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La Marcia su Roma
La Marcia su Roma
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E-book424 pagine5 ore

La Marcia su Roma

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Info su questo ebook

Uno degli eventi più tragici e importanti della storia italiana

Il 28 ottobre 1922 migliaia di militanti del partito nazionale fascista marciarono alla volta di Roma, per costringere il re Vittorio Emanuele III a porre Benito Mussolini a capo del governo.
Sotto la minaccia delle armi fasciste, il sovrano acconsentì: fu l’inizio del ventennio più oscuro che la storia italiana ricordi. Dalla formazione politica di Mussolini al Biennio Rosso, Giuseppina Mellace ripercorre i fatti che portarono il Paese nel baratro della dittatura, analizzando il contesto storico e culturale che favorì l’ascesa del fascismo. Un’analisi che spazia dalla nascita del movimento interventista alla questione fiumana, dal complesso rapporto tra il Duce e Gabriele d’Annunzio al mito dell’“uomo nuovo” messo in piedi dal regime intorno al suo capo. Un libro che, a cento anni dalla Marcia su Roma, fornisce un’importante panoramica sui processi che portarono a quel 28 ottobre, e sulle sue nefaste conseguenze.

Il racconto delle azioni che portarono alla nascita del regime fascista

• la conferenza di pace
• la commissione per le riparazioni di guerra e la situazione nella Germania
• l’Italia e i trattati di pace
• la pandemia detta la “spagnola”
• la società delle nazioni
• la questione fiumana
• l’impresa di Fiume
• il giovane Mussolini
• 1919: l’inizio del biennio rosso in Italia e in Europa
• la nascita del fascismo
• 1920: l’anno degli scioperi
• 1921: la preparazione della Marcia
• 1922: i primi mesi dell’anno
• la primavera - estate del 1922
• ottobre 1922
• gli ultimi tragici giorni
• le donne e la Marcia su Roma
• il consolidamento del regime
• l’italiano deve diventare fascista
• il fascismo all’estero
Giuseppina Mellace
Nata a Roma nel 1957, di professione insegnante, è anche autrice di pièce teatrali, saggi, romanzi e racconti, soprattutto di tema storico. Ha scritto un romanzo a più mani con il laboratorio di Cinzia Tani. Per la Newton Compton ha pubblicato nel 2014 Una grande tragedia dimenticata, sull’eccidio delle Foibe, con cui nello stesso anno ha vinto il premio “Il Convivio” per la sezione saggistica storica; Delitti e stragi dell’Italia fascista, L’oro del Duce e La Marcia su Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita7 apr 2022
ISBN9788822768438
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    Anteprima del libro

    La Marcia su Roma - Giuseppina Mellace

    Premessa

    Con il talento e la profonda ricerca storica a cui ci ha abituati nei libri precedenti, Giuseppina Mellace racconta la Marcia su Roma, chiedendosi se poteva essere evitata ed esaminando tutto il percorso che ha portato il Partito nazionale fascista a organizzare, il 28 ottobre 1922, una manifestazione rivoluzionaria per spingere il re Vittorio Emanuele

    III

    a consegnare il Paese nelle mani di Mussolini.

    L’autrice ci illustra inizialmente lo stato economico e demografico dell’Europa a cavallo del

    XX

    secolo, ma anche le conquiste nei vari campi: dal vaccino contro la rabbia di Pasteur alla radio di Guglielmo Marconi, alla circolazione delle prime auto, al cinema, all’introduzione della catena di montaggio, solo per citarne alcune.

    Parte da un periodo di pace, di innovazioni e traguardi importanti senza però dimenticare l’annoso problema del divario sociale, con il benessere di pochi e la povertà di moltissimi.

    Giuseppina Mellace ci conduce in un itinerario dettagliato e ricco di informazioni narrando ciò che succede nel nostro Paese e in Europa dalla Conferenza di pace firmata a Versailles il 28 giugno 1919, con i quattordici punti di Wilson e il principio di autodeterminazione dei popoli, fino alla Marcia su Roma tre anni dopo.

    In particolare si sofferma sui conflitti e le questioni non risolte delle trattative, descrivendo con efficacia e analisi certosine le conseguenze, positive e negative, per ogni singolo Paese partecipante. Quali erano le ambizioni del Giappone all’epoca? Cosa succede subito dopo negli Stati Uniti? E in Germania, mutilata di alcuni territori e costretta a pagare un’enorme indennità di guerra?

    E l’Italia? Ci ricorda l’autrice che «era tra le vincitrici, evento straordinario, destinato a non ripetersi più».

    Ottenne il Trentino e l’Alto Adige, Trieste e l’Istria, ma dovette rinunciare alla Dalmazia. Cosa accadde alla popolazione? Spiega l’autrice: «Tre anni di ostilità avevano lasciato un’emorragia di uomini e un indebitamento che rischiava di scatenare un’inflazione ingestibile, che avrebbe potuto determinare un aumento dei prezzi e generare una diminuzione del già scarso potere d’acquisto delle classi medio-basse.

    «Inoltre, si rischiava di non far decollare l’economia post-bellica per i gravi problemi che si prospettavano, come la disoccupazione dei reduci e la mancata soluzione della distribuzione delle terre come promesso ai contadini per invogliarli ad andare a combattere».

    Inquadrando il panorama sociale e politico di quegli anni, aggiunge un tassello importante: la pandemia Spagnola che uccise fino al 1920 decine di milioni di persone nel mondo, un numero superiore a quello delle vittime della Grande Guerra: «Ci furono momenti in cui non si faceva in tempo a seppellire i morti e si dovette ricorrere alle fosse comuni, pur di debellare il contagio».

    Passa poi ad analizzare le diverse ipotesi della sua origine, le prime avvisaglie e le terrificanti conseguenze che ancora oggi ci dovrebbero far riflettere.

    Ci avviciniamo al fulcro del libro con l’impresa di Gabriele D’Annunzio a cui si approda con un percorso articolato che inizia dalla situazione di Fiume nella metà dell’Ottocento.

    Eccoci ora alla nascita del fascismo con un’accurata descrizione della giovinezza di Benito Mussolini, il suo carattere, l’anticlericalismo, la critica al capitalismo e alla ricca borghesia. Il capitolo sulla vita del futuro Duce continua con un importante incontro d’amore, il lavoro come insegnante, le sue letture, gli articoli infuocati che scriveva nel giornale «La lotta di classe», la reclusione per motivi politici, il coinvolgimento nel Partito socialista, oltre al carisma che cominciava a contraddistinguerlo.

    Arriviamo al 1919 descritto così: «Quell’anno, in Italia e non solo, il costo della vita era aumentato quasi quotidianamente, fratturando la popolazione in due blocchi, i ricchissimi e i poverissimi, con la piccola borghesia in netto calo».

    Il libro prosegue con la descrizione particolareggiata della nascita del fascismo per arrivare, nel 1921, alla preparazione della Marcia su Roma.

    Giuseppina Mellace ci spiega che il nostro Paese attraversava un periodo di debolezza, con «una classe media che metteva in luce la sua grettezza morale e la paura dei bolscevichi, gettandosi tra le braccia del fascismo nella convinzione che avrebbero fatto il lavoro sporco e non accorgendosi che li stavano legittimando, con il movimento mussoliniano sempre più forte grazie anche all’aiuto che giungeva non solo dall’aristocrazia, ma anche dalla finanza e dalla stessa magistratura: si cominciava a parlare di una vera e propria guerra civile senza controllo».

    L’insurrezione con cui Mussolini salì al potere alla fine dell’ottobre del 1922 viene definita «la tragica marcia» dall’autrice, che ne ripercorre i momenti fondamentali. Un capitolo è anche dedicato a un argomento poco trattato: il ruolo delle donne nel fascismo e la loro partecipazione il 28 ottobre 1922.

    Il volume si chiude con il futuro Duce che fa il suo ingresso trionfale alla Camera, dopo aver ricevuto dal re la presidenza del Consiglio e la conseguente reazione del giornalismo estero.

    Un libro importante, frutto di intense ricerche (come dimostrano anche i numerosi documenti, la cospicua bibliografia, la filmografia e l’indicazione di fonti giornalistiche), che chiarisce momenti basilari della storia italiana ed europea, ma anche un testo intrigante, scorrevole e coinvolgente. Un lavoro che merita una lettura attenta e partecipe perché risponde a molte domande e pone altrettanti quesiti sui quali riflettere.

    CINZIA TANI

    Introduzione

    La Marcia su Roma poteva essere evitata? È la domanda posta in questo lavoro, che ripercorre gli anni che vanno dalla fine della Grande Guerra fino a quel tragico 28 ottobre 1922.

    Esaminando le principali tappe storiche di quel periodo, vedremo come l’Italia uscì da un conflitto che solo pochi avevano voluto, ma di cui poi in tanti rivendicarono la paternità, gli appetiti territoriali e non solo.

    Proprio da quelle vicende emerse un periodo di impressionanti difficoltà: la fragilità degli equilibri internazionali, la pandemia detta la Spagnola che falcidiò la popolazione, le crisi economiche, il malcontento popolare.

    I governanti si dimostravano più attenti a guadagnare terre che a risolvere i problemi della gente. Personaggi più o meno importanti seppero sfruttare la situazione, creando, almeno per un breve periodo, l’illusione di un cambiamento radicale: ne fu un esempio l’impresa di Fiume, che molti ritennero una prova generale di quella successiva di Mussolini.

    Di questo non possiamo essere certi, ma di sicuro il futuro capo del fascismo seppe fare propri il carisma, l’eloquenza e il fascino che Gabriele D’Annunzio esercitava sulle persone.

    Non a caso Anna Kuliscioff scriveva, quasi profeticamente, al suo compagno nella vita e nel Partito socialista italiano Filippo Turati il 26 settembre 1919:

    L’appello al paese su Fiume sì o no italiana è arrischiato e poi rinvia la questione alle calende greche, col rischio che nel frattempo i militari riescano a fare un colpo di mano anche a Roma. […] Decisamente in Italia le rivoluzioni rosse o bianche si fanno soltanto col permesso del governo. ¹

    Non dimentichiamo poi le diverse fazioni politiche che, pur se attente alla situazione dei lavoratori, non seppero cogliere l’occasione, chiuse in sterili attese di una rivoluzione che non arrivò mai, se non per mano di Mussolini.

    Comunque, il Duce portò avanti una lotta che logorò lo stato liberale tutto in poco più di due anni, con una lenta ma costante marcia di conquista che aveva come obiettivo il potere e, secondo il suo punto di vista, il compimento del processo risorgimentale, sfruttando l’assoluta impreparazione della classe politica del tempo nell’affrontare un mondo che era uscito profondamente cambiato dalla Grande Guerra e che non poteva tornare indietro.

    Si assistette all’emergere delle masse popolari, che calarono nelle quotidianità le esperienze vissute in trincea, come i valori della lotta e del cameratismo, per costruire una società diversa, nuova, nella cui edificazione anche il popolo poteva giocare un ruolo attivo.

    1 Giulia Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 3.

    La Conferenza di pace

    A cavallo del

    XX

    secolo, l’Europa aveva registrato una crescita demografica nella maggior parte degli stati, con un miglioramento della produzione alimentare e delle condizioni igienico-sanitarie in parte dovuto anche alla migliore circolazione delle merci e a una rinnovata organizzazione delle frontiere e delle comunicazioni; basti pensare all’elettrificazione del traforo ferroviario del Frejus nel 1916, che abbatteva i tempi di percorrenza tra Francia e Italia e risolveva il problema del fumo in galleria.

    Tutto ciò era stato possibile grazie a un periodo di pace molto lungo, che aveva permesso non solo un’espansione dell’industrializzazione, ma aveva anche dato un grande impulso alla ricerca, con scoperte e innovazioni in tutti i campi. Solo per citarne alcune, il vaccino contro la rabbia creato da Louis Pasteur, l’introduzione delle prime automobili, il cinematografo, il telegrafo senza fili di Guglielmo Marconi, la catena di montaggio nelle fabbriche.

    In questo panorama primeggiava la Germania, che era diventata una potenza industriale con una popolazione che superava di circa un quarto quella francese.

    Tutti lavoravano per il progresso, ma le classi più povere erano per lo più escluse dal crescente benessere dei pochi abbienti.

    Gli industriali si arricchivano con le commesse degli stati, che volevano forze armate sempre più potenti e moderne. Gli effetti delle nuove scoperte applicate all’arte bellica per il momento non potevano essere previsti, ma lasciavano presagire una guerra lunga e più distruttiva di qualunque altra si fosse mai vista prima, sia per i vincitori che per i vinti.

    In effetti questa previsione si avverò, ma la realtà superò di gran lunga le ipotesi più pessimistiche. Ora, terminato il conflitto mondiale, bisognava voltare pagina per ricostruire, riconvertire i settori dell’economia per una pace che tutti auspicavano eterna, per non rivivere gli orrori di quegli ultimi lunghissimi quattro anni e di quell’inutile strage, come la definì papa Benedetto

    XV

    .

    Grandi aspettative erano riposte nel presidente americano Woodrow Wilson che, con l’entrata in guerra degli

    USA

    , aveva assicurato la vittoria ai paesi dell’Intesa, i quali ormai dipendevano anche finanziariamente dagli Stati Uniti; infatti, se i debiti contratti dagli Alleati con l’America fossero stati condonati, ad esempio, «la Francia [avrebbe guadagnato] circa 700 milioni di sterline e l’Italia circa 800 milioni» ².

    Partiamo dalla firma dell’armistizio tra la Germania e i Paesi dell’Intesa, l’11 novembre 1918, a bordo del vagone di un treno nei pressi di Compiègne, nelle vicinanze della stazione di Rethondes in Piccardia, a un’ottantina di chilometri da Parigi. Questo armistizio fu l’antefatto non solo della Conferenza di pace, ma anche degli odi e dei rancori che si sarebbero poi espressi nel Terzo Reich e nel secondo conflitto mondiale.

    La scelta della carrozza ferroviaria non fu casuale, poiché essa era stata adoperata come posto di comando mobile dal maresciallo francese Ferdinand Foch. Dopo la storica firma, la vettura fu trasportata e custodita all’Hôtel des Invalides, come simbolo della vittoria e della riscossa dopo la cocente sconfitta francese a Sedan nel 1870, quando la Germania conquistò i territori dell’Alsazia e della Lorena.

    L’abile maresciallo Foch riuscì a imporre la volontà militare francese e a neutralizzare e soprattutto umiliare il più temuto dei nemici, dopo che questi aveva accettato i due punti principali dell’armistizio (l’adesione completa al diktat alleato e la riparazione dei danni causati dalla guerra); il suo successo determinò un crescente potere dei militari nella vita degli stati europei, con effetti che si vedranno negli anni a seguire, mentre sul versante tedesco scatenò un’ondata di malcontento, che avrà ripercussioni e che aiuterà l’ascesa di Hitler.

    Il 18 gennaio 1919 si aprì la Conferenza nella capitale francese, al Quai d’Orsay, la sede del ministero degli Esteri da dove si era coordinata tutta la guerra dell’Intesa e che poteva offrire gli spazi necessari per ospitare le numerose e affollate delegazioni; arrivarono infatti rappresentanti di ventisette paesi e cinque dominion britannici, tra cui furono per la prima volta presenti gli inviati di stati nascenti come la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, sorti dall’implosione dell’impero austro-ungarico. Il solo presidente Wilson arrivò in Europa con oltre mille collaboratori e un folto gruppo di esperti del mondo accademico, che comunque avevano una conoscenza molto approssimativa dei problemi geopolitici europei: basti pensare che l’esperto per l’Italia era un medievalista, che aveva studiato la nostra lingua negli Archivi vaticani.

    In Francia si mise in moto una macchina organizzativa e diplomatica mai vista prima. Ci furono diverse difficoltà relative agli alloggi: per la sola delegazione italiana fu utilizzato tutto l’Hôtel Edoardo

    VII

    , che poteva accogliere fino a duecentocinquanta persone.

    Il ritmo dei lavori era davvero intenso, al punto da obbligare gli esponenti principali a restare ininterrottamente a Parigi fino alla stipula della pace con la Germania, il 28 giugno 1919 a Versailles.

    La data scelta era fortemente simbolica, poiché proprio in quel giorno, nel 1871, era stato incoronato Guglielmo

    I

    Hohenzollern, primo imperatore della Germania moderna, dopo che aveva sbaragliato la Francia in guerra; ora, il suo discendente Guglielmo

    II

    usciva sconfitto, e il suo futuro era decisamente incerto.

    Il Kaiser aveva abdicato in extremis e si era rifugiato in Olanda, lasciando il nuovo Stato tedesco nella scomoda circostanza di dover accettare la resa senza condizioni per non vedere proseguire le ostilità, causare altre vittime e provocare ulteriori danni a un territorio già in ginocchio.

    Le potenze vincitrici avrebbero dovuto negoziare con gli imperi centrali in via preliminare, per poi rendere definitivi gli accordi anche con quegli alleati che avevano avuto un ruolo secondario o marginale durante il conflitto.

    Bisogna tener presente che lo scenario politico europeo si era modificato al di là di ogni aspettativa e previsione esistenti prima della guerra. Ora si andava diffondendo a tutte le latitudini la convinzione di dover creare un mondo nuovo e diverso, per lasciarsi alle spalle tutti gli orrori della guerra, i morti, i feriti e i mutilati. Inoltre, l’ingresso degli

    USA

    come potenza che aveva portato alla vittoria l’Intesa spostava l’asse dell’equilibrio mondiale, con la fine del predominio planetario del vecchio continente.

    In quei quattro anni di guerra si era consumato soprattutto il dissolvimento di quattro imperi, fulcro dell’Europa: l’impero austro-ungarico, il Secondo Reich, l’impero russo e l’impero ottomano.

    Quest’ultimo fu il primo a mostrare segni di cedimento, seguito poi da quello austro-ungarico, smembrato dalle rivendicazioni delle varie etnie che lo componevano. A seguire, l’impero zarista cadde con la Rivoluzione d’ottobre, e infine il Secondo Reich crollò durante le trattative per l’armistizio, con la proclamazione della repubblica.

    La Conferenza preliminare divenne una lunga riunione definitiva senza la partecipazione degli sconfitti, che dovettero accettare il diktat dei vincitori, cosa che fu motivo di rivendicazioni future.

    La struttura adottata si rivelò complessa e gerarchica e le difficoltà si fecero immediatamente sentire, a partire dall’eccessiva presenza di delegati. Le principali potenze vincitrici – Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Italia e Giappone – decisero pertanto di istituire il Consiglio supremo o Consiglio dei dieci, composto solo dai loro capi di governo più i relativi ministri degli Esteri, per dirimere le questioni primarie e riferire, in un secondo momento, agli altri alleati, ponendo già una specie di graduatoria d’importanza fra i vari stati.

    Tuttavia, questa tipologia di organizzazione si dimostrò comunque macchinosa e lenta, facendo decidere di passare dai dieci iniziali al Consiglio dei quattro, con i soli capi di governo e con il presidente francese Georges Clemenceau, soprannominato non a caso Tigre, sempre fermo sulla decisione di escludere la Germania dalle trattative di pace.

    Furono create anche numerose commissioni e sottocommissioni per i problemi locali, come quello polacco, o per questioni giuridiche ed economiche, che portarono a un ulteriore allungamento dei tempi dei negoziati.

    Ben presto il Giappone si allontanò, non essendo interessato alle questioni europee ma solo a quelle del Pacifico, dopo che aveva infranto i sogni della potenza tedesca in territorio extraeuropeo. Ora, si presentava come l’astro nascente del mondo orientale, che si era fatto valere sulla stessa Russia nella guerra del 1905, durante la quale aveva inflitto una cocente sconfitta all’impero zarista sottraendogli il controllo della Manciuria e della penisola coreana (fino ad allora, nessuno stato non europeo aveva mai sconfitto l’uomo bianco in guerra). Inoltre, aveva già stipulato un trattato di alleanza con la Gran Bretagna.

    Lo Stato del Sol Levante mirava a diventare la prima potenza militare del Pacifico, con la costruzione di una potente flotta che impensierì da subito gli

    USA

    , che decisero di fare altrettanto, iniziando quella corsa agli armamenti che si fermerà solo con la fine della guerra fredda.

    Nonostante la loro crescente influenza, i nipponici non riuscirono tuttavia a spuntarla su una questione a loro molto cara, ovvero quella razziale: nel patto di fondazione della nascente Società delle Nazioni voluta da Wilson, infatti, non venne inserita la clausola dell’uguaglianza delle etnie. La questione era nata dalla richiesta di Makino Nobuaki di inserire nel patto di fondazione la condizione della non discriminazione tra le razze, chiedendo agli stati di accordare agli immigrati nelle loro terre un trattamento giusto e senza pregiudizi.

    Proprio la California aveva infatti varato dei divieti che riguardavano i giapponesi e il loro diritto di acquistare delle terre, così come altre nazioni, ad esempio l’Australia, scoraggiavano l’arrivo di giapponesi. E intanto, gli

    USA

    cominciarono ad appoggiare la Cina a scapito della potenza nipponica.

    Tornando ai trattati di pace, anche con questa nuova struttura le questioni restavano tante e difficili da dirimere, poiché tutti pensavano che il proprio problema fosse il principale e il primo da risolvere.

    Il presidente Wilson aveva spinto gli Stati Uniti a entrare nel conflitto a fianco dell’Intesa, oltre che per contrastare la guerra sottomarina dei tedeschi che danneggiava i commerci anche degli stati non belligeranti, per mettere fine a tutti i conflitti successivi, per far accettare i quattordici punti cardine della futura Società delle Nazioni, e per poter far prosperare l’economia americana; ora alimentava le aspettative dei popoli, provati dalle terrificanti esperienze belliche, con promesse di autodeterminazione e riduzioni degli armamenti, ma non era un europeo e anche il suo colonnello Edward Mandell House, che si era fatto una maggiore esperienza nel vecchio continente, non seppe essere all’altezza dell’ingrato compito che lo attendeva, deludendo un po’ tutti e venendo abbandonato dagli stessi americani, che non supportarono in patria il loro capo di Stato.

    Inoltre, molti colsero l’atteggiamento critico del presidente verso le pretese europee come una predisposizione favorevole ai vinti, come se non volesse punire eccessivamente la Germania. Non a caso, il governo tedesco si rivolse proprio a Wilson per le trattative di pace, dicendosi pronto ad accettare i quattordici punti.

    Il presidente americano capì che non poteva scavalcare i suoi partner e inviò una successiva comunicazione il 14 ottobre 1918:

    1) i particolari dell’armistizio dovevano essere lasciati ai consiglieri militari degli Stati Uniti e dei paesi Alleati, ed essere tali da precludere assolutamente la possibilità che la Germania riprendesse le ostilità; 2) la prosecuzione della trattativa era subordinata alla cessazione della guerra sottomarina; 3) a lui occorrevano ulteriori garanzie del carattere rappresentativo del governo con cui trattava. Il 20 ottobre la Germania accettò i punti 1 e 2 e fece presente, riguardo al punto 3, che essa aveva ora una costituzione e un governo che traeva autorità dal Reichstag. ³

    Gli

    USA

    , pur vedendo il loro astro illuminare sempre di più la scena mondiale, preferirono tornare nel loro splendido isolamento ⁴, mentre saliva la preoccupazione per il futuro incerto della Russia, con il cambio di regime totale e rivoluzionario che poteva contagiare il vecchio continente ed essere esportato oltreoceano.

    In tutto ciò la Francia, come nazione ospitante, si avvalse di tutto il proprio apparato burocratico e amministrativo e mantenne sempre la guida dei lavori, mirando al conseguimento dei suoi obiettivi; nel frattempo, la popolazione francese era eccitata e curiosa delle parole del presidente americano, che aveva suscitato non poche simpatie. I giornalisti rimanevano imperterriti a Parigi, sperando di captare la notizia che avrebbe rivoluzionato la loro vita.

    Il vero nocciolo restava la Germania, con le sue mutilazioni territoriali e le riparazioni di guerra di cui tutti volevano approfittare.

    Al contrario, la speranza tedesca era riposta nel fatto che la dilagante paura bolscevica poteva indurre gli altri attori europei a non indebolirla troppo, per non farla cadere nelle braccia di Mosca e dare il via a una rivoluzione estesa e dall’esito incerto, con le classi sociali più misere sempre più attratte dalla dottrina comunista che dava loro un barlume di riscatto.

    La più ostinata restava sempre la Francia, con la sua rigida posizione di vendetta nei confronti del nemico di sempre, ma per cercare di comprenderla bisogna tener conto che la nazione d’oltralpe aveva subìto, nel corso della guerra, epidemie, razionamenti alimentari, bombardamenti tedeschi – i primi nella storia, che avevano traumatizzato l’opinione pubblica per i morti e feriti tra i civili –, ma soprattutto aveva perso circa un quarto dei suoi giovani, e tra quelli che erano tornati dalle trincee, moltissimi erano mutilati nel corpo e nell’anima.

    Inoltre, l’economia era stata devastata non solo dalle distruzioni ma anche da una riconversione e una ripresa che stentavano a partire, spingendo la popolazione povera e sempre più affamata in cerca di un colpevole su cui poter sfogare le proprie sofferenze e frustrazioni.

    Pertanto, Clemenceau, che subì pure un attentato che lo immobilizzò per qualche settimana non permettendogli di partecipare attivamente ai lavori, doveva assicurarsi che il suo paese non subisse di nuovo un’aggressione da parte tedesca. Non volendo vivere con la paura, pretese che le frontiere della Francia ritornassero a prima della sconfitta subita nella guerra del 1870-1871, riprendendosi quindi l’Alsazia e la Lorena, e di ottenere il controllo della Renania e del ricco bacino carbonifero della Saar, che avrebbe avvantaggiato l’industria transalpina a scapito degli inglesi.

    Ciò avrebbe colpito al cuore il sistema economico tedesco, che si basava proprio su carbone, ferro e industrie a essi collegate, con investimenti ed esportazioni estere che rischiavano di annullarsi.

    La Francia poté ripristinare le proprie frontiere con il ritorno della prima zona, ma non ottenne la seconda, che era a maggioranza tedesca e il cui passaggio in mani francesi avrebbe leso il principio wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli.

    Alla fine, si decise che il territorio sarebbe stato demilitarizzato, con la Saar data in gestione alla Società delle Nazioni per quindici anni, alla fine dei quali la popolazione avrebbe scelto a quale stato appartenere ⁵.

    Gli altri stati vincitori miravano invece a una pace duratura senza infierire eccessivamente sull’ex Secondo Reich, per non avvantaggiare troppo la Francia e creare degli squilibri dannosi per tutti.

    Di conseguenza, apparve chiaro fin da subito che la questione delle frontiere sarebbe stata lunga, spinosa e difficile da dirimere, rendendo immediatamente irrealizzabile la proposta americana di una pace senza vinti e vincitori, che aveva facilitato l’avvicinamento di Berlino a Washington.

    Senza perderci nei meandri delle richieste e degli aggiustamenti territoriali degli altri stati, passiamo alle colonie tedesche, che furono spartite tra i vincitori (a esclusione dell’Italia, la cui delegazione aveva abbandonato il tavolo delle trattative sentendosi offesa per il rifiuto di corrispondere quanto promesso in suo favore nel patto di Londra del 1915).

    La Francia ambiva al Camerun e al Togo, la Gran Bretagna all’Africa orientale e il Giappone, che aveva imparato velocemente le caratteristiche dell’imperialismo europeo, mirava alle isole Marianne, Caroline e Marshall.

    Anche gli

    USA

    , che tanto decantavano l’autodeterminazione dei popoli, cercavano un controllo diretto del canale di Panama e uno indiretto del continente americano, senza ingerenze europee.

    Durante questa situazione di stallo entrò in scena John Keynes, consulente inglese del Tesoro della Corona, che s’impegnò a rigettare le istanze degli alleati, sia per non sbilanciare l’Europa a favore della Francia, sia per mantenere quell’equilibrio che avrebbe permesso alla Gran Bretagna di continuare a prosperare con il proprio impero e la propria consolidata economia, anche se era evidente che non si poteva tornare indietro a prima della Grande Guerra e che il mondo stava cambiando troppo rapidamente, spingendo per una sempre maggiore libertà.

    Ora bisognava trovare il punto d’incontro con la Francia: un obiettivo comune poteva essere il ridimensionamento della potenza tedesca sui mari, con la spartizione delle colonie che avrebbe lasciato la Germania economicamente danneggiata e ferita nell’orgoglio per aver perso tutti i territori extraeuropei.

    Londra inoltre confidava nel cedimento degli altri imperi per accrescere la propria influenza, soprattutto in Medio Oriente, sfruttando anche personaggi che diverranno leggenda, come il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence, meglio conosciuto come Lawrence d’Arabia. Questi era un agente segreto, archeologo e scrittore, e si era particolarmente adoperato per favorire la rivolta araba tra il 1916 e il 1918, voluta e foraggiata dai paesi dell’Intesa per causare enormi danni all’impero ottomano, alleato di quelli centrali.

    Per superare l’impasse in cui si stava arenando la Conferenza di pace, il primo ministro inglese David Lloyd George stilò con i suoi collaboratori il Memorandum di Fontainebleau del 25 marzo 1919, nel quale si dichiarava il pericolo della bolscevizzazione della Germania e il desiderio di creare un organismo per debellare il proliferare delle armi per una pace duratura, che per i francesi significava disarmare e umiliare il nemico giurato affinché abbandonasse per sempre anche solo l’idea della guerra.

    Si arrivò a un compromesso con la riduzione delle pretese transalpine sulla Germania, che restava comunque condannata a pagare ingenti somme non solo in marchi, ma anche con beni come bestiame, carbone e con l’invio di manodopera, non sempre benvoluta negli stati vincitori.

    Inoltre, fu creata un’apposita commissione per i danni di guerra, che si diede come limite massimo per stabilire la cifra esatta da pretendere il maggio del 1921, anche se lo Stato tedesco cominciò a pagare dall’agosto del 1919, avendo firmato il trattato con l’ammontare in bianco e con gli articoli 231 e 232 che furono estremamente penalizzanti, poiché attribuivano la responsabilità del conflitto e il carico delle riparazioni alla Germania.

    Particolarmente gravosa e umiliante per l’orgoglio tedesco era stata la riduzione quasi totale delle forze armate: alla Germania fu imposto l’obbligo di non possedere aeronautica o artiglieria pesante, di smantellare le fortificazioni e di ridurre il numero dei militari e il tonnellaggio della flotta fino a una certa soglia per rassicurare i francesi, ma non abbastanza da non poter fronteggiare un’ipotetica avanzata da est dei bolscevichi sempre più agguerriti.

    In una clausola si faceva chiaramente riferimento alla cessione delle navi tedesche agli alleati e all’obbligo di costruirne altre per loro: in questo modo, la Marina militare del Reich non esisteva più.

    A seguito di questa imposizione, buona parte della flotta venne affondata dagli stessi tedeschi nella baia di Scapa Flow nelle isole Orcadi, in Scozia. La Hochseeflotte tedesca, la parte principale della Marina del Kaiser, era stata collocata lì in attesa delle decisioni dei paesi vincitori, che ne volevano una spartizione alla quale avrebbe partecipato anche l’Italia.

    Il 21 giugno 1919, saputo che la flotta avrebbe dovuto essere consegnata, l’ammiraglio Ludwig von Reuter diede ordine alle navi di autoaffondarsi, per non cadere nelle mani dei britannici. I marinai del Secondo Reich, che fino a quel momento si erano cibati solo di pesce e gabbiani, riuscirono ad affondare quindici navi da battaglia, cinque incrociatori e trentadue cacciatorpediniere.

    Tassativo era il divieto di acquisto di armi da parte tedesca, anche se la Germania poteva produrne in minima parte ma con l’esclusione di quelle chimiche, pur rimanendo in piedi l’omonima industria, che era stata riconvertita in tempo di guerra e che aveva colpito particolarmente i paesi dell’Intesa; infatti, gli Alleati consideravano qualsiasi stabilimento di produzione, anche di coloranti, un ipotetico arsenale bellico.

    Comunque, le polemiche sugli armamenti continuarono e, nel 1920, l’intelligence francese già denunciava che i tedeschi potevano mobilitare circa due milioni di uomini, ben oltre il limite fissato a centomila. Anche se i numeri ci appaiono esagerati, è risaputo che la Germania iniziò da subito a produrre armi clandestine e a addestrare i suoi soldati, come ben dimostrò Adolf Hitler una volta salito al potere.

    Intanto, mentre alcune zone dell’ex Secondo Reich passavano sotto il controllo dei vincitori per un certo numero di anni, nel conteso Schleswig-Holstein si arrivò a un plebiscito, vista la consistente presenza danese, e Copenaghen ottenne la parte settentrionale della regione.

    Nella stipula dei trattati si affrontarono per la prima volta le responsabilità e le violazioni dei più elementari diritti umani in tempo di guerra; di conseguenza, il Consiglio dei dieci diede vita a una commissione che doveva individuare i colpevoli e le sanzioni da applicare.

    La presidenza fu affidata all’americano Robert Lansing, che lavorò due mesi per recuperare quanto era stato stabilito all’Aja nel 1907, per far progredire il diritto internazionale e far rispettare le norme in materia di armi, come quelle sull’uso di proiettili esplosivi o bombe lanciate da palloni aerostatici, che nessuna nazione aveva rispettato durante la Grande Guerra.

    I colpevoli furono individuati nello stato del Kaiser e nell’impero austro-ungarico, con l’aggravante della premeditazione e un corollario di altri crimini come la deportazione forzata, il saccheggio e il disonore delle donne ⁶, all’epoca ancora considerate alla stregua di un bottino di guerra.

    Sul banco degli imputati sarebbe dovuto salire Guglielmo

    II

    , che come detto si era rifugiato in Olanda dal re suo cugino. Quest’ultimo si rifiutò di consegnarlo alle autorità competenti, e l’ex sovrano tedesco rimase impunito.

    Il tribunale apposito creato con la convenzione dell’Aja, composto da giudici scelti dai paesi vincitori, venne riformato, mentre lo stesso nuovo governo tedesco s’impegnava a «riconoscere il diritto delle potenze alleate e associate a perseguire i suoi cittadini colpevoli di aver violato le norme e consuetudini di guerra. […] A occuparsi degli accusati sarebbero state le istituzioni militari di giustizia dei paesi in cui erano avvenuti i misfatti» ⁷.

    Molte altre questioni restavano ancora da discutere e risolvere, e da subito si mostrò particolarmente spinoso il problema polacco, ovvero la definizione dei confini non geograficamente segnati di un territorio da sempre conteso tra tedeschi e russi.

    La soluzione venne trovata cedendo parte delle regioni orientali della Posnania, della Prussia e della Slesia e creando il corridoio della città libera di Danzica che, tuttavia, violava il principio di autodeterminazione dei popoli, poiché dava allo Stato polacco il controllo del fiume, della ferrovia e della «condotta delle relazioni internazionali […] e la tutela diplomatica dei cittadini» ⁸, cosa che sarà poi dipinta dalla propaganda hitleriana come offesa ai diritti dei cittadini tedeschi; lo

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