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Il sole tra le mani
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E-book177 pagine2 ore

Il sole tra le mani

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Info su questo ebook

Novembre 2004. Aldo Montesi, emigrato da Milano a Napoli, è uno strano voyeur del lutto: incapace di provare emozioni, ruba lacrime straniere nei cimiteri più singolari. La sua vita trascorre apatica fino a quando due eventi lo spingono all'azione: le minacce di un gruppo criminale e il dialogo surreale con un impiegato che vuole vendergli un loculo matrimoniale vista mare. Attraverso un viaggio catartico nel suo passato, Montesi cercherà di porre fine alle sue eclissi e di abbracciare la luce, distruggendo tutte le foto che lo riguardano, simbolo di ciò che è stato, e imparando ad aprirsi agli altri.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2018
ISBN9788863938357
Il sole tra le mani

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    Anteprima del libro

    Il sole tra le mani - Roberto Ritondale

    1

    All’alba di ciascuna solitudine c’è sempre un vuoto che non si è più colmato. Mia madre lo ripeteva di continuo, e anch’io lo penso spesso: tutte le volte che guardo gli occhi di Maria, lievi e lontani, arrugginiti dal tempo che le soffia intorno.

    Fa freddo, oggi, e spira un vento fastidioso. È un vento pieno che viene su dal mare, si porta dietro nuvole e salsedine. Mi alzo il bavero del giaccone grigio, ma è un palliativo che non può scaldarmi.

    Spinto dal bisogno di calore, sedotto dal contrasto che si mostra osceno dinanzi a me, mi avvicino e guardo meglio Maria, la foto di Maria, insensata e affascinante come una perla incastonata in un bracciale d’alluminio. Perché è bella, Maria, volto porcellanato senza sfondo, corpo sbriciolato senza sorriso, nome senza più corpo.

    Lapide gelida.

    A mani nude, tra polvere di terra e marmo opaco, seguo il contorno dei suoi occhi persi nell’infinito. Li ripulisco mentre ne cerco lo splendore. Ravvivo i fiori: è una carezza che sa di malinconia.

    Accendo due lumini, li avvicino, mi nutro del silenzio che c’è intorno.

    Mi fermo e guardo immobile Maria. Penso che vorrei sciogliermi, sciogliere in lacrime il ghiaccio abulico che mi porto dentro. Vorrei sfogarmi e confidarle quanto può un vuoto trasformarsi in baratro.

    Vorrei e non posso.

    Vedo, lontana, avvicinarsi la sagoma inconfondibile del vedovo: ha l’aria afflitta di chi non trova pace. Allora fingo, come sempre, di pregare alla mia destra, sguardo rivolto a un loculo adiacente. Il vecchio, appena arriva, accenna un sorriso, un timido saluto, quindi avanza verso l’adorata moglie, nata nel ’31, morta nel ’78. Depone un fascio tutto di rose bianche e comincia a parlarle, come una litania.

    Rotta dal pianto, la sua voce vibra di una tristezza più profonda, stamattina. E io l’assorbo, all’ombra di me stesso, e mi disseto di lacrime straniere.

    2

    Mi allontano appagato, esco dal cimitero. Guardando l’orologio mi rendo conto che è ancora molto presto: ho preso un giorno di permesso e ora non so cosa fare.

    Il problema è che ho addosso un’ansia fastidiosa. Non a caso mi sono svegliato di buonora, questa mattina, prima del solito, con l’inquietudine a molestarmi l’anima. Sarà che le prime luminarie natalizie mi stanno scorticando la ferita, cicatrizzata soltanto in apparenza. Una ferita che torna a farmi male, puntuale, come le sante feste.

    Mi avvio verso l’auto, l’ho parcheggiata in via Santa Maria del Pianto. Avvicinandomi, noto l’anomalia: hanno rigato la fiancata, forse con una chiave, oppure utilizzando un punteruolo. Chi può essere stato? Un congiunto infastidito dalla mia presenza? Un semplice balordo? Un invasato?

    Giro intorno alla macchina con gli occhi abbassati: me l’hanno conciata veramente male. Completato il cerchio irregolare, sbatto – sbatto letteralmente – contro un ceffo riccioluto, alto e massiccio. Ha sopracciglia folte e peli sulle mani. Sembra un orso travestito da guappo.

    «Dovete farmi una gentilezza…» bramisce il tipo.

    «Ma lei chi è?»

    «Dovete riferire un’ambasciata.»

    «Posso sapere da chi?»

    «Ditelo, a vostro zio: chi sgarra paga. Esattamente come è successo a vostro padre…»

    «E che ne sa lei di mio padre?»

    «Questo» continua, incurante della domanda «è solamente il primo sfregio. Poi toccherà alla casa, e poi a questa bella faccia da nipote» minaccia l’armadio umano, dandomi un pizzicotto sulla guancia.

    «Mi so’ spiegato?»

    No, non si è spiegato. Ma non mi dà il tempo di domandare altro che subito scompare, proprio com’era apparso.

    Rimango senza fiato per qualche attimo, immobile come un depresso, come si fa per dire, perché depresso mi ci sento davvero. Una strana depressione a intermittenza, un’altalena che oscilla rapida da un estremo all’altro, fra slancio e indolenza, euforia e tristezza. Io soffro di pulsioni maniacali e godo di ottimismi senza senso. Un malincomico, ecco che cosa sono, un grigio impasto d’inerzia e d’ironia.

    Io non agisco, guardo. Io non reagisco, solitamente incasso. E rido amaro, degli altri e di me stesso. Dunque non so reagire alla minaccia. Però zio Sandro è giusto che l’avverta: l’armadio umano ha minacciato me, ma l’obiettivo chiaramente è lui. Allora sfilo lo zaino nero che porto sempre sulle spalle, ci rovisto dentro e prendo il cellulare. Lo chiamo, a lungo risulta libero. Finalmente risponde.

    «Zio Sandro, dove sei?»

    «Aldo, che c’è?»

    «Ti devo parlare.»

    «Mi stai già parlando» sbuffa infastidito.

    «Ti devo parlare da vicino. È una cosa delicata.»

    «Sono impegnato.»

    «Dimmi a che ora ti liberi.»

    «Adesso ho il cda. Poi devo ricevere una delegazione cinese, organizzare l’attività di merchandising…»

    «Cinque minuti, ti chiedo di trovare cinque minuti liberi. Mi bastano.»

    «Domani, pausa pranzo.»

    «Mi hanno rigato l’auto.»

    «E tu mi fai sospendere un consiglio di amministrazione per dirmi che ti hanno rigato l’auto?»

    «È una minaccia. Hanno persino fatto cenno a mio padre.»

    «Ma che vai farneticando?»

    «Forse tu sai chi sono, quanti sono…»

    «Chi sono, quanti sono… A Napoli potrebbero essere uno, nessuno e centosessantamila…»

    «Ma nel romanzo erano centomila…»

    «Hai mai sentito parlare di inflazione?»

    3

    Con un vago senso di frustrazione, salgo sulla mia auto rigata e metto in moto. Sento picchiettare sul parabrezza: un tipo grasso e calvo che noto spesso al cimitero mi sta chiedendo a gesti di fermarmi. Non mi limito ad abbassare il finestrino, apro completamente la portiera: è più cortese.

    «Che vi hanno fatto?»

    «Niente, non si preoccupi.»

    «Ma come niente?» e si china a fatica per controllare il danno alla fiancata. «Un altro poco e ve l’aprivano come una scatoletta.»

    «Un buon carrozziere e non ne resta traccia.»

    «Ma non sapete quanto vi costa un carrozziere?»

    Certo che non lo so, io ho un pessimo rapporto con i soldi.

    «Se chiede troppo» rispondo serafico «l’auto resta com’è. Tanto serve soltanto a trasportare passeggeri. Dico bene?»

    «Certo, i passeggeri… Allora, già che ci siete, me lo date un passaggio?»

    Lo sguardo mi resta immobile, rispondo titubante.

    È vero, ci incrociamo di frequente al camposanto, ma in un anno non abbiamo mai scambiato una parola, al massimo qualche cenno di saluto. E quindi sì, l’intraprendenza mi stupisce.

    «Lei dove abita?» domando al ciccione, che intanto si è seduto già al mio fianco.

    «Via Foria, la conoscete?»

    «Più o meno sì…»

    «Ma voi di dove siete?»

    «Di Milano.»

    «Ah, di Milano» ripete con un tono un po’ sdegnato. Intanto si accende una sigaretta senza nemmeno chiedermi il permesso. Questa volta l’abbasso, il finestrino. Senza dissimulare il mio fastidio.

    «Era parecchio che mi volevo fare due chiacchiere con voi» mi dice con una punta di mistero.

    «Per un motivo preciso?»

    «Ero curioso di sapere…»

    Aspetto che continui. Sapere cosa? Ma il tipo non continua. Si è come inceppato, un improvviso cortocircuito della mente. Intanto penso che non so niente di lui. Magari è un ficcanaso, oppure un matto. Nemmeno escludo che possa essere un complice di Orsoguappo mandato in avanscoperta a studiare la mia reazione, o a pedinarmi.

    «Mi chiamo Amilcare La Manna, piacere» si presenta e cambia discorso come se niente fosse.

    «Piacere mio, Aldo Montesi» e allungo la mano, staccandola dal cambio.

    «E che ci fate a Napoli?»

    «Motivi di lavoro.»

    «Libero professionista?»

    «Impiegato in un’azienda.»

    «Diplomato ragioniere?» e il tono della domanda rasenta addirittura il raccapriccio.

    «Laureato, in Filosofia.»

    «E di che cosa vi occupate?»

    «Risorse umane. L’azienda è di mio zio, Alessandro Cimarea. Lo conosce?»

    «Mai sentito, ma non mi sembra un cognome milanese.»

    «Infatti è ischitano.»

    «Un milanese con lo zio campano…» e ciondola il testone. Senza parlare, mi sta dicendo che fatica a credermi.

    «Mio zio e mio padre sposarono due sorelle…» parto per convincerlo, e mentre parlo mi domando perché mai debba sforzarmi di convincerlo.

    «Ho capito, è uno zio acquisito. E voi, come posso dire, avete sangue misto.»

    Praticamente mi sta dando del bastardo, ma rimango indifferente, intorpidito dalla mia indolenza.

    «E vostro padre è sepolto qui a Napoli?» insiste.

    «Mai conosciuto, mio padre» gli rispondo. E intanto torno a farmi la domanda che mi assilla praticamente da quando sono nato: che fine ha fatto mio padre? È scappato? Si è suicidato? Forse l’avranno ucciso?

    «Allora vostra madre…»

    «Non ho parenti al cimitero» taglio corto.

    Per fortuna giungiamo in fretta in via Foria, la sua invadenza sta diventando insostenibile. Mi chiede di accostare nei pressi della caserma Garibaldi.

    «In ogni caso» mi fa «io sono un dipendente comunale, sto all’ufficio assegnazione loculi. Se avete bisogno…»

    «Spero proprio di no!»

    «Sperate male, è quella la fine che facciamo tutti quanti, prima o poi» e ridacchiando scende giù dall’auto.

    Mi allontano con un senso di sollievo, anche se l’intrusione mi resta appiccicata sul giaccone, come il tanfo di fumo con cui ha impregnato macchina e vestiti.

    Mi riconnetto ai pensieri precedenti. Ritorno, soprattutto, al colloquio telefonico interrotto bruscamente da zio Sandro. La storia delle minacce è incomprensibile, farebbe meglio a valutarla attentamente. E poi c’è in ballo l’integrità della mia faccia. Devo parlargli. E l’unico modo per riuscirci, mi convinco, è andare a casa sua, lassù a Posillipo.

    4

    Supero diversi incroci: piazza Donn’Anna, piazza San Luigi, piazza Di Giacomo. Giunto a Coroglio, svolto per via Boccaccio, rallento, arresto l’auto. Scendo e mi guardo intorno. Suono al citofono. Nessuno mi risponde, è tutto spento. Com’è possibile? Non c’è nemmeno il tuttofare filippino. La sensazione è che la villa sia deserta, disabitata da parecchio tempo. Ma da quant’è che non lo vedo da vicino?

    Mi sposto di qualche metro, osservo l’orizzonte. C’è vento forte, mi sento un soffio perso fra le correnti. Il panorama mi inonda di una bellezza sfacciata e mi smussa gli spigoli di questo giorno molesto. Lontano, alla mia sinistra, si staglia maestoso il promontorio di Posillipo. Guardo la rupe e sento più leggero il peso dei fallimenti. Il frastuono dei miei ricordi labili mi sembra all’improvviso più lontano mentre si allenta il filo che mi lega a questa città distratta e ostile. Provo una sensazione di benessere, la stessa che mi trasmette il cimitero, soprattutto quando mi fermo sulla tomba di Maria. Non so chi sia, ma è identica a mia madre. E da quando l’ho scoperto, il mese scorso, non posso fare a meno di cercarla. Almeno per un saluto. Perché mi manca, mia madre. Soprattutto quando il Natale si avvicina, quando la nostalgia sfocia in malessere.

    Mi siedo su una panchina nei pressi della villa di mio zio. Potrebbe rincasare, e io qui l’aspetto. Apro lo zaino, prendo il libro di Pessoa che da un anno a questa parte è il mio breviario. Mi soffermo sulle frasi che ho già sottolineato.

    E per assenza esisto, come il vuoto.

    Sembra parlarmi, sembra scrivere di me, questo Pessoa.

    Tutto qui in basso è simbolo e ombra, siamo convinti di vivere e siamo morti, crediamo di essere morti e stiamo vivendo.

    Mi viene da sorridere. «Siamo convinti di vivere e siamo morti» potrebbe diventare il mio motto, visto che

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