaste. Sembravano vivi, tanta era la maestria con la quale erano stati raffigurati, e sarebbero stati anche capaci di farvi sentire in colpa se aveste copiato durante un compito in classe, tanto il loro sguardo era penetrante e severo. Mike riuscì soltanto a scorgere di sfuggita un dipinto, che rappresentava un vecchietto dall’aria corrucciata e arcigna, con un evidente cipiglio e un’espressione di rimprovero impressa negli occhi neri, adombrati dalle sopracciglia bianche e cespugliose.

    Gli studenti dell’ultimo anno, il primo giorno, si ritrovavano sempre in biblioteca. Si era sempre fatto così e tutti – tranne Mike – lo sapevano. Fu per questa ragione che i ragazzi si diressero verso di essa, senza la minima esitazione. Quando giunsero lì, al terzo piano (ossia l’ultimo), percorsero il lungo e spoglio corridoio dalle pareti color crema e dal pavimento di marmo rosato. Mike notò che erano rimasti in pochi.

    «Quanti siamo?», chiese.

    «Con te, siamo in ventitré.», rispose Ricky.

    Mike non poté non gettare un rapido sguardo a quelli che sarebbero stati i suoi compagni di quell’anno. Almeno, questa fu la giustificazione che trovò con se stesso. In realtà, stava cercando una persona in particolare. Trattenne il respiro: non c’era! In nessun gruppo di ragazze, né attorno a loro, né dietro... Ah, no! Eccola!

    Lì, davanti a tutti, Meredith Bennett apriva il corteo dell’ultimo anno. Era sola. Aveva il vuoto attorno. Nessuno sembrava osare avvicinarsi, nemmeno una ragazza. Come se fosse circondata da una bolla trasparente, che teneva chiunque a distanza.

    «Che cosa ha mai fatto di male la tua regina?», chiese Mike, aggrottando la fronte.

    «Ti stupisce vederla sola?», chiese Ricky, inarcando le sopracciglia, a metà fra divertito e rammaricato.

    Mike assentì, distinguendo di nuovo una nota di amarezza nella voce di Ricky.

    «Beh, preparati a vedere di peggio...», sospirò questi, con una punta di sarcasmo.

    Mike stava per chiedere che cosa potesse essere peggio di non essersi fatta neanche un’amica in tutti quegli anni, quando lui ne aveva già trovato uno prima ancora di mettere piede alla St. James, ma si trattenne. Tornò a posare lo sguardo su Meredith, morendo dalla voglia di saperne di più sul suo conto, quando notò qualcosa di strano. Fu solo un istante, ma credette di vedere qualcosa come un lampo di luce sprizzare da lei, dai suoi capelli che dovevano essere seta pura...

    Ma no! – si disse – Sarà stato il riverbero della luce!. Ma non c’erano finestre, in quel tratto di corridoio, e le luci erano spente. Mike si risolse a pensare di averlo solo immaginato.

    Fu allora che Mike cominciò a provare la spiacevole sensazione di essere osservato: gli sembrava che gli occhi di tutti gli studenti dell’ultimo anno fossero fissi su di lui. Questo lo faceva sentire un po’ in imbarazzo, anche se se lo era aspettato. Sperò che non gli facessero pesare troppo il fatto di essere il nuovo arrivato... e per di più dall’America...

    Qualcuna delle ragazze gli rivolse un sorriso timido – era chiaro che Mike non passava inosservato – e un paio di ragazzi gli fece un cenno di saluto con la mano, ai quali Mike rispose prontamente, sfoderando il suo sorriso migliore. Uno di loro si staccò addirittura dal suo gruppetto e gli si avvicinò.

    «Ciao. Io sono Alan Gresham. Sei nuovo, vero?», disse, stendendogli la mano.

    «Mike Hamilton, piacere di conoscerti. Sì, sono appena arrivato.», rispose Mike, stringendogli la mano.

    «Spero ti troverai bene con noi. La St. James è un bel posto.».

    «Grazie.», rispose Mike, mentre Alan ritornava dai suoi amici. Mike pensò che quello fosse un buon inizio.

    Tornò a posare lo sguardo su Meredith. Proprio in quel momento, lei aprì una porta ed entrò. Quella doveva essere la biblioteca. Gli altri studenti dell’ultimo anno entrarono dietro di lei.

    Ovunque erano libri. Di ogni genere. Per lo più si trattava di volumi grossi e polverosi, molti dei quali erano custoditi in bacheche che necessitavano di una chiave per essere aperte.

    Non si trattava di una semplice sala, come Mike si era aspettato, ma di tre stanze di dimensioni inimmaginabili, che comunicavano fra di loro. Al centro della prima di esse erano disposti dei banchi. Dodici, per la precisione, dietro cui erano poste ventiquattro sedie. Di fronte, una cattedra dall’aspetto sinistro, forse a causa del legno, che sembrava avere almeno mille anni.

    «Perché ci sono ventiquattro posti?», chiese Mike.

    «Uno per ciascuno di noi, no? Beh, uno ovviamente rimane libero. A meno che tu non voglia invitare qualche amico, s’intende!».

    «Intendevo dire...».

    «Lo so, lo so... La biblioteca è aperta a tutti gli studenti per consultare dei libri o per studiare, ma soltanto il martedì e il venerdì da mezzogiorno alle due del pomeriggio; tuttavia, soltanto gli studenti dell’ultimo anno fanno lezione qui.».

    «E che genere di lezioni faremo qui? Un corso accelerato di economia domestica per rimuovere tutta questa polvere?».

    «Ma no! Letteratura. Qui studieremo letteratura.».

    «Perché?».

    «Sarah Blunt ha deciso così...».

    «Allora è la preside!».

    «Sediamoci.».

    Ricky aveva un talento unico nell’evitare le domande scomode, rifletté Mike. Mentre così pensava, Ricky gli indicò il posto alla sua destra. Quel gesto dell’indice sembrava imprescindibile. Mike sedette. Martha e Cathy si stavano sedendo nel banco alla sua destra, mentre, alle sue spalle, Henry e Eddie avevano già preso posto.

    «Non ti facevo un tipo da prima fila.», ammise Mike, rivolto a Ricky.

    «Non lo sono... io.», rispose lui, ammiccando alla sua sinistra. Mike si sporse per vedere oltre Ricky.

    «Dovevo aspettarmelo!», esclamò, scuotendo il capo.

    Meredith sedeva lì, occupando il posto più a sinistra, mentre quello alla sua destra era

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