1989 - Hotel Timisoara
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1989 - Hotel Timisoara - Andrea Santinelli
1989 - HOTEL TIMISOARA
Sommario
Como – marzo 1994 6
1. Prologo 6
Bologna – marzo 1994 15
2. Il principe del Baltico 15
3. Zapoj 22
Filottrano (AN), Belgrado – agosto 1989. 28
4. Tassoni e rustiche 28
Bologna – marzo 1994 34
5. Asceti e puttanieri 34
Filottrano (AN) – giugno 1988 36
6. Trincea 36
7. Maeterlinck e oltre 39
Filottrano (AN), Belgrado, Timisoara – agosto 1989 43
8. Il margine della trattativa 43
9. Stazioni internazionali 47
10. Caronte 56
11. Soli! 63
Filottrano (AN) – luglio 1989 67
12. Pacifico 67
13. Trio Teddy 71
Timisoara – agosto 1989 76
14. Coltelli 76
15. Argonauti 81
16. Piata Victoriei 85
17. Caffè latte 92
18. Troppa luce 97
19. L’ultima prima volta 101
Bologna – marzo 1994 106
20. Una speciale perfezione 106
Timisoara – agosto 1989 107
21. Mentire, sempre! 107
22. Cacciatori professionisti 114
23. Truffe 117
24. Un macello 125
25. Amichevolmente 130
26. Signora Mia 133
27. Il lettone 138
28. Fuori quota 141
29. L’ussaro senza cavallo 143
30. Nel carnevale 146
31. Accamparsi 152
32. Corina! 157
33. Assestamenti 160
34. Risky business 167
35. Incontri al vertice 173
36. Picnic 177
37. Rotolarci 182
38. Uno normale 186
39. Cuccioli 190
40. Sandra! 194
41. Tappeto rosso 201
42. La frana 203
43. Generazioni 206
44. Due birre tiepide 216
Bologna – marzo 1994 219
45. Keanu 219
Timisoara – agosto 1989 222
46. Acquazzone 222
47. Inguaribili sognatrici 227
48. Andarsene 233
49. Cene eleganti 237
50. Scomparsa! 241
51. Un pugno allo stomaco 245
52. Quello che manca 247
53. Il momento di tornare 252
54. Un’ombra come tutti 261
55. Squadra di salvataggio cuccioli 273
56. …solo un’autostrada 281
57. L’unguento di Giuda 283
58. Calcioni, presi e dati 288
59. Domani mattina? 292
60. Addio! 294
Timisoara, Belgrado – agosto 1989 297
61. Un angelo invisibile 297
62. La fata turchina 300
Belgrado – Agosto 1989 307
63. Epigoni 307
Belgrado, Filottrano (AN) – agosto 1989 311
64. Il ritorno 311
Timisoara – novembre 1989 318
65. All’imbrunire 318
Bologna – marzo 1994 321
66. Al di là della speranza 321
Naidas – novembre 1989 327
67. Frontiera, il buio 327
68. Frontiera, la luce 332
Milano – aprile 1994 335
69. L’illusione di un’unione 335
70. Solo nomi incrociati 342
Amburgo – novembre 2000 348
71. Perdersi nella bufera 348
2022 – UNA POSTFAZIONE 359
RINGRAZIAMENTI 363
UNA SPECIE DI BIBLIOGRAFIA 364
«Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere quest'olio a più di trecento denari e darli ai poveri!»
Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un'opera buona; i poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre.»
Marco 14,3-9
Como – marzo 1994
Prologo
Dana
È quasi l’una. Pietro sta arrivando, ormai è questione di minuti.
Appoggio le mani al portone blindato, chino la testa pesante in avanti. La mia immagine si riflette nitida sul marmo del pavimento. L’ingresso, dai tre scalini al cucinotto, non è mai stato così pulito. Sarà contento stavolta.
Sono rimasta in casa ad aspettarlo, me ne sarei potuta andare, è più di un’ora che sono di fronte all’uscita, da quando quelli del 118 hanno portato via mia suocera. Bloccata sulla barella, non ha potuto chiudere la porta con nemmeno una delle solite sei mandate. Dal pianerottolo mi guardava con gli occhi sgranati e la bocca socchiusa, ha persino alzato una mano tremante verso di me.
L’infermiera l’ha accarezzata sulla fronte. «Non si preoccupi, la rivedrà oggi pomeriggio, adesso dobbiamo andare.»
Nel solito squallore generale è stata una mattinata tutta da ridere. Ho chiesto alla vecchia strega per due volte il mazzo di chiavi proibite, prima per entrare nella sua cameretta a telefonare, poi per far salire quelli del 118. Entrambe le volte era in terra che mugolava dal dolore. Per due volte ha smesso di lamentarsi, ha sgranato i suoi occhi cattivi e infine ha ceduto. E solo con le chiavi di nuovo in mano ha ripreso la lagna.
Ecco Pietro, sta salendo le scale. Il battere ritmato dei suoi scarponi è più serrato del solito, è ancora infuriato, come al telefono un’ora fa.
Vado ad aspettarlo nel cucinotto, lì sopporto meglio calci, pugni, insulti, tutto.
Il portone blindato si apre con uno scatto, l’urto violento sulla parete mi fa vibrare come fosse una scossa elettrica.
Stavolta sì che mi ammazza.
«Dove sei?» I passi rimbombano nel corridoio, sempre più vicini. «Come cazzo ti è venuto in mente, piccola idiota che non sei altro?»
Mi appoggio alle piastrelle fredde della parete. Sto sudando, le mani mi scivolano verso il basso, seguite da tutto il corpo.
Pietro è già di fronte a me. Gigantesco, con gli stessi occhi cattivi della vecchia. Le braccia contratte lungo i fianchi, i pugni serrati, tremolanti. «Dare la cera sugli scalini dell’ingresso, subito prima dell’arrivo di mamma! Maledetta rumena ritardata!»
Non mi guarda nemmeno in faccia. Batte forte le scarpone sul pavimento, al naso mi arriva la polvere del suo cantiere, ma io respiro soltanto la sua furia. Tremo come una foglia. Che scema, sarei dovuta scappare via un’ora fa, ora è troppo tardi, ora devo solo tenere duro. Stare calma e nascondergli il fianco massacrato l’ultima volta, poi è tutta discesa.
Alza il pugno su di me. «Si è fratturata il femore, lo capisci?» Mi colpisce duro sulla parte buona. Colpisce ancora, e ancora, ma sempre meno convinto, fino a fermarsi del tutto.
La spalla mi fa male, ma ha tenuto, il dolore è sopportabile, il livello è quello delle sbornie tristi. Anche se ora è tutto diverso: è il mio momento di gloria. È bastato un intruglio sui tre scalini di marmo d’ingresso, quello schifoso marmo lucido che ha voluto lui. Una frattura è ben più di quello che mi aspettavo.
La rabbia nei suoi occhi si scioglie in un pianto infantile. «Devo trovare qualcun altro che ti stia dietro, e alla svelta!»
Si appoggia sfinito sul tavolino accostato al muro. Dio mio, così fa persino pena, è soltanto un poveraccio, dopotutto. Un povero sfigato come me.
Scosta una seggiola e si siede. Prende una delle mie sigarette dal pacco sul tavolo e l’accende.
«Ho già chiamato mia sorella» tamburella le unghie spesse sulla tovaglia a scacchi «ma da Cagliari non sarà qui prima della prossima settimana, se va bene.»
Rimane immobile, in silenzio. Brutto segno, ora ripartono le botte.
Una mosca mi assedia, la scaccio via, si posa sul vecchio fornello fra il piatto di pasta e la moka, ma non succede nient’altro. Non mi arriva uno schiaffo, una spinta, niente. È stremato, il suo viso segnato da righe profonde; va a finire che è la giornata in cui prendo meno bastonate della storia. Durante le rivoluzioni bisogna contrattaccare decisi, avrei dovuto saperlo, io che nell’89 ero lì a Timisoara, invece niente: in questi anni ho solo aspettato di buscarle, inerte. Mi è bastato reagire una volta e l’orco è andato al tappeto.
Mi rimetto in piedi, pesco anch’io una sigaretta. Il fumo infiamma l’ascesso che ho in bocca, addolcisco il fastidio passandoci sopra la lingua.
Pietro sbatte il pugno sulla tavola e mi punta l’indice. «Domani te ne stai a casa, in ogni caso.»
Me l’aspettavo, ribatto subito. «No, ti prego, la gengiva è troppo gonfia, se vuoi lo faccio venire a casa il dentista.»
Pietro mi scruta di traverso. Spero la mia faccia sia ingenua e sofferente quanto basta. Il bozzo di due centimetri sotto la guancia non può non fare effetto.
Si avvicina. «È impossibile, fa vedere.»
«Mi fa malissimo.» Allargo la bocca con un dito. «Guarda qua!»
Mi sta così attaccato solo quando scopiamo. Nasone pieno di punti neri, guance butterate, bocca enorme e carnosa: il suo aspetto è persino più ributtante di quello che ha dentro.
Non l’ho ancora convinto, ma è indeciso. Devo insistere. «Lo chiami, ci mette poco… poi se ne ritorna in studio, ti prego!»
Scoppia in una risata. «Per farlo venire, dovrei romperti il femore anche a te! E non sarebbe nemmeno una cattiva idea.» Deglutisco a vuoto. Mi appoggio di nuovo al muro, scivolo fino a terra e mi stringo le ginocchia al petto.
Aggrotta le spesse sopracciglia e porta le mani alla fronte. Deve trovare una soluzione sensata e col suo cervello da manovale edile ne avrà per un po’.
Il gonfiore è ormai evidente da diversi giorni, ma ho aspettato ancora per essere sicura dell’effetto. Sono settimane che mastico sull’ascesso, settimane che mi lavo i denti a metà, che mi punzecchio di continuo con un ago. Da uno stupido doloretto ho creato una brutta infiammazione, e ora una possibilità di un blitz nel mondo esterno. Il resto è tutto merito della cera corretta e dei tre scalini di marmo dell’ingresso.
Alza lo sguardo verso l’orologio sopra la porta, avrà il mal di testa per la troppa concentrazione. «Hai preparato qualcosa da mangiare, amore mio?»
Mi alzo da terra e gli allungo il piatto di pasta al pesto parcheggiato sul vecchio fornello da una vita.
Aggrotta di nuovo le sopracciglia.
Lo anticipo. «No, io non mangio, non preoccuparti, il dolore mi ha tolto l’appetito.» La tensione mi chiude lo stomaco.
«Che bontà» sussurra sarcastico «che varietà in cucina, e quanto impegno.» Scrolla la testa, la sua bocca orrenda si piega in un sorriso amaro. «Hai anche mandato mia madre all’ospedale, e io mi preoccupo per la tua gengiva, me ne sto qui a pensare se è il caso di fidarmi di nuovo di te, ti rendi conto?»
Eccoci al dunque.
Incrocia le braccia e si appoggia allo schienale della sedia. «Riesci a capire cosa mi tocca fare? Magari domani devo partire per raccattarti una seconda volta alla frontiera! Non mi fido più dei rumeni, siete una razza bastarda, a guastarvi è il sangue zingaro che vi scorre nelle vene!»
Dovresti invece fare un monumento al popolo rumeno: senza noi poveracce ti saresti fatto le seghe per tutta la vita. Abbasso gli occhi, se legge i miei pensieri mi fa fuori.
«Ma devo dire che ti sei comportata sempre bene da allora, anche senza mia madre.»
Annuisco e sorrido, per la verità dopo la fuga la strega non mi ha mai mollato un secondo, ma devo lasciar perdere: ho un fottuto bisogno che lui ci creda alla sua bontà. «Per me puoi anche farlo venire qua il dentista, non mi cambia nulla, ma devo fare qualcosa, il dolore mi acceca.» Non devo cedere di un centimetro, non ora.
«Sì, il dolore mi acceca» ripete a pappagallo e sbuffa, sputacchiando pezzetti della pasta che ha trangugiato in due minuti. Deve già ritornare al cantiere, anche se è a due passi da qui: lo hanno trasferito a Como da un mese. Al peggio non c’è mai fine nella vita.
Vuoto la moka in una tazzina. L’ora di pausa è già finita. Si drizza dalla sedia, beve il caffè tiepido e si alza per uscire. «Che vita di merda.»
Gli allungo le chiavi della strega, lui me le strappa di mano e mi guarda negli occhi.
«Va bene, domani alle dodici vai dal dentista. Alle tredici torno, se non ti trovo a casa ti spezzo il femore a pugni e poi ti ammazzo di botte: non mi frega niente se ha fatto ritardo il dentista, lo faccio solo perché è giusto, e perché oggi non mi sento in forma.»
Annuisco seria, devo trattenermi. Una gioia nuova sta esplodendomi dentro, una gioia che riconosco subito, che viene da lontano, quando avevo addirittura dei privilegi rispetto agli altri, quando andavo a prendermi quello che volevo, con la decisione e la sicurezza di chi sa che gli spetta di diritto. Mi viene da piangere.
«E non frignare, la mamma si riprenderà. Dovrei piangere io, per aver sposato una cretina come te!»
Esce di casa, sbatte il portone d’ingresso, dà sei mandate serrate. I passi pesanti sulle scale si fanno via via più lievi, fino a sparire.
Raggiungo l’ingresso per assicurarmi che sia uscito. Mi siedo sui miei tre scalini e accendo un’altra sigaretta. Il fumo infiamma ancora la gengiva, la sento pulsare, che ingrata che sono, le devo tutto e la faccio soffrire.
Dovrei essere euforica, ma sto tremando. Mi esce fuori una risata stridula, come dentro un raptus isterico dei miei, non riesco a controllarmi.
Ho architettato tutto per uscire da questa gabbia, ma per cosa? Per parlare, chiedere aiuto a un ragazzo che non sento da cinque anni. Mi è venuto così, avevo il suo numero in borsa da sempre, l’ho chiamato dalla cabina, in coda alla telefonata mensile a mio padre, e con la strega appoggiata lì fuori. Mi ha risposto sua madre, ma ora ho il numero della sua nuova casa.
Sono proprio una stupida: ho bisogno di un aiuto concreto, di una persona generosa e matura. Andrea cinque anni fa era solo un ragazzino, e gli uomini italiani non crescono mai. Anche se la sua, di mamma, è diversa dalla vecchia strega, è stata gentile con me. Sì, magari lui è diverso, ma deve essere cresciuto parecchio per servirmi a qualcosa. E chissà, magari gli piaccio come allora, anche se mi basterebbe fargli pena - questo sì che è possibile - fargli pena così tanto da sbattersi un po’ per me. Magari conosce qualcuno, oppure mi consiglia a chi rivolgermi, un avvocato, un’associazione che mi faccia uscire di qui senza temere di essere ammazzata.
***
L’odore forte del disinfettante che riempie lo studio mi rilassa. Il dentista mi sta spalmando qualcosa di acidulo intorno al bubbone. Occhi azzurri mi scrutano a pochi centimetri di distanza: nella vita esiste qualcosa di bello, basta muoversi, avere un po’ di coraggio. E poi ho sempre avuto un debole per gli uomini in camice bianco.
«Niente di grave, signora» mi guarda incuriosito da dietro gli occhiali di tartaruga.
«Mi fa un male cane, dottore.»
«Ho disinfettato bene l'ascesso, e le ho messo anche l’antibiotico.»
Sembra preoccupato per me.
«Non mangi per un’ora.» Ripone un piccolo uncino sottile fra gli attrezzi. «Domani sarà come nuova, è un’infiammazione piuttosto anomala alla sua età, il resto della bocca è perfetto. Potrei farle un calco solo per tenerlo in esposizione.»
Arrossisco come una stupida ragazzina, ma non mi distraggo. «Potrei ripassare? Se il dolore continua…»
«Non si preoccupi, domani si scorderà di averla, una gengiva.»
«Insisto, non mi sento per niente sicura.»
«Okay, se ha qualcosa faccia un salto.»
«Vorrei un appuntamento.»
«Certo, certo, se questo la può far stare più tranquilla.» Abbozza un sorriso tirato e si piega sulla scrivania.
Ci mancava solo il dentista che non vuole farmi spendere.
«Mercoledì alle 9.30 può andarle bene?» Mi porge un biglietto con su scritto l’orario.
Me lo metto in borsa. «Perfetto, grazie. Poi magari se sto bene la chiamo e disdico.»
Il dentista allarga le braccia e sorride. Mi farebbe sparire di colpo, se potesse.
Scendo dal sedile. L’orologio appeso al muro dice dodici e quaranta. Sono in orario ma devo sbrigarmi.
Do un’occhiata di sfuggita alla segretaria all’ingresso che annuisce, pagherò la prossima volta.
La strada è scura come a serata inoltrata, goccioloni freddi mi tamburellano in faccia ma il rosso vivo della cabina telefonica è lì a due passi, ed è libera.
Tiro fuori il numero di Andrea, mi trema la mano sui tasti. Sono passati cinque anni, magari mi ride in faccia, magari nemmeno mi riconosce. Madonna, il cuore mi batte come in quel nostro primo pomeriggio.
Sì, suona bello di mamma, suona!
E adesso rispondi Andrea, ti prego rispondi!
Bologna – marzo 1994
Il principe del Baltico
Andrea
«Dai Andrea alzati, ti vogliono al telefono… forza, tirati su!»
La luce bianca del pieno giorno mi arriva in faccia e invade la camera. Sono sudato marcio, ho gli occhi indolenziti da un dormiveglia infinito. Un’acidità pastosa mi impregna la bocca.
Il cozzare della porta sulla parete mi risuona dentro come un gong e dissolve tutta la baldoria che ho in testa. Il muro ribatte indietro la porta, fino a richiuderla.
Nel buio ritrovato posso respirare, e ripiombo in mezzo a gente ondeggiante ai tavolini del pub, a sfattoni buttati a terra, in mezzo a brindisi, proteste e urla scomposte. Un bagliore accecante dall’ingresso illumina il locale. Sono tutti voltati verso di me, facce deformi, occhi sbarrati mi fissano immobili, non si sente più volare una mosca. Sono in pericolo, devo andarmene, ma mi sento imballato, fatico a muovere le gambe. Mi trascino verso l’uscita, ipnotizzato dalla luce bianca come una zanzara dalla lampada insetticida. C’è qualcuno appoggiato allo stipite, cerco di metterlo a fuoco.
È Lorenzo che mi guarda severo.
«Te lo dico in un altro modo Andrea, e per l’ultima volta: è quasi l’una e al telefono c’è una ragazza che ti cerca!»
Stavolta lascia la porta spalancata e se ne va.
Mi drizzo in piedi dal letto, con un balzo sono in corridoio. La luce diretta dalle finestre spalancate mi fa sbandare. Ho come una pesante placca di metallo che mi stringe la testa e tutto che gira in tondo. Devo appoggiarmi al muro per rimanere in piedi, ma il telefono è lì a due passi, sulla sua mensolina. Mi spingo in avanti, afferro la cornetta come fosse un appiglio su un precipizio e mi butto con le spalle al muro.
«Pronto.»
Un lungo sospiro mi arriva all’orecchio, ombre si agitano dietro il vetro opaco della cucina di fronte a me.
«Ciao Andrea.» Una vocina mi rimbalza in testa, senza trovare collocazione. «Scusa se telefono dopo tanto tempo, sono Dana, della Romania, ti ricordi di me?»
Non c’è nessun accento enfatizzato nella voce, quegli stronzi di là lo avrebbero richiesto, e bello marcato, a un’attrice improvvisata. No, non può essere il solito scherzo.
«Dana, sì certo, quanto tempo! Come stai?» Sì, mi ricordo, ma devo capire con chi sto parlando: le due ragazze attorno a cui girava quel viaggio funambolico avevano lo stesso nome.
«Non molto bene, Andrea. Sono successe tante cose, ora sono a Como, vivo qui da qualche anno, e tu?»
Un rigurgito acido mi sale in bocca, allontano la cornetta appena in tempo. Un rutto rumoroso, ma ben nascosto nella mano, mi libera dalla crisi.
«Io? Niente di che. Studio ingegneria qua a Bologna, un mezzo calvario, ma come… come hai avuto il mio numero?»
«Ho telefonato ai tuoi, sono stati gentili, tua madre mi ha anche raccontato di Sandra, mi dispiace tanto.»
Lo zainetto Invicta sbrindellato è ancora lì, abbandonato in un angolo del corridoio.
«Sì, Sandra, certo.» La rivedo saltellare nel parco, addormentarsi a pancia in sotto sull’erba.
«Ti va di vederci? Ho bisogno di parlarti», scavalca con un balzo le mie esitazioni. «Ho grossi problemi, magari tu puoi aiutarmi.»
Bisogno, problemi, aiutarmi. L’eco di parole così grevi e asciutte galleggia nella mia testa, fino a trovare un approdo. Incredibile quel viaggio in Romania, quanto tempo è passato…
Dana è lì, in attesa di una risposta, ma non so che dire. Come posso aiutare qualcuno, risolvere dei problemi seri, io che giro a vuoto tutto il giorno, che non riesco a dare neanche un esame a semestre?
«Mercoledì mattina» ricomincia a martellare «ci vediamo a Milano in stazione… hai impegni?» La voce si è fatta più distesa, come se in ogni mia esitazione, in ogni passaggio a vuoto, vedesse crescere qualcosa di bello.
Non riesco a immaginare nessun impegno che non faccia ridere, ho provato Analisi 2 giusto tre mesi fa, e l’ho persino passato. «Okay» mi scatta qualcosa dentro «va bene mercoledì prossimo, ci vediamo fuori dalla stazione dopo le dieci, chi arriva prima aspetta.» La determinazione della mia voce mi lascia di stucco.
«Perfetto, a mercoledì allora!» Lei non ha tempo da perdere, saluta e riattacca.
Rimango spiazzato con la cornetta in mano, mi viene da ridere. È come essere ritornato da un posto lontanissimo, da qualcosa di remoto che è successo soltanto cinque anni fa.
Dopo la tregua, le macerie del post sbornia ritornano a galla: la testa ricomincia a girare, le orecchie a fischiare. Entro in cucina, ho bisogno di un caffè.
Lorenzo e Paolo sono seduti a giocare a carte dentro una nuvola di fumo che puzza di hashish e cibo stantio. La porta-finestra accostata, la serranda abbassata a metà. Sullo sfondo incombe la solita montagna di piatti da lavare. Straborda dal lavello, fino ai fornelli.
Nessuno sembra accorgersi di me, eccetto le mosche che interrompono il banchetto fra le stoviglie e si alzano in volo.
«Che battaglia stanotte, eh?» Lorenzo è concentrato, non stacca gli occhi arrossati dalle carte.
Estraggo dal mucchio due grosse pentole grondanti di tonno e cipolla. Ma non so dove metterle, il tavolo è pieno di bicchieri, libri e robaccia buttata lì.
«Ciao Andrea, come ti senti stamattina?»
Mi volto di scatto. Una ragazza, apparsa dal nulla, se ne sta appoggiata al muro. Ha in faccia un sorriso furbo. Gli occhi grandi e stanchi mi scrutano. Il seno dritto spinge sulla sua magliettina bianca. Appoggia un piede sul muro scrostato, una coscia, esile e bianca, spunta fuori da una gonna marrone plissettata.
«Capisco, ci dobbiamo presentare per la seconda volta! Io sono Sonia.» Avanza e mi porge la mano che non posso stringere.
Io le porgo una pentola, lei l’afferra per un manico e la scuote, gocce d’olio cadono sul pavimento lercio.
Scoppia a ridere, si riappoggia al muro e riaccende la canna spenta che ha in mano. Dà un’occhiataccia alla porta-finestra che si è richiusa e la spalanca con un gesto brusco.
La ventata di aria fresca mi scuote. «Eh sì, il fumo passivo ci ammazza due volte, è nocivo, e pure tristissimo!»
Lei mi allunga la canna davanti al suo sorriso disteso.
Le mostro per la seconda volta le due pentole. «Mi accontenterei di un caffè, per il momento.»
Nessuno si muove. Paolo mi guarda con un sorriso obliquo dentro la lunga barba incolta, non dice nulla e ritorna alle sue carte.
Sonia getta fuori il mozzicone, centra il balcone senza staccarmi gli occhi di dosso. È l’unica a capirci qualcosa, stamattina. «Stanotte pensavo proprio che la storia della vodka fosse un modo come un altro per rimorchiare, rischioso ma divertente, ti sono venuta dietro alla grande.»
Di una bottiglia di vodka ricordo l’etichetta verde sbiadita, l’avevo portata via dalla cena di quelli dei massaggi shiatsu, nient’altro.
«Poi però ho capito che non avevi secondi fini, e che non potevo competere con la Moskovskaya. Il tuo amico è più affidabile…» Lancia un’occhiata poco convinta verso Paolo.
Anche questa qua, come la ragazza al telefono, non so chi sia e non capisco niente di quello che dice. Oggi va così.
Lorenzo si gratta il vertice basso della faccia triangolare. I suoi occhi acquosi sono seri e lontani.
«Serate comunque memorabili…» Il suo sguardo si illumina, sbatte sul tavolo il tre di spade, finalmente la carta giusta.
Ora almeno mi guarda in faccia. «Non ti ricordi niente, quindi? Nemmeno quando sei entrato nel pub con quella bottiglia, e cercavi in tutti i modi di correggere le birre ai tavoli?»
Non so cosa stia dicendo, né ancora dove mettere le pentole.
«Ci siamo cagati addosso.» Sgrana gli occhi, ma non riesce a non ridere. «Li hai fatti incazzare tutti, là dentro, un bestione aveva perso la testa.»
«E tu vattene, brutta troia!» La ragazza scimmiotta il gorilla, si appoggia una mano in fronte e scuote la testa. «Mi gridava in faccia come un ossesso, poi mi ha stesa con uno spintone.»
Lorenzo allarga le braccia. «Ho detto al gorilla che eri un ragazzo problematico, ma la tua faccetta da cazzo non lo convinceva.» Dà un’occhiata a Sonia e scoppia a ridere.
Al caffè ci rinuncio, rimetto tutto come prima.
Paolo gioca la sua carta e si volta «Fai sempre più schifo, ogni uscita ne inventi una nuo——» Esplode in un rutto baritonale e si eclissa di nuovo nelle carte.
Ridono tutti per un rutto, come ritardati. Di ieri ho solo qualche immagine scollegata dal contesto, e non ho più voglia di starli a sentire.
La struttura di stoviglie che ho ripristinato è piuttosto stabile - Sonia mi fa okay con la mano - non riesco a fare nient’altro e ho di nuovo gli occhi pesanti. Me ne torno dritto in camera.
Mi ributto sul letto a corpo morto, senza nemmeno chiudere la porta. Riesco a fatica a tenere gli occhi aperti,