La tana dell'oste
Di Nino Filastò
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Anteprima del libro
La tana dell'oste - Nino Filastò
La tana dell'oste
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1986, 2021 Nino Filastò and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728175170
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
LA TANA DELL’OSTE
Personaggi principali:
GIUSEPPE SARDI
avvocato
BEATRICE SARDI
moglie di Giuseppe Sardi
IVAN UBALDINI
pediatra, ex medico legale
IRENE TANINI
amica di Beatrice Sardi
ELISABETTA BALUARDI
proprietaria e cuoca
della trattoria Le Mosche
GIULIANA BALUARDI
figlia di Elisabetta
TULLIO MACCONE
ragioniere
UGUCCIONE LANFRANCHI
medico legale
BONTURO BUTI
detto TOMBA
aiutante del becchino
di San Giuliano Terme
ANTIDE PELACANI
detto TAPPO
commerciante
VIRGINIA PELACANI
moglie di Antide Pelacani
DIONIGI
cameriere
al ristorante Le Mosche
GUIDO TOMMASI
professore alla facoltà
di Chimica della Sapienza
KNUT SKAREHIM
scultore norvegese
MARGARETHA MUNCH
allieva di Knut Skarehim
VALDEMARO
cavatore di marmo
ORESTE DIOTALLEVI ladro
FRANCESCA TERZANA
MARCO GIORDANI
studenti alla Normale di Pisa
AVVERTENZA DELL’AUTORE
L’argomento del romanzo è liberamente ispirato a un fatto di cronaca, ma fatti e personaggi sono immaginari.
Parte prima
1
— Macché maratoneta — disse Francesco Terzana — macché atleta. È un ronzino senza classe, ecco cos’è.
La discussione era cominciata in un bar, ma a mezzanotte il gestore, sbuffando, aveva messo alla porta i due studenti per fare le pulizie e chiudere il bandone. E loro avevano continuato a parlare, passeggiando per le strade del centro di Pisa. Arrivati in Piazza dei Cavalieri si erano seduti sul bordo della fontana.
Secondo Terzana il centravanti Robinson, straniero comprato dal Pisa a suon di milioni, era un bidone.
— Un giocatore di calcio che corre — obiettò Marco Giordani compagno di corso di Francesco alla facoltà di fisica della Normale — in Italia è un marziano. Robinson non è capito dai compagni di squadra.
— Perché si confonde con l’arbitro — replicò Terzana, ironico. — Corre dietro a tutti i palloni, ma arriva sempre tardi, quando l’azione è già da un’altra parte.
La quiete della Piazza dei Cavalieri, illuminata come una scena vuota, fece tramontare l’interesse per Robinson.
— Questo spazio è recente — disse Terzana. — Prima era una suburra malfamata. Un posto cupo.
— Prima quando?
— Nel Medioevo. Questa zona affogava in un fittume di stamberghe sudice all’ombra della torre.
— Quale torre? ...Ma non metterti a farmi una lezione di storia, a quest’ora della notte.
— Per essere un normalista — disse Terzana con aria disgustata — sei piuttosto ignorante, e non ti farebbe male una lezione… Parlavo della torre dei Gualandi alle Sette Vie. La Muda. Quella dove morirono il Conte Ugolino della Gherardesca con figli e nipoti. La torre della fame.
— Quella? — Giordani scosse la testa. — Non era qui. Era di là d’Arno. Verso il Ponte di Mezzo.
— Si vede che vieni dalla campagna. — Terzana accese una sigaretta. — Era proprio qui, invece. Il torrione si trovava a fianco di quella costruzione con l’orologio.
L’orologio sulla facciata del palazzo batté un tocco. Quando la vibrazione cessò, il silenzio fu di nuovo riempito dal chioccolio della fontana. Terzana rovesciò il capò e guardò il cielo.
— Che stellato! — disse, estatico. E, dopo un attimo, in tono urgente: — Accidenti com’è tardi! — Fece un salto e ricadde in piedi. — Domani è il primo maggio. Niente lezioni. Non si va a letto stanotte. Scegli: si va dalla Tamara, o si va sul Castellare a caccia di farfalle.
— Io vado a letto — disse Giordani, scendendo anche lui dal bordo della fontana. — Ho sonno.
— Le farfalle, allora. — Terzana aveva un’aria allegra. — Il tempo è ottimo. Passo da casa a prendere la macchina e l’attrezzatura.
— Vai a letto anche tu. Lasciale volare in pace, quelle poverette.
— Quando non c’è la luna non volano — replicò Terzana. — Dormono sulle macchie di ginestra.
Francesco Terzana aveva il viso pieno di efelidi, da adolescente. Portava occhiali con lenti spesse, e gli occhi acquosi sembravano due uova affogate nella salsa di pomodoro. Nell’ateneo pisano tutti sapevano della sua passione di cacciatore e collezionista di farfalle.
— Sul Castellare si trova una specie rara di atropo — riprese Terzana — una testa di morto
molto grande. Uno spettacolo! — Si infervorava sempre, affrontando il suo argomento preferito. — Tutte le farfalle notturne sono uno spettacolo, non lo immagini neppure. Quando sono in riposo, se le illumini cominciano a tremare, poi aprono le ali: allora appare l’occhio di un uccello, il nodo di un ramo. La testa di morto
ha scelto il simbolo del veleno. Si traveste da avvelenatrice. Invece è lei l’avvelenata. Con i diserbanti è diventata più rara delle lucciole.
— E tu la infili con lo spillo. Sei un sadico.
— Sono un collezionista — puntualizzò Terzana. — Mi manca l’atropo della specie più grossa. Ma stanotte lo trovo.
Era l’una e mezzo quando il cacciatore di farfalle si diresse, a bordo di una campagnola, verso la Statale numero dodici che da Pisa porta a Lucca. Si era messo un vecchio golf bucherellato dalle tarme, un paio di pantaloni di fustagno logorati dai rovi e calzava scarpe da ginnastica.
Nel portabagagli aveva sistemato il retino, la scatola di latta col coperchio forellato per lasciar respirare le prede fino allo spillo che ne avrebbe paralizzato i centri nervosi, e una torcia a pile dalla luce potente.
Nell’abitato di San Giuliano l’eco delle vie deserte amplificò il rombo del diesel. Il fuoristrada superò la strada vicinale sterrata che dalle prime case del paese conduce sul Castellare, proseguì fino alla statale per Lucca e al bivio voltò nella carrareccia che si arrampica con una pendenza insuperabile per le auto normali.
La campagnola saliva a passo d’uomo con un fracasso da camion. La guida per aggirare le buche, i roveti e i massi della montagna era faticosa, tanto che Terzana, nonostante il freddo della notte, aveva gli occhiali appannati dal sudore.
A ridosso di una curva i fari illuminarono le due case coloniche, l’una di fronte all’altra, della tenuta del Polacco
. E a un tratto, in mezzo alla strettoia, apparve un’auto a fari spenti, ferma di traverso.
Terzana frenò di colpo, e il fuoristrada, slittando sul pietrisco, sbandò di lato. Lo studente pulì gli occhiali.
Davanti, a pochi centimetri, c’era l’ostacolo che sbarrava la via; dietro, lo spigolo della colonica di sinistra; a destra, le pietre di un muro crollato dall’altra casa semidiroccata. Terzana si rese conto di essere incastrato. Segnalò con gli abbaglianti, poi suonò il clacson insistentemente.
Quasi subito, ai lati della macchina a fari spenti sbucarono due uomini, uno basso e tarchiato, l’altro alto e magro. I fari della campagnola ne illuminavano le facce, rendendole bianche e piatte. L’uomo più alto fece un passo di lato in modo da trovarsi nell’ombra della casa. Il basso sparì nel buio.
Terzana mise la testa fuori dal finestrino. — Come si fa a lasciare una macchina in questo modo? — disse con irritazione. — È un bel guaio, ora.
— Faccia mezzo metro... — L’uomo alto aveva la voce piatta. Un nodo di tosse gliela spezzò. A Terzana sembrò che affannasse. — Faccia mezzo metro di marcia indietro — riprese dall’ombra. — Mi basta per manovrare. Usciamo tutti e due, in questo modo. — Poi si infilò dentro l’auto e accese subito gli abbaglianti accecando Terzana.
Lo studente si affacciò di nuovo dal finestrino. — Abbassi le luci, accidenti! Non vedo niente!
Ma l’uomo alto aveva già acceso il motore dando gas a tutta forza. Il rumore coprì la voce. Terzana guadagnò a marcia indietro qualche centimetro, poi toccò con il paraurti di coda il muro della casa. Anche l’altro si mosse. I due veicoli manovrarono lentamente cofano contro cofano, finché l’auto con l’uomo alto alla guida sboccò sull’aia dopo la strettoia. Dal retro della casa colonica spuntò l’uomo tarchiato. Il guidatore aprì lo sportello di destra. Il tarchiato si precipitò dentro, l’auto ripartì a razzo facendo un mezzo giro e imboccò la strada sterrata. Si alzò una nuvola di polvere.
Terzana fermò la campagnola sull’aia. Scese a prendere dal portabagagli il retino e gli altri attrezzi. L’altra auto era già fuori vista sulla discesa. Sentì il raschio di una marcia inserita a forza per affrontare il primo tornante. Lo studente si avviò sul sentiero che portava sulla vetta del monte, illuminando con la torcia le macchie di ginestre. In basso un barbaglio di fari appariva e scompariva. Dal rumore del motore sembrava che l’auto dei due sconosciuti, lanciata sulla vicinale che raggiunge San Giuliano dalla parte opposta rispetto alla carrareccia, affrontasse la spirale di curve e di controcurve a una velocità assurda.
Va a finire che si ammazzano, quei due
pensò Terzana, scuotendo la testa. Ma ormai il suo interesse era di nuovo assorbito dalle farfalle.
Il silenzio era tornato da più di mezz’ora sulla campagna quando la torcia illuminò le due ali vibranti, pronte al volo, e il teschio biancastro al centro del corpo peloso dell’atropo. Il cuore dello studente ebbe un tuffo.
Mai vista una più grossa
pensò Terzana, e calò d’un colpo il retino.
2
Un chilometro prima del tunnel che fora la montagna e apre una via di comunicazione fra pisani e lucchesi, Bonturo Buti soprannominato Tomba
girò a destra. Lasciò l’asfalto della Statale numero dodici, si fermò con i piedi sulle pietre della carrareccia e fischiò al cane.
Il paese di San Giuliano, nella piana sotto la strada, era immerso nel buio. Solo le serpentine dei lampioni sfavillanti nell’aria umida ne indicavano le vie.
Il cane Tombino, come sempre inzaccherato e maleodorante, arrivò di corsa, lo sorpassò di volata e prese a infrascarsi nelle macchie da una parte e dall’altra del tratturo, emozionato dagli odori selvatici.
Sopra il monte, il cielo cominciava a diventare opalino. In maggio il sole si alza alle quattro e mezzo, e quindi mancava un’ora prima che il freddo finisse.
Tomba, vicino ai sessanta, nonostante che vivesse molto all’aria aperta, aveva un incarnato pallido e l’aspetto di un vecchio malaticcio. Faceva un mestiere menagramo. Confezionava corone da morto per i defunti poveri con i sempreverdi e con le fronde di una pianta selvatica, l’acantino, le cui foglie sono pennate e spinose. Il necroforo era rimasto a corto di acantino e andava a procurarselo sul monte Castellare, uno dei brulli monti pisani.
Nel deposito del cimitero di San Giuliano sostavano le salme di due vecchietti indigenti. Con la vestizione dei cadaveri, le corone, una percentuale sulle candele e l’aiuto al becchino comunale per l’interro, Bonturo contava di ricavare una somma che avrebbe soddisfatto le sue strette esigenze per un mese. Calzava stivali di gomma, indossava la vecchia cacciatora di velluto marrone, logora tanto da virare al verde, si era portato un paniere – caso mai si fosse trovato tra i piedi qualche fungo ‒ e la corda per legare il fascio di arbusti.
Tomba cominciò a salire. Dopo cinque chilometri di arrampicata la carrareccia giungeva sulla cima del monte. Aldilà, sul versante a nord, cresceva l’acantino. Prima di sboccare nello spazio aperto della vetta, pelata come la testa di un calvo, il tratturo invaso dai rovi, pieno di massi e di buche, si incassava fra i muri di due case coloniche abbandonate. Tomba superò la strettoia col fiato corto. A valle, sulla destra, si intravedeva nella foschia la villa del Polacco, anch’essa abbandonata, le finestre come occhiaie vuote e qualche infisso penzolante dai cardini. Dopo l’aia attigua alle coloniche, serpeggiava il bianco della strada vicinale sterrata che, in un giro di dieci chilometri, arriva a San Giuliano dal versante opposto della montagna. A sinistra si inerpicava il sentiero, appena distinguibile, fino alla vetta.
Sul sentiero, Tomba cominciò a faticare davvero. Nei tratti più scoscesi si aiutava afferrandosi ai cespugli di ginestre. Ogni tanto il cane si fermava ad aspettarlo, guardandosi intorno con flemma cortese.
Il sentiero passava a fianco di tre fori oscuri che occhieggiavano dal pendio. I vecchi della zona li chiamavano Buche Tane
, perché in antico erano stati scambiati per rifugi scavati dai cinghiali. Ma in tempi più recenti qualcuno si era affacciato, aveva buttato dentro un sasso senza riuscire a sentire il tonfo della caduta e aveva calato una lampada restando abbagliato dalle vene di quarzite e dalle stalattiti. Gli speleologi, senza riuscire ad apprezzarne il fondo, avevano accertato che si trattava degli ingressi di una spelonca profonda come le viscere del monte e forse anche di più. Da allora la gente chiamava il posto: Buche delle Fate
.
Una lama di sole trapassò una fenditura del crinale e accese il giallo delle ginestre. Tombino si fermò rigido sulle quattro zampe, rizzò il pelo e si mise a guaire. Il necroforo avvertì subito l’odore dolciastro che conosceva fin troppo bene. Sotto le Buche delle Fate mosconi azzurrati e untuosi ronzavano volando basso. Poi si gettavano impazziti dietro un cespuglio di scope. Anche Tombino guardava da quella parte in posizione di punta, come davanti a una covata di starne.
Tomba lasciò il sentiero. Più si avvicinava al cespuglio di scope e più il puzzo diventava violento. Scostò gli arbusti carichi di infiorescenze rossastre e lo vide. Il cadavere giaceva bocconi, un braccio sopra la testa e l’altro nascosto sotto il corpo. Le gambe, piegate nella posizione di un nuotatore a rana, formavano due virgole. La camicia e la maglia, sollevate fino alla nuca, lasciavano vedere la schiena nuda. La camicia era azzurra; il dorso, il braccio e la mano visibili avevano un colore bluastro. Tomba si tirò il risvolto della cacciatora sul naso. Senza repulsione data l’abitudine a trattare con i morti, fece leva su una spalla del cadavere, dette una spinta, aiutato dal terreno in pendio, e lo rovesciò. Il corpo fece un mezzo giro, floscio come polenta quando viene ribaltata sulla tavola, e si adagiò in posizione supina. I mosconi, appesantiti, si sollevarono un attimo e poi ricaddero come una manciata di sassolini. Da sotto il corpo nacque un fruscio. Tomba vide con la coda dell’occhio un grosso topo campagnolo incanutito che scappava in una sassaia. Guardò la faccia del morto e sentì l’amaro del caffè, trangugiato in fretta prima di mettersi in cammino, salirgli alla gola. Gli occhi erano pallottole di vetro opaco che strabuzzavano dalle orbite. Il volto, chiazzato di blu, sembrava continuare a gonfiarsi; dalle labbra, grosse come quelle di un negro, spuntava un pezzo di lingua turgida.
Al Tomba la morte non faceva dispiacere, anzi. Ma stavolta parve davvero contrariato e dimenticò persino di farsi il segno della croce.
Ora bisognava