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La Follia Della Dimensione: Seconda Vita
La Follia Della Dimensione: Seconda Vita
La Follia Della Dimensione: Seconda Vita
E-book102 pagine1 ora

La Follia Della Dimensione: Seconda Vita

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Info su questo ebook

Un tempo credevo di avere paura del buio.
Un tempo credevo di avere una famiglia.
Un tempo credevo di avere un nome.
Un  tempo, credevo che il tempo fosse un concetto lineare e che avesse importanza.
Ora, beh, ora realizzo che tutto quel credere non faceva altro che nutrire la fertile crescita della mia mortale e continuativa ignoranza; ora, so che se non mi fossi costretto a credere, sarei impazzito prima ancora di nascere, forse persino di esistere nell’intento del Tutto.
Ora, so che il Tempo non è altro che una voragine illimitata di dubbi e certezze, domande e risposte, frammenti parziali e completi che nulla e nessuno è portato a capire o giudicare. E nel sapere questo, mi convinco sempre piu’ di non sapere un bel niente.
«Cresci, Billy», mi viene detto, e a proferirlo, sono simultaneamente una voce folle e divertita ed una fatta di tante, infinite sfumature di toni e vibrazioni.
Un tempo, credevo di poter cambiare me stesso ed il mondo. Ora, so di non essere nient’altro che un mero spettatore portato al corso relativo della visione.
Nient’altro, che una microscopica briciola di una follia senza fine.
«Cresci, o muori.»
LinguaItaliano
Data di uscita7 apr 2023
ISBN9791222092553
La Follia Della Dimensione: Seconda Vita

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    Anteprima del libro

    La Follia Della Dimensione - Carlo F. Tropiano

    Nota dell'Autore

    A Cecilia, perché senza il suo Billy, un Bob è perduto.

    Copyright © Carlo F. Tropiano 2023

    Tutti i diritti riservati.

    Questo romanzo è opera di fantasia.

    Ogni riferimento a persone, avvenimenti, o gruppi esistenti è puramente casuale.

    Episodio 1

    ocolsarT lI

    Ricordo ancora la voce della Mamma...

    «Cresci.» La voce della Mamma, sempre instabile di follia e divertimento, affilata dal luccichio vibrante di lucidi occhi di colori infiniti. «Cresci, Billy.»

    Ma... Ricordavo bene?

    Quella era davvero la voce della Mamma?

    Fuori dal finestrino chiuso dell'auto, improvvisamente, un avvoltoio passò di fianco al mio viso protetto dal vetro e spezzò ogni ombra di dubbio o pensiero.

    «Tutto bene, Billy?», mi chiese Papà, con le solite pupille rosse immerse nella sclera nera semi-nascoste dal riflesso degli occhiali. «Sembri distante.» Il suo tono era insensibile come sempre, indistintamente gelido d'indifferenza.

    Strano. Fino a pochi istanti prima, ero certo che mio padre non fosse altro che un gradevole uomo impacciato, ottimista anche se ingenuo.

    «Lascialo stare», incalzò in un sorriso sadico mia madre. «È sovrappensiero per il trasloco.»

    Già, lo ero. In fondo, non capitava tutti i giorni di lasciare definitivamente quella vita di città a cui eravamo abituati per andare a vivere in campagna.

    Aspetta... Cosa?

    Io ero cresciuto in campagna! La città non l'avevo proprio mai vista! Che diavolo stava succedendo in quella macchina?

    Udii improvvisamente un suono raschiante provenire dal finestrino, simile ad artigli impegnati a graffiare il vetro fino ad incrinarlo. Mi voltai immediatamente, colto dallo spavento e dalla curiosità e dimenticando per l'ennesima volta le domande riguardanti la stranezza di quella insolita situazione. Non vidi nulla.

    Solo il riflesso lucido, perfettamente intatto, del finestrino posteriore.

    E seduto vicino a me, sul sedile di mezzo, il mio caro avvoltoio da compagnia...

    Eh?

    «Di nuovo quell'espressione», notò imperturbabile Papà. «Billy, ti senti bene?» Le pupille scarlatte erano concentrate su di me, fisse sullo specchietto retrovisore.

    La Mamma scosse il capo, contemporaneamente annoiata e deliziata, e per l'ombra di un secondo i suoi occhi brillarono di assoluto. «Tu pensa a guidare», raccomandò in un sorriso inquietante.

    Strano. Molto strano.

    Voltai lo sguardo in direzione del mio avvoltoio da compagnia, certo della convinzione che mi avrebbe cavato via le orbite con gli artigli delle zampe. Non successe nulla del genere, e in risposta, il volatile appollaiato sul sedile guardò me e batté il becco.

    Troppo strano.

    «Non sembra anche a voi...», mi scappò di dire in un eccesso incauto di attenzione. «... Che questa situazione sia un po'... Come dire... Insolita?»

    Lo sguardo scarlatto di Papà si fissò su di me con riflessiva analisi insensibile, quasi medica. «Insolita?», domandò in un ringhio sussurrato, come se fosse per lui di fastidio che io mi stessi accorgendo di qualcosa.

    «Magari è opera del terribile Bart delle Campagne!», gridò in un riso isterico mia madre.

    Bart. Perché quel nome mi era così familiare? Conoscevo per caso qualcuno con quello stesso appellativo? Forse sì, forse no, forse, proprio non lo sapevo. Aspetta, mi venne improvvisamente da pensare. Ma quello è il mio...

    Uno schianto. Poi, un sussulto altalenante da parte delle sospensioni della macchina. Mio padre girò e rigirò il volante, per cercare di ristabilizzare la marcia, mentre mia madre scoppiò a ridere sguaiatamente con folle fare esilarato. Stavamo sbandando.

    E io, per l'ennesima volta, ero stato strappato alle rifrazioni di una verità incomprensibile e incompleta.

    La macchina si fermò, alzandosi su due ruote in una pazza frenata improvvisa solo per poi ricadere in un tonfo di ammortizzatori spezzati.

    «Abbiamo investito qualcosa», rivelò Papà sottovoce, con immobile tono controllato.

    «Io ti avevo detto di pensare a guidare...», ghignò soddisfatta Mamma in un luccichio da parte degli occhi infiniti. «Qualunque cosa sia, per come l'hai presa è bella che morta.»

    No , dissero contemporaneamente molte voci, sfocate da intangibili vibrazioni onniscienti. Non ancora. Ma presto .

    Voltai lo sguardo verso il mio avvoltoio da compagnia, convinto fosse stato lui a parlarmi con quei tanti, diversi suoni fruscianti. Lo vidi sfumato, vaporoso, intento a rilasciare spirali di nulla fluttuante dall'ora invisibile becco socchiuso. Le sue corvine piume prive di peso e materia stavano cadendo, ed erano come specchi, dediti a riflettere il tutto ed il nulla con il loro unico, lento cadere dondolante.

    «Vado a vedere», affermò poi Papà scendendo, aprendo la portiera fra cigolii di molle spaccate e tintinnii di vetri infranti.

    «Vengo anch'io», dissi alzandomi, inspiegabilmente attratto da ciò che, secondo la premonizione di un avvoltoio intangibile, non era ancora morto.

    Mia madre non sembrò essere d'accordo. «Non se ne parla, Billy!», gridò dal suo finestrino. «Tu resti qui insieme alla Mamma!»

    Ma io ero già fuori, e stavo scattando con ansimi allenati verso mio padre e ciò che così attentamente stava vivisezionando con le infernali pupille rosse immerse nell'oscurità. Non capivo cosa fosse, a dispetto della distanza in costante restringimento. Un sasso mostruosamente grande? La carcassa di un qualche animale di strada? Un povero randagio che aveva osato cercare un padrone fra di noi? Oppure...

    Raggiunsi Papà, in un ultimo fiato espirato, e vidi con i miei occhi. Provai l'impellente necessità di rigurgitare, ma riuscii a trattenere i conati in singulti sommessi. Quello... Puzzava. Puzzava di morte e sangue e colpevolezza. Quello è un uomo...

    Ma più che un uomo, quello era un ragazzo in procinto di diventarlo. Il suo corpo lordato dal peso di cerchioni e lo scoppio di grumi di liquido scarlatto era pieno di cicatrici, alcune vecchie di anni, altre decisamente più recenti. Nonostante fosse stato travolto a più di cento chilometri orari e i suoi arti fossero distorti e contorti in maniera a dir poco disgustosa e inumana, era ancora sorprendentemente riconoscibile. Il suo braccio destro era artificiale, ma per capirlo dovetti impiegare lo sguardo oltre il normale, poiché più simile ad una realtà naturale che a una bugia tecnologica. Era una protesi quasi perfetta, suddivisa in appena percettibili placche socchiuse e fori rilucenti. Simile all'inorganico materiale artefatto di cui erano composte creature di un mondo di soli bianco e nero. Simile a qualcosa che forse, era successo a me.

    «Billy!», interruppe Mamma in un richiamo lontano. «Torna subito qui!»

    Ma io non obbedii. Voltai semplicemente lo sguardo in direzione della macchina solo per poi riportarlo al cadavere, incrociando per null'altro che un istante gli stizziti occhi colorati d'infinito di mia madre. Qualcosa non era giusto, in quella situazione.

    No. Qualcosa era sbagliato .

    La carcassa del ragazzo aveva gli occhi orribilmente aperti, praticamente spalancati. Le iridi, di uno spento giallo limone quasi malato e innaturale, erano schiacciate nella loro imperfezione moribonda da sclere sanguigne, iniettate di riccioli di sporco sangue annerito. Il capo era per metà ridotto alla calvizia, con solo poche ciocche in decadimento rimaste sul lato opposto a quello del braccio artefatto, come se il mutilante invecchiamento istantaneo avesse avuto origine proprio da lì e stesse rapidamente propagandosi sul resto del corpo. Simile ad un parassita, o ad un cancro, che lentamente divora un fisico impreparato durante un combattimento mortale in uno Spazio Fuori dal Tutto. Simile a

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