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Perché non si stava meglio quando si stava peggio
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E-book667 pagine9 ore

Perché non si stava meglio quando si stava peggio

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Controstoria d’Italia dal fascismo al populismo

Manca, all’Italia, una solida coscienza storica. Il Paese ha troppi conti in sospeso con il passato: responsabilità rimosse, fascinazioni nostalgiche, nodi irrisolti. Dall’esperienza del Fascismo fino alla più recente egemonia populista, questo libro intende ricostruire una “storia critica” e mettere in luce limiti e contraddizioni dell’Italia contemporanea. Nel 1922 Piero Gobetti sostenne che il Fascismo era «l’autobiografia della nazione»: il frutto avvelenato di un carattere nazionale estraneo a libertà e democrazia. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica, dalla dittatura alla democrazia e da un’economia arretrata a un’economia di mercato ha cambiato orizzonti, costumi e consumi, ma l’eredità fascista ha pesantemente influenzato il percorso intrapreso e l’Italia ha vissuto una pericolosa frizione tra conservazione e progresso. Negli anni Novanta sono poi riemerse sotterranee pulsioni antipolitiche e da allora il distacco tra società civile e classe dirigente ha alimentato rabbia, insicurezze e frustrazioni. È esploso il fenomeno del populismo e la storia e gli storici sono stati marginalizzati dal dibattito pubblico. In un tempo di grandi trasformazioni, si impone allora un confronto diretto – e sincero – con il nostro passato.

Una controstoria dell’Italia dal fascismo al populismo

Tra i contenuti del libro:

Un Paese in camicia nera
• la rivolta antidemocratica
• anatomia del regime
• il marchio fascista

Una democrazia difficile
• l’alba della repubblica
• sul terreno della politica
• la grande trasformazione

Il prezzo della modernità
• gli anni del dissenso
• l’agonia della repubblica

Il tramonto di un secolo
• il miraggio degli anni ’80
• dentro, fuori e contro la politica

Tra passato e presente
• l’Italia nel XXI secolo
Simone Cosimelli
nato nel 1994, è giornalista pubblicista e si occupa di comunicazione. Ha conseguito una laurea magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Firenze e ha collaborato con le riviste di divulgazione storica «Focus Storia» e «BBC History Italia».
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2021
ISBN9788822754295
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    Anteprima del libro

    Perché non si stava meglio quando si stava peggio - Simone Cosimelli

    ES752cover.jpges.jpg
    752

    Dello stesso autore

    La Repubblica delle stragi impunite

    I 55 giorni che hanno sconvolto l’Italia

    Prima edizione ebook: dicembre 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5428-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica a cura di Punto a Capo, Roma

    Simone Cosimelli

    Perché non si stava meglio

    quando si stava peggio

    Controstoria d'Italia

    dal fascismo al populismo

    marchio.front.tif
    Newton Compton editori

    Indice

    Introduzione

    I. Un paese in camicia nera

    1. La rivolta antidemocratica

    L’incubazione del Fascismo

    L’eredità delle trincee

    La politica della violenza

    Fuori e contro la democrazia

    2. Anatomia del regime

    L’ora della dittatura

    La via italiana al totalitarismo

    Mussolini, il duce

    L’uso politico del mito di Roma

    3. Il marchio fascista

    Il colonialismo all’italiana

    La persecuzione degli ebrei

    La guerra fascista

    Il crollo e il riscatto

    II. Una democrazia difficile

    4. L’alba della Repubblica

    La ricerca di un’altra Italia

    La sfida dei partiti di massa

    Faccia a faccia col fascismo

    5. Sul terreno della politica

    L’Uomo Qualunque

    Dentro la guerra fredda

    Parola d’ordine: anticomunismo

    6. La grande trasformazione

    A Genova e dintorni

    Luci e ombre dell’industrializzazione

    Il sistema bloccato e i limiti del riformismo

    III. Il prezzo della modernità

    7. Gli anni del dissenso

    Il conflitto generazionale

    La sinistra alla prova della contestazione

    1969

    8. L’agonia della Repubblica

    L’emergenza democratica

    Il fuoco della lotta armata

    Sangue e diritti

    IV. Il tramonto di un secolo

    9. Il miraggio degli anni ’80

    La mutazione individualistica

    L’inizio del declino

    Il logoramento dei partiti

    10. Dentro, fuori e contro la politica

    La sinistra alla fine del secolo

    Dall’alto al basso, e viceversa

    La Repubblica smarrita

    V. Tra passato e presente

    11. L’Italia nel xxi secolo

    La transizione infinita

    Storia e memoria

    Bibliografia

    Introduzione

    Il passato è comprensibile per noi soltanto alla luce del presente,

    e possiamo comprendere il presente unicamente alla luce del passato.

    Far sì che l’uomo possa comprendere la società del passato

    e accrescere il proprio dominio sulla società presente:

    questa è la duplice funzione della storia.

    Edward H. Carr, 1961

    Una storia d’Italia dal fascismo al populismo dovrebbe raccontare, spiegare e contestualizzare fatti, circostanze ed eventi che, nel tempo, hanno strutturalmente trasformato il paese. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica, dalla dittatura alla democrazia e da un’economia arretrata a un’economia di mercato, dopo l’esperienza drammatica della seconda guerra mondiale, ha infatti inciso sulla vita di milioni di italiani: ha progressivamente ampliato il perimetro politico che delimita lo svolgersi delle attività individuali e collettive, ha cambiato consumi e costumi, modi di pensare e d’agire, culture e interessi, e, più in generale, ha impresso una notevole accelerazione ai processi di modernizzazione. Se il quadro interno è mutato in profondità, poi, anche il quadro esterno, senza il quale non si comprende il primo, si è decisamente evoluto, in particolar modo perché l’Europa, in un contesto internazionale profondamente mutato, ha abbandonato un sistema fondato sulla competizione per scommettere su un sistema basato sulla cooperazione. Il Novecento si è quindi mosso rapidamente, molto più rapidamente di quanto fosse possibile prevedere. Ne è derivata, per il paese, una costante e continua frizione tra istinto di conservazione e necessità di progresso, tra l’illusione di bastare a sé stesso e il bisogno di aprirsi al nuovo, tra fascinazioni nostalgiche e il dovere di darsi solide prospettive future.

    Responsabilità rimosse, questioni non affrontate, nodi irrisolti, un’insidiosa inclinazione a dribblare domande che meritano risposte: l’Italia del xxi secolo sembra condannata a cadere vittima delle sue debolezze. Il distacco tra società civile e società politica – lungi da essere una condizione preliminare per il rilancio – ha poi esasperato rabbia, insicurezze e frustrazioni che non solo hanno dato vita a forme di protesta disgreganti, ma hanno anche impattato direttamente sulla percezione del passato. Una storia critica, che tenga conto del lavoro di molti storici troppo spesso marginalizzati dal dibattito pubblico, rappresenta quindi uno strumento importante per contrastare l’inesorabile sgretolarsi della coscienza storica di un paese che ha bisogno, oggi più che mai, di confrontarsi su ciò che era, che è e che potrebbe diventare.

    Questo libro, che non vuole essere in alcun modo una ricostruzione esaustiva di una vicenda complessa, intende però mettere a fuoco alcuni passaggi essenziali nel lungo cammino intrapreso dall’Italia nell’ultimo secolo, individuare delle prospettive e, se possibile, dare un contributo per tornare a sollevare questioni eluse o deliberatamente accantonate, togliendo la storia dal cono d’ombra nella quale sembra essere stata relegata. Le persone a cui devo molto, nel mio percorso di formazione e nella mia esperienza professionale, sono tante, e citarle una per una non solo non sarebbe possibile, ma soprattutto non esprimerebbe a pieno la gratitudine nei loro confronti. Senza Andrea Frediani, che ringrazio per l’opportunità e il sostegno, questo libro non esisterebbe. Allo stesso modo devo molto a Marco Parolai, il cui supporto in qualità di editor mi ha aiutato a portare a termine, fino all’ultima pagina, un testo che non è stato semplice concludere. Un grazie va poi ad Alessandra Manenti, che rappresenta per me una fonte preziosa di orientamento, stimolo e confronto, oltre ad essere, per così dire, un’ancora alla quale sento di non poter rinunciare.

    I. Un paese in camicia nera

    1. La rivolta antidemocratica

    Prima di tutto c’è un dato di fatto: ed è la vitalità della nostra stirpe, della nostra razza. […] Primo pilastro fondamentale dell’azione fascista è l’italianità, cioè: noi siamo orgogliosi di essere italiani, noi intendiamo, anche andando in Siberia, di gridare ad alta voce: Siamo Italiani. […] Ora noi rivendichiamo l’onore di essere italiani, perché nella nostra penisola meravigliosa e adorabile – adorabile benché ci siano degli abitatori non sempre adorabili – s’è svolta la storia più prodigiosa e meravigliosa del genere umano.

    Benito Mussolini, 1920¹

    Il Fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il Fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e bene amministrato (…) La crudeltà e l’assenza di simpatia sono due caratteri peculiari del popolo italiano, che passa dal sentimentalismo fanciullesco alla ferocia più brutale e sanguinaria, dall’ira passionale alla fredda contemplazione del male altrui.

    Antonio Gramsci, 1921²

    L’incubazione del Fascismo

    Spiegare le origini del fascismo – di cui a livello accademico si è scritto molto, e bene – significa metterne in luce le radici e indagare le ragioni che ne garantirono l’avanzata e infine l’avvento al potere: prima con la marcia su Roma nell’ottobre del 1922, poi, a partire dal 1925, con la nascita di un regime a partito unico dalle forti ambizioni totalitarie.

    Certamente, e va detto con chiarezza, il fascismo fu il figlio legittimo della prima guerra mondiale: crebbe all’ombra della mentalità, dei miti e delle idee che la guerra diffuse, e rappresentò la soluzione italiana alla gravissima crisi postbellica del 1919-1920 – una soluzione non predeterminata né inevitabile, eppure gravida di conseguenze per il futuro. A ben guardare, però, l’emergere e l’imporsi del fascismo fu anche «una rottura con quel processo ambiguo, tardivo e gracile di democratizzazione»³ avviato nel 1861. L’unificazione, infatti, si compì in ritardo rispetto ad altri paesi dell’Europa occidentale e l’Italia si ritrovò, nella seconda metà dell’Ottocento, con uno stato da costruire e una cittadinanza da formare. Il percorso avviato allora, gravato da molti limiti, non sfociò nella nascita di istituzioni politiche solide e salde e portò al consolidamento di un sistema di potere largamente chiuso in sé stesso, con una monarchia poco incline a rendere il parlamento il centro propulsore della politica nazionale. Tutto ciò si tradusse, in un paese fortemente minato da squilibri sociali e disuguaglianze economiche, in una sostanziale chiusura alle istanze riformatrici più avanzate, anche interne alla classe dirigente liberale, e in una naturale avversione per le associazioni, i movimenti e i partiti che tentavano di aggregare e organizzare le categorie sociali più deboli – come il proletariato urbano e il bracciantato agricolo – per riequilibrare i rapporti di forza e scardinare gli assetti sociali dominanti.

    L’incubazione del fascismo in Italia, se si parte da qui, va anche ricondotta a un più ampio contesto che è bene tenere presente. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, infatti, la progressiva estensione del suffragio elettorale e l’allargamento della partecipazione politica, in atto in Italia come in tutta Europa, fece avvertire alla classe borghese, come mai prima, l’esigenza di reagire di fronte all’inesorabile sgretolarsi dell’ordine costituito. La stessa costituzione nel 1892 del Partito socialista italiano (psi) segnò uno spartiacque nella storia d’Italia e contribuì a portare sulla scena pubblica, superando le forme di ribellismo più elementare, le esigenze di milioni di individui da sempre ai margini della politica e non ancora integrati nel tessuto nazionale⁴.

    Ma se con Giovanni Giolitti, più volte presidente del Consiglio, si tentò una mediazione per ricomporre il quadro sociale e indirizzare l’Italia sui binari del progresso, molti conservatori – prima e dopo lo stesso Giolitti – seguirono la via contraria e non rinunciarono a una linea politica nettamente più rigida. La stessa democrazia fu messa in discussione. E già prima della guerra mondiale le polemiche antidemocratiche, particolarmente marcate tra gli intellettuali di destra e non estranee ai burocrati interni alla macchina dello stato, ebbero un ruolo non secondario nella degenerazione del confronto pubblico. La democrazia fu accusata di sottoporre gli stati all’arbitrio del numero, di dar voce a una folla scomposta di individui incapaci di scegliere per sé e per gli altri, di minacciare la proprietà privata e di minare le fondamenta della coesione sociale. Il parlamento, espressione della rappresentanza popolare, fu criticato in quanto simbolo di declino e decadenza, luogo animato da politicanti e faccendieri mediocri e inefficienti, corrotti e corruttori. Il pluralismo politico venne considerato un ideale distorto, tutt’al più falso, causa prima della disgregazione morale, sociale e culturale della comunità nazionale. Molti fecero, come ha osservato Salvo Mastellone, un grande storico delle dottrine politiche, un vero e proprio «elogio dell’aristocrazia»; altri invocarono un governo retto da un capo carismatico; altri ancora chiesero uno stato forte in grado di innalzare il prestigio della nazione e garantirne l’autorità, evitando così la divisione del tessuto sociale in parti tra loro in competizione⁵.

    L’economista liberale e liberista Vilfredo Pareto, per fare un nome illustre, spostatosi negli anni su posizioni sempre meno concilianti, formulò la teoria della circolazione delle élites e arrivò a deprecare i liberali al potere perché inadatti a porre un freno alla democrazia. Di lì la speranza per la formazione di una nuova classe dirigente e di lì, già nel 1904, l’invito alla classe borghese a prendere coscienza della posta in gioco e ad accantonare ogni riserva, auspicando addirittura «una grande guerra europea» per sospingere indietro il socialismo «almeno per mezzo secolo»⁶.

    Contemporaneamente, inseguendo «il mito della Grande Italia» secondo esclusivi criteri di politica di potenza, di espansione e di conquista, all’inizio del secolo prese corpo un nazionalismo imperialista che mirava alla «modernizzazione del paese per via autoritaria»⁷. Pensando che la società fosse regolata da meccanismi di selezione naturale e che per governare servisse la «mano di ferro»⁸, per riprendere le parole dello storico Gaetano Salvemini, i nazionalisti si batterono per arrestare le forze centrifughe interne, deprecarono la lotta di classe socialista, diedero libero sfogo a una serie di pulsioni antipacifiste, antiparlamentari e antiegualitarie e spezzarono i legami con il nazionalismo ottocentesco di stampo democratico, che aveva ispirato uomini come Giuseppe Mazzini⁹.

    Questa nuova destra prese subito le distanze dal liberalismo classico, pur non abbandonando certe sincronie conservatrici, e guardò con interesse ad altre esperienze, ispirandosi per esempio al radicalismo dell’Action Française, il movimento nazionalista francese animato da intellettuali come Charles Murras e Maurice Barrès. Sotto la guida di Filippo Corradini e Luigi Federzoni il nazionalismo italiano, pur minoritario nell’agone politico, riuscì quindi a introdursi negli ambienti culturali e giornalistici, a scuotere l’opinione pubblica, a far rumore e a farsi sentire. Attento alle evoluzioni sociali e politiche del paese, si nutrì anche del pensiero di accademici come Alfredo Rocco, tra i primissimi a spronare «la destra di vecchio stampo» ad abbandonare i classici metodi repressivi utilizzati per contenere le agitazioni popolari e a impegnarsi, piuttosto, per arrivare a dominare la piazza attraverso retoriche, parole d’ordine e tecniche comunicative più consone al nuovo secolo¹⁰. Nelle sue manifestazioni più aggressive, inoltre, il nazionalismo imperialista non mancò di rivendicare la superiorità della razza o della stirpe italiana rispetto ad altri popoli (ritenuti incivili, inferiori e comunque da assoggettare). Spesso, infatti, dall’ideologia si passò direttamente all’antropologia, e il sangue italiano – simbolo dell’appartenenza a una razza o una stirpe ben definita, appunto – diventò un elemento di distinzione e discriminazione¹¹.

    Fu poi in occasione della guerra italo-turca del 1911-1912, iniziata con grande enfasi nell’anno del cinquantesimo anniversario dell’unificazione, che molto di ciò che si leggeva su giornali, riviste, libri e pamphlet parve concretizzarsi. In quel frangente ebbe la meglio chi si ostinava a considerare l’impegno bellico una questione prioritaria per il paese, una risposta a problemi di lungo corso altrimenti irrisolvibili. Allora anche un letterato come Giovanni Pascoli, vedendo nella presa delle terre africane l’unica via per migliorare la condizione dei contadini italiani, specialmente quelli del meridione, si pronunciò a favore della guerra. E Gabriele D’Annunzio, dalle colonne del «Corriere della Sera», pubblicò poesie e articoli in versi che, invocando il passato romano e cristiano dell’Italia, quasi demonizzavano i nemici, additandoli ai lettori come l’ostacolo da superare per raggiungere la gloria nazionale¹². Più in generale, con l’invasione e la conquista di una parte del territorio dell’attuale Libia (la Tripolitania e la Cirenaica) la febbre colonialista surriscaldò il clima con accenti, linguaggi e toni guerrafondai e sciovinisti¹³. «L’imbastardita attuale popolazione, costituita di quanto vi ha di più laido tra le razze umane, va respinta e distrutta, e sostituita con buon sangue italiano», scrisse l’illustre economista Maffeo Pantaleoni dopo la battaglia di Sciara Sciat, località non lontana da Tripoli nella quale, nel 1911, gli italiani furono accerchiati e sconfitti dagli arabi¹⁴. Seguì una rappresaglia durissima, con arresti, deportazioni e uccisioni; episodi che avrebbero lasciato un segno indelebile nella popolazione locale e che pure spinsero molti italiani, fuori e dentro la Libia, a chiedere di mettere da parte sentimentalismi, riserve e remore morali, arrivando a invocare le forche, come metodo di punizione e come strumento di deterrenza, per sottomettere le popolazioni indigene e neutralizzare i ribelli, evitando ulteriori complicazioni¹⁵.

    Questi riflessi bellicisti, al cui fondo si scorgevano gli echi filosofici di autori allora molto letti (si pensi all’Übermensch di Friedrich Nietzche, l’uomo eroico o superuomo, liberamente interpretato come simbolo della rivolta dell’uomo moderno alla democrazia), non furono affatto estranei, inoltre, alla gioventù universitaria di estrazione borghese, affascinata dalla prospettiva di rendere l’Italia una potenza continentale e coloniale. Forti di un’educazione d’impronta umanistica e contrari al pacifismo e all’internazionalismo socialista, molti giovani furono animati da un «afflato nazionalistico», come ha notato la storica Catia Papa, e desiderarono ardentemente una «moderna religione della patria»¹⁶. All’invocazione della guerra come passaggio ineludibile per rigenerare spiritualmente il paese contribuì anche il Futurismo, il movimento artistico ispirato da Filippo Tommaso Marinetti che, se anche si fece veicolo di idee e suggestioni originali, non mancò di ostentare disprezzo verso la democrazia e di considerare il conflitto armato come sola «igiene» del mondo¹⁷. Infine, un ruolo non secondario lo rivestirono il settimanale «La Voce», nato a Firenze nel 1908 per iniziativa di Giuseppe Prezzolini, e la rivista «Lacerba», pubblicata nella stessa città a partire dal 1913, sotto la direzione di Ardengo Soffici e Giovanni Papini: spazi editoriali di confronto e scontro, spesso lontano dalle argomentazioni più estreme e in contrasto con i nazionalisti, in cui tuttavia risuonò più volte la denuncia della degenerazione dei costumi e dell’iniquità dei politici al potere (fortissima fu la polemica contro Giolitti), così come l’aspirazione a dare al paese un volto nuovo – un volto moderno – passando per la prova definitiva, essenziale, spirituale della guerra.

    Nell’Italia del primo Novecento, dunque, all’insofferenza conservatrice per i mutamenti sociali del tempo si affiancava un dinamico blocco interno, certo eterogeneo ma comunque nazionalista e classista, che rifiutava la prospettiva di un’ulteriore democratizzazione e voleva riscrivere il futuro del paese. Tuttavia le idee allora espresse, dissacranti e violente, non avrebbero avuto possibilità di incidere – come invece fecero – se non avessero goduto del supporto diretto e indiretto di ambienti economici e finanziari interessati a promuovere politiche protezioniste e pronti a spingere i governi liberali all’espansione nell’Adriatico, nei Balcani e più in generale nel Mediterraneo. Una parte della grande borghesia industriale, infatti, volle scommettere sulla guerra per conquistare nuovi mercati, investire massicciamente fuori dai confini nazionali e ritagliarsi una posizione preminente in ambito europeo¹⁸. Questo atteggiamento fu evidente nei mesi cruciali, tra il 1914 e il 1915, che portarono l’Italia da una studiata neutralità alla scelta dell’intervento nella prima guerra mondiale. Intervento a fianco non della Triplice Alleanza, alla quale il paese era legato dal 1882, ma della Triplice Intesa, dopo le promesse francesi e inglesi formalizzate nel Patto di Londra senza il consenso del parlamento. Ci fu allora, infatti, chi sostenne l’incessante propaganda nazionalista per convincere il presidente del Consiglio Antonio Salandra e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino «a calare la carta tremenda della guerra»¹⁹.

    Allora l’Italia piombò, di colpo, in un clima rovente. Come ha scritto lo storico Mario Isnenghi, la spaccatura tra «fautori della pace e fautori della guerra», tra neutralisti e interventisti, fu la cifra distintiva dell’Italia urbana (molto meno fu toccata l’Italia extraurbana, invece). Nelle città – nei caffè, nei locali, nei teatri, nei luoghi pubblici – si assistette a «una repentina ondata oratoria»: la scontro politico si infiammò e l’intransigenza fu moneta corrente. La minoranza interventista, meglio organizzata, si oppose senza indugi alla maggioranza neutralista (composta da socialisti, cattolici, giolittiani e altri liberaldemocratici). Chi si schierò contro l’intervento, anzi, fu travolto dal precipitare degli eventi: non riuscì a coordinarsi, non valorizzò il dissenso di gruppi economici e di pressione ancora scettici sul conflitto, né seppe opporre, nel dibattito pubblico, le ragioni della pace ai furori della guerra. Nazionalisti, futuristi, sindacalisti rivoluzionari, intellettuali e giovani borghesi – guidati da una serie di «agitatori professionali» – divennero così la punta di lancia del «partito della guerra». Questi uomini, inoltre, alzando il volume della propaganda bellica e pretendendo di rappresentare un intero popolo, dimostrarono di saper usare meglio di altri le leve della comunicazione e portarono «la piazza e la lotta di piazza, il grido del comizio e i corpo a corpo verbali dei contraddittori nei titoli e nel lessico giornalistici», mai tanto «violenti e oltraggiosi»²⁰.

    Certo, ci fu anche una corrente di interventismo democratico, ma proprio quest’ultimo, che insisteva sul principio di libertà, nel solco della tradizione irredentista e delle guerre d’indipendenza del Risorgimento, fu oscurato, quando non emarginato, dall’interventismo nazionalista. Più forte, più feroce, più compatto. Ne derivò, riprendendo l’analisi di un altro storico, Angelo Ventrone, una «sistematica demonizzazione del dissenso politico», soprattutto nei confronti dei socialisti che aderivano all’Internazionale dei lavoratori, definiti disfattisti, rinunciatari, sovversivi e anti-italiani, identificati come il «nemico interno» da abbattere e ricacciare indietro per salvaguardare le sorti della nazione, o come agenti al soldo del «nemico esterno» (gli austro-ungarici, i tedeschi e i loro alleati) pronti a complottare ai danni dell’Italia. Proprio queste due categorie, quella del nemico esterno e quella del nemico interno, andarono a definire un universo simbolico costellato di riferimenti diversi con un forte impatto sulla realtà; come se l’Italia – eterna vittima – dovesse lottare per spezzare le catene della propria prigionia scontrandosi con forze tenacemente avverse. Tutto ciò alimentò il fanatismo politico e mostrò che il nazionalismo, ormai non più ristretto in circoli elitari e riservati, non solo aveva i requisiti per diventare un’ideologia di massa ma poteva anche trasformare, per citare ancora Ventrone, «una guerra che le classi dirigenti avevano immaginato utile a restaurare l’ordine sociale, in una crociata vera e propria contro il male assoluto»²¹.

    In quel moto convulso, risaltò la figura di Benito Mussolini, leader carismatico dal passato socialista, ex-direttore dell’«Avanti» e poi direttore del «Popolo d’Italia», patrocinatore del Fascio d’azione rivoluzionaria (gruppo che sostenne l’entrata in guerra dell’Italia) e tra i volti promettenti del giornalismo italiano. Nato nel 1883 a Dovia, una frazione del comune di Predappio, da un fabbro di sentimenti anarchici e da una maestra elementare cattolica, Mussolini, poco più che trentenne, aveva alle spalle una preparazione teorica sommaria e, da acceso massimalista, si convertì improvvisamente all’interventismo, rinnegando il suo retroterra internazionalista e attraccando su sponde opposte rispetto alla sua formazione²². E non fu certo il solo. Il nazionalismo riunì infatti uomini, idee e orizzonti anche differenti. E in molti, allora, già socialisti o sindacalisti, sposarono la causa della guerra per tentare di fondere il mito della rivoluzione e il mito della nazione in vista di una vera e propria palingenesi nazionale²³. Basti pensare, del resto, alle frange più radicali dei sindacalisti rivoluzionari: seguaci delle teorie del francese Georges Sorel – l’autore delle celebri Riflessioni sulla violenza – e dotati di una verve estremistica inconfondibile. Trascinato dagli eventi e a sua volta trascinatore, dunque, Mussolini scivolò verso l’area politica che vedeva nella guerra l’inizio di un nuovo capitolo della storia nazionale. E lo fece senza riserve. Come scrisse nei primi mesi del 1915, la guerra era, infatti, «l’esame dei popoli» e doveva finalmente dare agli italiani «la nozione e l’orgoglio della loro italianit໲⁴.

    Pur spostandosi repentinamente su posizioni tanto diverse, però, Mussolini mantenne – anzi, accentuò – alcune sue caratteristiche di fondo: l’attitudine all’estremismo parolaio, il fascino per il gesto provocatorio, il piglio populista, la capacità di captare l’umore popolare, l’inclinazione all’esibizionismo. Nel maggio del 1915, mentre D’Annunzio pronunciava discorsi altisonanti e roboanti, mentre si registravano manifestazioni da nord al sud della penisola, mentre l’odio politico si abbatteva contro chiunque osasse contraddire i nazionalisti, Mussolini pubblicò sul suo giornale una violenta invettiva dal titolo Abbasso il Parlamento, e attaccò i parlamentari neutralisti che, compattandosi dietro Giolitti, rallentavano e ritardavano la scelta dell’intervento a fianco del Regno Unito e della Francia (come volevano Salandra e Sonnino) e dunque impedivano ai fautori della guerra di raggiungere il proprio scopo:

    La disciplina deve cominciare dall’alto se si vuole che sia rispettata in basso. Quanto a me io sono sempre più fermamente convinto che per la salute d’Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare nella schiena, qualche dozzina di deputati e mandare all’ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo ma io credo, con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia il bubbone pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estirparlo.²⁵

    Queste parole, prima di definire Mussolini come politico, sono da considerarsi l’espressione cristallina di un certo modo di fare e di intendere la politica, tipico di chi, credendo nel primato dell’azione sulla riflessione, assegnava alla guerra una funzione etica ed era pronto a scavalcare le opinioni contrarie per far valere le proprie. Centomila persone accolgono D’Annunzio a Roma inneggiando alla guerra, titolò il «Corriere della Sera» due giorni più tardi. Il poeta abruzzese, tornato da Genova, sacralizzò la guerra e scomunicò i pacifisti, scandendo parole intrise di retorica e disprezzo: «Che la forza di Roma rovesci alfine i banchi dei barattieri e dei falsari e che Roma ritrovi nel Foro l’ardimento cesariano. Il dado è tratto, il dado è gettato sulla rossa tavola della terra […] L’Italia s’arma, e non per la parata burlesca, ma per il combattimento severo»²⁶.

    Ci fu allora chi apertamente mise in contrapposizione il destino dell’Italia – che nella retorica guerrafondaia di quei giorni doveva risplendere a passo di marcia – con la tenuta delle istituzioni. O guerra o democrazia, insomma. Gli interventisti, tanto più accesi tanto più autoritari, si mostrarono formidabili propagandisti, dettarono l’agenda politica, riuscirono a guadagnare adesioni e plasmarono un nuovo immaginario collettivo, mentre il parlamento, come ha scritto uno dei protagonisti del Novecento italiano, Vittorio Foa, fu «soverchiato dalla piazza, dal potere militare e dalla monarchia»²⁷. L’appoggio che la destra nazionalista ricevette dalla destra conservatrice, in virtù della comune opposizione a Giolitti, si rivelò determinante per trascinare l’Italia in guerra. La decisione di Vittorio Emanuele iii di riassegnare l’incarico ad Antonio Salandra, dimessosi davanti alle pressioni dei parlamentari neutralisti, fu poi il sigillo finale sulla scelta fatale. L’entrata nel conflitto (24 maggio 1915) – per le modalità, i tempi e le forzature con cui avvenne – segnò infatti, di per sé, un’involuzione democratica; quanto meno perché gli interventisti, scavalcando le istituzioni, pretesero arbitrariamente di rappresentare un intero paese²⁸. E l’Italia imboccò una via senza ritorno. Con la partecipazione alla grande guerra, come la definirono i contemporanei, o l’«inutile strage»²⁹, come la chiamò papa Benedetto xv, vennero piantati, su un terreno già dissodato, i semi da cui sarebbe germogliato il fascismo, il «primo partito armato della storia d’Italia»³⁰.

    L’eredità delle trincee

    La prima guerra mondiale bruciò risorse, energie e vite umane, e in Italia determinò, non diversamente da altri paesi, una vera e propria militarizzazione interna. Il settore industriale, gonfiato dalle commesse pubbliche, si riconvertì per rifornire l’esercito; gli operai rimasti nelle fabbriche vennero disciplinati; le donne immesse repentinamente nel circuito produttivo; i generi alimentari razionati; i prezzi sul mercato controllati; le misure di sicurezza inasprite; la propaganda intensificata; la libertà di stampa limitata; i pacifisti messi a tacere. Orari, ritmi, consuetudini, percezioni: tutto fu stravolto. E tutto mutò. Lo stesso capitalismo industriale, anche per la dilatazione abnorme del ruolo dello stato, subì un’evoluzione profonda³¹.

    Molti attraversarono quel periodo con la convinzione che una volta terminato il massacro nulla sarebbe potuto – né dovuto – essere come prima. Per citare lo storico inglese Eric J. Hobsbawm, si assistette, allora, alla fragorosa rovina del «grande edificio della civiltà ottocentesca»³². E nessuno, alla fine, poté sottrarsi al drammatico confronto con l’eredità delle trincee. Per l’Europa, in particolare, si trattò di un «gigantesco trauma»³³: stati nazionali che condividevano gli stessi presupposti culturali e ideologici si batterono per l’egemonia politica e militare senza esclusioni di colpi, provocando infine il logoramento e la destabilizzazione di tutto il continente³⁴. In tanti, anche nelle grandi capitali, vissero allora in uno stato di eterna attesa e spaventosa trepidazione, impotenti e quasi sospesi, incerti sul da farsi e su quello che sarebbe seguito, circondati da lutti e sofferenze. Nel libro Gli ultimi giorni dell’umanità, un’opera che ancora oggi testimonia per intero il dramma di un’epoca scossa nelle sue fondamenta, il giornalista austriaco Karl Kraus, tra i non molti intellettuali schierati contro la guerra, scrisse di «anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto»³⁵.

    Il conflitto si chiuse con gli armistizi firmati dalle potenze sconfitte alla fine del 1918 (prima dal regno di Bulgaria, poi dagli imperi ottomano e austro-ungarico e infine dall’impero tedesco); un atto che sancì la vittoria di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia e altri paesi come il Giappone. Alla conferenza di pace di Parigi (18 gennaio 1919-21 gennaio 1920) i vincitori, decisi a sanzionare i vinti in modo unilaterale, si misurarono con vincoli, scenari e problemi non facilmente superabili. Il crollo del Reich tedesco del Kaiser Guglielmo ii, la dissoluzione del plurisecolare impero asburgico, il ridimensionamento dell’impero ottomano e la fine della Russia zarista provocarono, nell’immediato dopoguerra, una sostanziale ridefinizione della cartina politica europea, la nascita e la costituzione di nuovi stati indipendenti e un riassetto degli equilibri globali.

    Dopo il risolutivo intervento statunitense contro gli imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria), il presidente americano Woodrow Wilson, con il suo innovativo programma diviso in quattordici punti, tentò di gettare le basi per l’edificazione di un nuovo ordine internazionale che, sostituendo il vecchio ordine europeo, avrebbe dovuto garantire la legalità nei rapporti tra gli stati, far valere il principio dell’autodeterminazione nazionale e promuovere l’interdipendenza delle economie – con gli Stati Uniti nel doppio ruolo di leader globali e garanti della pace. Eppure, Wilson fu costretto a scontrarsi con visioni e priorità differenti, dovette prendere atto che l’epoca dei nazionalismi era lontana dall’esaurirsi e, anche per resistenze interne agli Stati Uniti, finì per accettare pesanti compromissioni. Ne subì le conseguenze la stessa Società delle nazioni: l’organo che avrebbe dovuto regolare e riorganizzare il mondo postbellico – un innovativo esperimento di governo internazionale – fu privato, già alla sua istituzione, degli strumenti per esercitare un’azione incisiva per il mantenimento della pace³⁶.

    D’altro canto, la rivoluzione attuata in Russia nel novembre 1917 dal partito bolscevico provocò un forte contraccolpo a livello internazionale e offrì un’alternativa radicale alle soluzioni proposte a Versailles. Mentre affrontavano un violentissimo scontro civile e respingevano i tentativi occidentali di impedire la nascita di uno stato comunista, Vladimir Lenin e Lev Trockij – due uomini decisi a non risparmiarsi – esortarono il proletariato internazionale a convergere verso una prospettiva unitaria e a mettere in discussione la politica liberale, l’economia capitalistica e l’imperialismo europeo. Dopo la disintegrazione dell’Internazionale socialista allo scoppio del conflitto mondiale, milioni di uomini e donne in tutto il mondo videro nell’esperimento russo una nuova speranza: la concreta possibilità che «si fuoriuscisse dagli orrori della guerra con una catarsi rivoluzionaria»³⁷.

    Anche in Italia l’impatto della guerra fu devastante. Su una popolazione attiva di diciotto milioni di individui (tra cui cinque milioni di donne) furono chiamati alle armi sei milioni di uomini appartenenti alle classi 1874-1900 (su circa sette milioni in età militare). Di questi, escludendo chi fu destinato ai servizi essenziali, alla pubblica amministrazione e alla produzione industriale, più di quattro milioni (circa la metà dei maschi italiani tra i diciotto e quarant’anni) si avvicendarono al fronte³⁸. L’esercito resse anche dopo la disfatta di Caporetto sul finire del 1917, con l’angoscia collettiva che ne derivò e i «flussi torrenziali di centinaia di migliaia di uomini» ridotti alla condizione di «fuggiaschi»³⁹. E certo non mancarono rivolte, insubordinazioni e fughe individuali, da inquadrare nei più ampi (e non irrilevanti) fenomeni della renitenza e della diserzione. D’altronde, a fronte di circa 200.000 ufficiali d’estrazione borghese, nella maggior parte dei casi arruolatisi volontariamente, la gran parte dei soldati chiamati a combattere in virtù della coscrizione obbligatoria era d’estrazione popolare (braccianti e contadini, per lo più) e spesso non condivideva le motivazioni degli interventisti – pur avendo un proprio sistema di valori di riferimento. All’interno del paese, poi, al crescere delle difficoltà si assistette a un graduale inasprimento dei rapporti sociali, con episodi anche clamorosi di protesta antimilitarista: a Torino, pochi mesi prima di Caporetto, una concentrazione di centomila operai fu repressa al costo di decine di morti. Il bilancio finale fu pesante, come ha scritto lo storico Giorgio Candeloro:

    Per quanto riguarda l’Italia, secondo i dati ufficiali, alla fine del 1918 i morti dell’esercito risultarono 571.000 e gli invalidi 451.645. Ma si devono aggiungere 57.00 militari morti in prigionia e ancora 60.000, considerati prigionieri ma non rientrati in patria, molti dei quali erano probabilmente caduti in combattimento e dati erroneamente come prigionieri. Si può quindi affermare che i caduti italiani nella prima guerra mondiale furono circa 680.000. Numero questo inferiore, anche relativamente alla popolazione totale del paese, alle perdite francesi, inglesi, russe, tedesche ed austro-ungariche; ma comunque molto ingente, se si tiene conto che l’Italia entrò in guerra quasi 10 mesi dopo gli altri grandi paesi belligeranti. A questi caduti si devono aggiungere 500.000 morti circa per l’epidemia di spagnola, sicché si può affermare che la grande guerra costò complessivamente al popolo italiano la perdita di circa 1.200.000 persone e più mezzo milione di invalidi.⁴⁰

    Subito si tentò, a livello privato e a livello pubblico, di dare un senso a un avvenimento fuori dall’ordinario. Alla guerra – alla quale l’Italia aveva partecipato pur non essendo stata attaccata o invasa – si guardò come a un grande lutto nazionale: da ricordare, celebrare, mitizzare⁴¹. Si diffusero dunque monumenti ai caduti (fu evitato il termine morti), musei, lapidi, inni e canti popolari. E nell’elaborazione di una memoria condivisa (operazione di per sé ardua, se non impossibile) iniziarono a sovrapporsi racconti, narrazioni, ricordi, rappresentazioni diverse e spesso non perfettamente conciliabili⁴². Pesò, in questo senso, anche la questione della smobilitazione delle forze armate, dal momento che si dovette procedere, tra errori e ritardi, alla rapida reimmissione nella vita civile di milioni di individui, reduci da un’esperienza cruenta e totalizzante⁴³. Per di più, ancora prima dell’armistizio di Villa Giusti, firmato il 3 novembre 1918 con l’impero austro-ungarico, molti italiani conobbero una paura sconosciuta: l’influenza spagnola. Entro la fine dell’anno il diffondersi della malattia (forse l’epidemia più mortale dell’età contemporanea) uccise più di cinquecentomila persone (seicentomila fino al 1919) senza che ci fosse una presa di coscienza collettiva, e con il governo impegnato, per non aggravare una situazione già tesa, a minimizzare, se non proprio a nascondere, l’entità della strage⁴⁴.

    Il sollievo per il cessare degli scontri non cancellò, dunque, l’inquietudine: rimasero ferite aperte, timori, ansie e frustrazioni, con tutto il carico emotivo che le aveva generate, e si diffusero sincere aspirazioni di cambiamento. Per testimoniare la gratitudine nei confronti di chi aveva impugnato le armi, d’altro canto, era stato promesso «un rinnovamento nel tronco e nelle radici di tutta la vita nazionale»⁴⁵ e per questo l’Italia si caricò di attese e aspettative, nuove esigenze e nuovi bisogni. Fu in questo quadro, tuttavia, che si andò incontro a una grave crisi politica, economica e sociale e a una stagione contrassegnata da contrasti, frizioni politiche, rivendicazioni identitarie.

    La questione più spinosa fu quella della riconversione dell’economia di guerra in economia di pace. Il finanziamento dell’impegno bellico aveva richiesto infatti somme enormi e la dilatazione della spesa dello stato era stata coperta solo in minima parte con l’aumento dei tributi e molto di più, invece, con l’emissione di titoli di debito pubblico, la stampa di nuova moneta circolante e la contrazione di onerosi prestiti internazionali (ancora più pesanti per via della svalutazione della lira)⁴⁶. Si registrò poi una forte contrazione delle esportazioni proprio nel momento in cui la mancanza di derrate alimentari e materie prime rese essenziale l’aumento della quota delle importazioni. Gli Stati Uniti, in particolare, nel giro di pochi anni divennero «il granaio, l’arsenale e il banchiere della penisola»⁴⁷. La vulnerabilità dell’Italia, in confronto agli altri paesi vincitori, apparve quindi evidente: disavanzo incontrollato, insostenibilità del debito pubblico e inflazione costante e crescente minarono la stabilità del paese. L’inflazione, ovvero l’aumento generalizzato e prolungato dei prezzi con la conseguente diminuzione del potere d’acquisto della moneta, sgretolò le certezze di milioni di italiani, molti dei quali già colpiti dagli effetti negativi causati da una complessiva riduzione del reddito nazionale. Basti pensare che nel 1920, rispetto al 1914, i prezzi all’ingrosso erano circa sei volte più alti e il costo della vita quasi quattro volte superiore⁴⁸.

    Alla fine del conflitto, alla grande espansione degli consumi pubblici corrispose dunque la diminuzione dei consumi privati. Provvedimenti non strutturali come il mantenimento dei prezzi politici (per esempio il calmiere sul pane) si rivelarono tanto dispendiosi quanto necessari, mentre lo spettro della disoccupazione agitò tutta la società. A fronte di una situazione drammatica, però, non per tutti la guerra fu un disastro. Infatti, come ha osservato l’economista Pierluigi Ciocca, la distorsione del rapporto tra stato, imprese e mercato favorì l’emersione di un «ristretto nucleo di oligopoli manifatturieri di dimensione ormai internazionale nei settori meccanico, siderurgico, chimico, della gomma»⁴⁹. Grandi complessi industriali che, rifornendo l’esercito, aumentarono la propria capacità produttiva, ottennero una posizione dominante sul mercato e attrassero i capitali provenienti da importanti istituti bancari del paese (generando fenomeni anche deteriori, con intrecci azionari e concentrazioni finanziarie non sempre trasparenti). In sostanza, chi fece profitti con le forniture belliche, chi vendette prodotti sfruttando i prezzi gonfiati dall’inflazione, chi riuscì a speculare finanziariamente riuscì ad arricchirsi: industriali, grandi proprietari e affittuari, grossisti, esercenti⁵⁰.

    Da un lato, dunque, la guerra immiserì la vita di larghi strati sociali, aggravò squilibri di lungo corso tra territori diversi (tra settentrione e meridione e tra città e campagna, per esempio) e acuì disuguaglianze marcatissime; dall’altro, il modello di sviluppo capitalistico italiano – tra ritardi, storture e ingiustizie sociali – parve del tutto inadeguato per superare la congiuntura postbellica. Ai governi in carica in quegli anni cruciali, presieduti dal vecchio notabile Vittorio Emanuele Orlando (30 ottobre 1917-23 giugno 1919), dall’economista e già ministro del Tesoro Francesco Saverio Nitti (23 giugno 1919-9 giugno 1920), e poi ancora da Giovanni Giolitti (16 giugno 1920-4 luglio 1921), si pose allora, per citare di nuovo Giorgio Candeloro, il problema «più grave di tutti»: decidere se il costo del conflitto avrebbe dovuto essere scaricato interamente sulla «massa dei lavoratori» oppure se, almeno in parte, dovessero contribuire anche le classi sociali più ricche⁵¹.

    Sul piano politico, intanto, alle elezioni del novembre del 1919, effettuate con il sistema proporzionale a scrutinio di lista e a suffragio universale (seppur solo maschile), trionfarono i socialisti del psi, che ottennero il 32,3% dei suffragi e 156 seggi in parlamento, e i cattolici del ppi, che ebbero invece il 20,5% dei voti e 100 seggi, mentre la lista unica che riuniva liberali di varia estrazione si fermò a 179 seggi (passando dal 56% al 35,5%), vedendo per la prima volta il proprio potere messo seriamente in discussione. Fu un vero e proprio «terremoto politico», che scosse le istituzioni e minò l’autorità delle classi dirigenti liberali⁵². Dall’analisi del voto emerse infatti che gli unici due partiti di massa in competizione, il psi (primo partito in parlamento) e il ppi (l’ultimo arrivato sulla scena politica), controllavano praticamente tutto il centro-nord (basti pensare che due terzi dell’elettorato socialista si concentrò in Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana)⁵³. Elemento di fondamentale rilevanza, poi, fu che le elezioni, dando voce per la prima volta a una parte di italiani che mai avevano avuto l’opportunità di esprimersi, decretarono la vittoria di forze politiche che, pur non alleate, avevano avversato la guerra, rifiutato i presupposti del nazionalismo e, con programmi e sensibilità differenti, proposto riforme di carattere strutturale tali da determinare un’evoluzione dei rapporti sociali ed economici.

    I socialisti, per i voti ottenuti, confermarono la potenzialità del loro radicamento territoriale, faticosamente raggiunto dopo anni di battaglie politiche, e diedero prova di aver costruito il maggior partito di massa sulla piazza. Videro quindi nei risultati un trionfo. E proprio in quanto non allineati al vecchio sistema politico, e anzi avversati dai conservatori, entrarono in parlamento senza smorzare la spinta rinnovatrice che li contraddistingueva. Il giorno dell’inaugurazione della nuova legislatura, per affermare la propria contrarietà all’istituto della monarchia, i deputati socialisti abbandonarono la Camera durante il discorso del re, Vittorio Emanuele iii, inneggiando alla repubblica socialista. In particolare, l’ala massimalista del partito, certo maggioritaria ma nient’affatto risoluta, e piuttosto convinta che la storia, anche in Italia, marciasse verso la rivoluzione, ricavò dalla vittoria la convinzione che il momento di arrivare al potere fosse ormai giunto⁵⁴.

    I cattolici, invece, entrati sulla scena nazionale con tutta la forza che proveniva loro dall’appoggio dei parroci e delle parrocchie, così come della rete sociale, sindacale e finanziaria cattolica – in un paese ancora prevalentemente agricolo –, ottennero un peso non irrilevante lanciando un messaggio interclassista. Si mostrarono decisi a difendere i propri interessi, a tutelare il ruolo della Chiesa nella società e ad affiancare o addirittura sostituire i liberali come forza di riferimento. Sotto la guida di Luigi Sturzo, il ppi rinunciò a trasformarsi in un partito integralmente clericale e le sue due anime, una antisocialista e più interessata alla difesa della proprietà terriera, l’altra più popolare e aperta al riformismo sociale, trovarono spazi di dialogo e mediazione⁵⁵.

    Non ci fu tempo, però, di tergiversare: gli effetti della guerra accelerarono in modo imprevisto trasformazioni in atto da decenni e al conflitto armato seguì il conflitto sociale. Questo avvenne non solo su scala nazionale ma anche su scala internazionale (in Francia, in Germania, in Inghilterra e perfino negli Stati Uniti), anche se proprio in Italia l’avvento della società di massa entrò in collisione con l’esistenza di uno stato liberale d’impianto oligarchico, al cui interno agivano uomini non pronti, né disposti, ad aprirsi alle istanze democratiche. L’acuirsi dello scontro verticale (tra alto e basso) trovò quindi del tutto impreparati i protagonisti della vita pubblica dell’epoca, e proprio questo scontro si acuì per via di alcuni problemi strutturali del paese. Fu una crisi senza precedenti, e per certi versi l’Italia, pur non trovandosi nelle condizioni politiche e sociali della Germania e dell’ex-Austria-Ungheria, sembrò più un paese vinto che un paese vincitore⁵⁶.

    Emerse allora l’attrito esistente tra volontà di conservazione e necessità di modernizzazione, disvelando una realtà contraddittoria e conflittuale. Davanti all’urgenza di trasformazioni profonde, molto si discusse sulle forme, i presupposti e gli obiettivi che sarebbe stato possibile raggiungere. Proprio a partire dal 1919, come ha scritto lo storico Roberto Bianchi, tre questioni divennero ineludibili: la pace, il pane, la terra⁵⁷. La pace, per mettere fine agli anni terribili di una guerra imposta al paese e al parlamento; il pane, per contrastare il crescente carovita e affermare principi di equità sociale; la terra, per rendere reale ciò che era stato promesso a milioni di contadini, mandati a morire al fronte con il desiderio di emanciparsi dopo una vita di sfruttamento. Si aprì allora uno scenario in cui alle vecchie forme di protesta si sommarono inedite richieste di natura politica, economica e sociale; una fase in cui, anche grazie agli echi della Rivoluzione russa, «sembrava possibile pensare e osare tutto»⁵⁸. E quindi anche scardinare antiche sudditanze, superare rigidissime barriere di classe, ampliare i diritti individuali e collettivi, offrire opportunità a chi fino ad allora non ne aveva avute.

    Si cercò dunque di ridefinire i rapporti tra stato, istituzioni e cittadini e si chiesero profonde riforme economiche accanto a provvedimenti immediati per tamponare una situazione altrimenti drammatica. Individui di estrazione sociale differente – proletari, contadini, braccianti – diedero vita a dimostrazioni di piazza, tumulti, manifestazioni, invasioni di terre incolte o mal coltivate. Fu un moto umano irriverente e dirompente, dal carattere chiaramente politico, al quale, soprattutto nel 1920, si aggiunsero imponenti mobilitazioni operaie, con un attivismo e un’organizzazione prima d’allora mai visti. Nel mese di settembre furono occupate moltissime fabbriche nel nord del paese, in particolare a Torino, per chiedere condizioni di lavoro migliori, riduzioni degli orari di lavoro, incrementi salariali. Inoltre, anche molti reduci, stremati dal conflitto ma decisi a riconoscersi nella comune esperienza vissuta, si riunirono nell’Associazione nazionale combattenti (anc), organizzandosi per far valere i propri diritti e promuovere una maggiore giustizia sociale. Questo sommovimento del tessuto sociale italiano, per la sua ampiezza e la sua radicalità, fu qualcosa di inedito nella storia del paese. «Quel che veniva avanti – per usare ancora le parole di Vittorio Foa, sindacalista di lungo corso – era l’affermazione sulla scena politica di strati sociali e di classi che ne erano state storicamente escluse»⁵⁹.

    Si tenga presente, del resto, che anche l’etichetta di biennio rosso per indicare gli anni 1919-1920, un’etichetta che spesso ha finito per enfatizzare gli aspetti eversivi, illegali e violenti di quegli episodi, è stata fortemente rivalutata dagli storici. Accanto agli echi provenienti dalla Russia e all’estremismo verbale dell’ala massimalista del psi – certo maggioritaria nel partito ma politicamente debole – le lotte sociali e sindacali di quei due anni cruciali, spesso spontanee e non organizzate, furono animate da spinte, motivazioni e obiettivi anche molto diversi, non comprimibili dentro un unico contenitore e soprattutto non guidate da uno stuolo di rivoluzionari di professione pronti a impadronirsi del paese dopo averlo gettato nell’anarchia⁶⁰. Il sindacalismo italiano, così come molti dei parlamentari del psi, era del resto su posizioni riformiste e, nella sostanza, socialdemocratiche. Oltre che nelle speranze dei massimalisti, quindi, quei due anni furono rossi soprattutto negli incubi della grande borghesia⁶¹. Industriali e agrari furono infatti ossessionati dall’eventualità che un capovolgimento dei rapporti di forza intaccasse rendite, profitti e posizioni di potere. E non per caso alle graduali aperture di Nitti e alle più complesse manovre di Giolitti, tese a ricomporre le fratture esistenti e a far pagare i costi della guerra anche a chi con la guerra si era arricchito, la grande borghesia reagì con marcata ostilità; riuscendo anche ad affossare alcuni provvedimenti legislativi e a impedire il varo di misure economiche che avrebbero introdotto nuove imposte⁶².

    Ricostruendo gli avvenimenti di quegli anni, già Gaetano Salvemini osservò che in Italia, anche se i disordini causarono smarrimento e frustrazioni diffuse, non ci fu nessun pericolo bolscevico; intendendo per pericolo bolscevico la possibilità di un rovesciamento violento del potere politico. Per Salvemini, tuttavia, i «peggiori elementi della classe dirigente» scelsero di non prendersi le proprie responsabilità di fronte a una situazione complessa e a tratti drammatica. Ben conoscendo l’insofferenza dei ceti medi, sempre più ostili ai socialisti perché sempre più attratti dalle parole d’ordine dei nazionalisti, trovarono anzi vantaggioso individuare un nemico contro il quale puntare l’attenzione, in un momento di profonda transizione per il paese. Questa «frenesia italiana antibolscevica» – pur in assenza di bolscevismo – in alcuni casi portò, secondo Salvemini, a scorgere una minaccia onnipresente, a immaginare l’esistenza di un movimento rivoluzionario compatto, imprevedibile, irriducibile, ben coordinato e spaventosamente forte⁶³.

    Nel frattempo, invece, a rafforzarsi furono gli uomini che per anni avevano predicato, invocato e urlato la creazione di una nuova Italia, rifiutando l’identificazione tra democrazia e progresso. Proprio nell’immediato dopoguerra, infatti, si assistette al definitivo sdoganamento del furore nazionalista, che attecchì in larghi strati della popolazione, e al diffondersi di un acuto risentimento verso l’ordine politico esistente. L’ondata antidemocratica da cui scaturì il fascismo, così, iniziò a travolgere il paese.

    La politica della violenza

    Parallelamente alle lotte sociali del 1919-1920, un’altra Italia, l’Italia che nella guerra aveva creduto e che nella guerra credeva, mostrò di non essere affatto paga del tributo di sangue già versato. I nazionalisti, soprattutto i giovani di estrazione borghese, cominciarono a occupare le piazze, attaccando spregiudicatamente chiunque non riconoscesse la giustezza della guerra appena conclusa e gridando indignati per la cosiddetta vittoria mutilata: un’espressione coniata da D’Annunzio sulle colonne del «Corriere della Sera» per esprimere il timore che l’Italia non riuscisse a ricavare abbastanza vantaggi al tavolo della pace di Versailles (scriveva il poeta già nel 1918: «Vittoria nostra, non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i ginocchi né tarparti le penne. Dove corri? Dove sali»⁶⁴). La vittoria mutilata, nel giro di alcuni mesi, divenne un vero e proprio mito politico, destinato a inquinare il dibattito pubblico, a ravvivare la polemica tra interventisti e neutralisti (come invece non avvenne in altri paesi, che pure erano stati attraversati da simili divisioni), e a mostrare quanto influente e quanto radicato fosse ormai il nazionalismo⁶⁵.

    Richiamando le clausole del Patto di Londra e appellandosi al principio di autodeterminazione nazionale (non rispettato nel caso del Tirolo, annesso all’Italia nonostante la maggioranza della popolazione fosse di lingua e cultura tedesca), si rivendicò il pieno controllo di terre in cui, nelle aree urbane, vivevano molti italiani: il nord della Dalmazia e l’Istria, compresa la città di Fiume (non inclusa nel Patto di Londra). Nel fare ciò non si volle tener conto dell’assetto internazionale postbellico, né della nascita nell’Adriatico orientale di «un imprevisto stato vincitore»⁶⁶, il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni (che nel 1929 divenne il regno di Jugoslavia). Si provò piuttosto a scavalcare i limiti imposti dalla nuova realtà politica e anzi si pretese, anche grazie a un’accesissima campagna stampa che nessuno ebbe il coraggio di frenare, che gli Stati Uniti di Wilson rispettassero accordi che non avevano né discusso né sottoscritto⁶⁷.

    Ad aggravare il corso degli eventi contribuì, tra il 1919 e il 1920, l’occupazione di Fiume da parte di D’Annunzio, alla testa di gruppi di ex-combattenti, reduci e militari sediziosi: uno «spettacolare esempio di violenza internazionale» concepito come il primo passo verso l’annessione della costa adriatica⁶⁸. Si trattò di una manovra appoggiata da ambienti diversi e caldeggiata dai giornali più aggressivi, come «Il Popolo d’Italia» e «L’Idea nazionale», che spiazzò il mondo politico e che, prima ancora di caratterizzarsi per le forme inedite e irrituali che D’Annunzio seppe imprimerle, rivelò tutto il potenziale eversivo della causa nazionalista. Il principale problema legato alla spedizione fiumana, infatti, fu la «convivenza delle forze armate con i ribelli»: la possibilità che il governo perdesse il controllo delle truppe e che si arrivasse addirittura a una marcia su Roma⁶⁹. La spedizione fiumana, dal punto di vista storico, fu quindi un drammatico momento di tensione fra i corpi dello stato, una spia della crisi del paese e insieme un fattore del suo peggioramento⁷⁰. In un approfondito studio dedicato al ruolo dei militari in quel periodo, proprio l’episodio di Fiume è stato identificato come «il paradigma dell’indisciplina»: il momento in cui fu evidente che gruppi marginali ma non esigui di ufficiali, già coinvolti «nella lotta di piazza o in avventure di carattere antigovernativo», avevano abbandonato la tradizionale apoliticità dell’esercito per supportare le forze politiche che si autodefinivano «patriottiche», e che non volevano lasciarsi alle spalle la guerra prima di aver cambiato l’Italia⁷¹.

    Il paese, dopo la conferenza di Versailles, ottenne una favorevole rettifica dei confini settentrionali e, a seguito di un’aspra contesa, un ampliamento dei confini orientali. In particolare, con trattato di Saint-Germain del 1919 e il trattato di Rapallo del 1920 acquistò circa quindicimila chilometri quadrati di territorio e poté annettere il Trentino (e Trento), l’Alto Adige fino al Brennero e le zone limitrofe, e poi la Venezia Giulia orientale, Trieste, l’Istria, Zara e

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