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Goffri e il corvo
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E-book282 pagine4 ore

Goffri e il corvo

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Info su questo ebook

Un adolescente scansafatiche e una madre sola, un orco in agguato che vorrebbe far famiglia e un’immaginazione che rischia di sparire, portandosi dietro l’innocenza dei bambini e dei loro sogni.
Ecco cosa accade a Goffry, bambino ironico e piccolo cantastorie dall’animo curioso, è lui a raccontarci la sua storia, anche se la storia non è mai soltanto la sua. Una dentro l’altra, legate da un filo sottile prendono vita continuamente fatti e creature, grani di un rosario multicolore che è avventura letteraria, ma soprattutto visione. Ogni scenario si gusta proprio con gli occhi, per così dire, le parole che raccontano devono disporre ad immaginare; questo è il viaggio di Goffri e deve essere anche il viaggio del lettore.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2016
ISBN9788868271602
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    Anteprima del libro

    Goffri e il corvo - Marina Javarone

    Mojmir

    PRIMA PARTE

    1.

    Goffri

    Domani mia madre si sposa con un Orco, stasera io scappo di casa.

    Una decisione da spavento, impensabile neanche tre mesi fa. È da allora che la paura mi si è appiccicata addosso come fosse la mia ombra.

    Il luogo è sorvegliato, io ho solo tredici anni, non ho un piano e la testa mi frulla di inutili stratagemmi per squagliarmela. E pensare che la mia vita scorreva monotona finché, in un tetro pomeriggio d’autunno, non ho fatto un incontro spaventevole.

    Quella mattina, ignaro di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, masticavo amaro. Neppure al mio compleanno ero riuscito a farmi regalare un computer, mi sarei accontentato anche dell’usato. Chiunque ne possedeva uno tranne noi. Alla mia richiesta di comprarlo a rate mamma si era, come al solito, appigliata alla mancanza di soldi… monete, banconote… capaci di esaudire desideri, di restituire allo zio la pasticceria persa al gioco per quattro assi battuti da una scala reale, un’amara litania che si ripeteva tutte le sere a cena.

    Costretto alla scrivania. Il libro di storia era aperto, ma la mente viaggiava nel mondo dei draghi, l’ultimo videogioco; non ho resistito, dovevo partecipare alla battaglia finale! Buttati all’aria i libri, mi sono frugato in tasca, ho cercato nei cassetti e non ho rimediato che dieci centesimi. Mamma si sarebbe infuriata, non mi voleva tra i piedi quando era al negozio, ma dovevo almeno tentare: d’altronde per entrare nel videogioco di ruolo, nello shop dietro casa, bastavano pochi spiccioli. Pioveva a dirotto, mi accorsi sbucando dal portone, ancora una volta, avevo scordato l’ombrello. Con l’ascensore perennemente rotto erano da scartare otto piani a piedi tra odori stomachevoli di cibo che sostavano sulla tromba delle scale. Tale era la forza della pioggia che i lampioni s’accendevano a intermittenza in un buio che s’infittiva. Non mi sono dato per vinto e a passo svelto, ignorando le pozzanghere e l’acqua che a secchiate cadeva dall’alto, ho raggiunto la profumeria fermandomi sotto la pensilina che protegge la vetrina del negozio. Mamma non doveva accorgersi della mia presenza fino all’arrivo di un cliente che io aspettavo con impazienza. Seguivo una mia strategia per ottenere soldi e permessi. Mi facevo avanti con la mia richiesta solo alla presenza di un probabile acquirente e lei per non fare scenate, con il rischio di perdere l’eventuale vendita, si arrendeva. Non nutrivo dubbi che anche quel pomeriggio la tattica avrebbe funzionato. I minuti si assommavano, saltellavo per sentire meno freddo, dalla pioggia non emergeva anima viva, dovevo rinunciare al piano e rischiare un assolo con lei. Eppure c’era da immaginarselo che il tempaccio avrebbe tappato in casa la gente, nessuna persona di buon senso avrebbe messo il naso fuori. È stato allora che dall’oscurità della via è emersa una figura indistinta che mi ha ridato la speranza, un paio di falcate sul marciapiede per poi proseguire, decisa, verso la porta della profumeria. Sollevato, sono uscito dall’ombra accorgendomi solo allora che a far trillare la campanella d’ingresso era un elegantone, un uomo assai alto… un cliente raro per la periferia, un vero colpaccio per me. Gongolante, sicuro di ottenere più soldi del previsto, ho varcato la soglia dietro di lui per spiarne il volto, l’avevo solo intravisto, ho dato una sbirciata alla parete specchiata che cattura l’immagine di chi entra, che orrore! Riflessa, pronta a schizzar fuori, non c’era una faccia umana ma qualcosa di spaventoso. È la paura dell’Orco che sento, ma non è una favola, lui è reale e gronda sangue dalle fauci spalancate e come nei miei peggiori incubi di bambino vuole addirittura sbranarmi. Incapace di trattenere oltre la paura stavo per gridare: a bloccarmi proprio il mangiatore di bambini che nel girarsi verso di me aveva già cambiato volto.

    Tornato cliente mi faceva persino l’occhiolino, ma gli ultimi bagliori di quella malignità vista nello specchio insistevano ancora per un attimo sul suo viso. Un attimo, un attimo soltanto, e già l’uomo irradiava simpatia e con passo signorile andava incontro a mia madre, mentre io, certo di non essere stato notato da lei, sgattaiolavo fuori e ripercorrevo in un battibaleno la strada per chiudermi dentro casa a doppia mandata. Con il cuore che batteva in tumulto lanciavo nella lavatrice i vestiti e poi di corsa sotto la doccia bollente e risolutiva. Passata la tremarella mi sono sentito un verme, non avrei dovuto filarmela a quel modo.

    Ho afferrato il telefono allora, lei ha risposto al primo squillo con una voce insolitamente allegra: le ho chiesto con garbo qualche euro, non si è neanche alterata, anzi ha promesso un anticipo sulla paghetta della settimana.

    La pioggia non accennava a diminuire eppure mamma rincasando neanche gocciolava ed evento ancora più raro aveva comprato le pizze, la mia senza acciughe e traboccante di pomodoro. A vederlo colare sul cartone sembrava sangue e mi disgustava a tal punto che ho gettato tutto nella spazzatura, pronto a schivare uno schiaffo o una sgridata; ma lei non si era neppure accorta che mi ero alzato e tra un boccone e l’altro canticchiava allegramente con un sorriso strano che non la abbandonava. Le ho chiesto dei clienti di quel pomeriggio e allora, con fare sbarazzino, già mentiva sostenendo che la campanella del negozio era rimasta muta l’intera giornata. Neanche un lamento per non aver incassato un centesimo.

    Il mattino seguente per un soffio ho perso l’autobus, a scuola avevo già accumulato quattro ritardi, al quinto il Preside avrebbe convocato i genitori.

    Mi aggiravo sconsolato sul marciapiede della fermata da almeno dieci minuti, il traffico pareva impazzito e l’aria sapeva di rancido. Stufo di aspettare mi sono sporto per vedere se il pullman finalmente arrivava quando una pressione sulla schiena mi ha sbilanciato; ho rischiato di cadere sotto le ruote di una macchina. Che spavento! Ma è stato voltandomi per individuare l’imbecille che mi aveva spinto, che sono subito sbiancato, perché mischiato alla folla in attesa l’ho riconosciuto. Anche se il ghigno che gli ha attraversato la faccia è stato vinto dalla velocità di un lampo, era lui, non ho dubbi. Era l’Orco! L’arrivo del sospirato 90 mi ha proprio salvato. Sono salito come un automa. Non mi accorgevo della gente che premeva e neppure contavo le fermate per far passare il tempo. Entrato in classe non mi è venuta in mente alcuna scusa da propinare all’insegnante che, bontà sua, saltando rimprovero e nota mi ha spedito all’ultimo banco, una sistemazione jellata. L’immagine dell’Orco non si scollava dai miei occhi, assolutamente dovevo dirlo a Filippo, ma l’amico era troppo distante, mi è toccato aspettare la ricreazione. Sbiadito ma c’era, il sole, quando ho trascinato nell’angolo meno chiassoso del giardino della scuola un Filippo recalcitrante, desideroso solo di sgranchirsi le gambe con la palla. Per trattenerlo ho saltato i preamboli che tanto lo infastidiscono e gli ho sparato subito il mio orrore: avevo visto un Orco riflesso nello specchio del negozio di mamma e la fifa provata alla fermata del 90 mi aveva quasi ucciso. Dapprima ha riso, poi ha detto che la storia non reggeva: non gli aveva messo un briciolo di paura. Io ho insistito, non era inventata, qualcuno davvero mi aveva spinto alla fermata; certo non potevo giurare che fosse opera del mostro ma lo pensavo e ne ero quasi sicuro. Allora l’amico mi ha dato del matto e si è allontanato mettendo a segno un paio di canestri prima di rientrare in aula.

    Finalmente a casa. Quel pomeriggio, però, ho avvertito dei rumori, qualcuno si muoveva in soggiorno. Con lo spavento in gola pian pianino mi sono avvicinato e che sollievo! Era solo zio Luigi con le mani nella credenza: «Zio che paura mi hai fatto! Cosa cerchi qui, lo sa la mamma?»

    Mi ha risposto con un grugnito e un buffetto sulla guancia continuando a cercare alcool. Di certo aveva sottratto le chiavi di casa nostra alla moglie Iolanda, sorella di mamma. Era sceso da noi alla ricerca di vino, impossibile da trovare perché, subite le sue continue incursioni, abbiamo rinunciato a tenere bottiglie in casa persino per le grandi occasioni. Purtroppo lo zio, da sempre un perdente, succube del vizio del gioco si è dato al vino e zia Iolanda che non si lascia sfuggire occasione per augurargli di crepare, non gli ha perdonato di essersi giocato a poker persino la loro bella villa costringendola a vivere in mezzo ai pezzenti di ora. Abitavamo nello stesso palazzo, noi all’ottavo piano, gli zii all’ultimo in un appartamento più vasto del nostro, soffocato di mobilia appartenuta ai loro tempi migliori, quando erano una coppia spensierata e spendacciona e mi coprivano di regali: aiutavano persino mamma a pagare l’affitto! Ora osservavo Luigi buttare all’aria i cuscini, non si era allacciato neanche i pantaloni, la barba lunga di giorni, somigliava a un barbone, lui che una volta vestiva dal sarto e profumava di colonia! Ho provato pena, pure rabbia, la sua presenza da sobrio mi mancava: la domenica si andava alla partita poi a discutere di sport, a entrambi piacevano i film di fantascienza ed era a lui che riversavo i miei crucci peggiori. Insisteva perché gli svelassi il nascondiglio che non c’era, poi stanco di cercare si è accasciato sulla sedia a testa bassa. Voleva un bicchiere d’acqua, ho aggiunto limone e zucchero e ho preparato due panini, fissava il suo senza toccarlo e si dondolava; poi si è ripreso, ha dato qualche morso, appariva abbastanza lucido da ascoltare del mio incontro con l’Orco e allora ho cominciato. Il racconto è filato liscio, senza interruzioni, era attento, addirittura interessato, ma alla fine è scivolato sul pavimento dalla ridarella e mi ha davvero irritato. Non capivo cosa lo facesse tanto divertire, avrei voluto vedere lui faccia a faccia con l’Orco pronto ad azzannarlo! Poi si è rialzato e sistematosi i pantaloni con fare paterno ha iniziato una predica davvero poco sincera. Lui che era alcolizzato mi stonava con i danni causati dalle droghe e parlava di visioni, come dire che neppure lui mi credeva. Avrebbe continuato all’infinito se non fosse arrivata una mamma inaspettata carica di pacchi e affaticata che senza preamboli lo ha messo subito alla porta.

    «Goffri, credici! I miracoli avvengono, guarda!» ha esclamato rovesciando sul divano un vestito, completo di scarpe e borsa in tinta «E non è tutto! La proprietaria del negozio che consideravo una spilorcia ha aggiunto al regalo una settimana di ferie naturalmente meritate. Le ho fatto guadagnare parecchi soldi con una riccona che ha ordinato una quantità incredibile di profumi scegliendo i più cari. Ti voglio felice come lo sono io e ti aumento la paghetta» ha concluso abbracciandomi. Per un po’ avevo scordato il mio incubo ma a letto con la luce spenta c’era poco da stare allegri, a occhi chiusi o aperti la faccia dell’Orco mi perseguitava allora ho acceso la televisione per scivolare finalmente nel sonno.

    La vacanziera si dava alle follie, spruzzando ovunque profumo senza risparmiare la mia camera; e non si trattava di un pestilenziale deodorante per appartamenti, apparteneva alla casta dei più costosi fluidi della profumeria. Non mi sbagliavo, avevo riconosciuto la preziosa ampolla che lo conteneva. Da piccolo la ruppi, una maldestra pallonata la mandò in mille pezzi, mamma per ripagarla rinunciò a comprarsi il cappotto. Adesso invece lo sprecava! Trascorreva ore a strappare con la pinzetta invisibili peli su gambe e braccia; con l’avvicinarsi della sera si scatenava nel bagno, fornito dell’unico specchio decente dell’appartamento, in un andirivieni di abiti. Prima di decidere quale indossare pretendeva il mio parere che mai coincideva con la sua scelta da donna fatale, non da mamma, quella di sempre a cui volevo più bene. Preoccupanti erano le sue reazioni; sbattevo la porta di casa e lei che solitamente mi riprendeva con l’ugola lanciata al massimo, di botto, aveva cambiato musica e con voce suadente e al tempo stesso premurosa mi pregava soltanto di essere meno chiassoso. Era intenta a spennellare di bianco madreperlato le unghie delle mani.

    Ho scelto quel momento per buttare fuori il dubbio e ricalcando il suo tono mieloso l’ho punzecchiata: «Dimmelo se hai un fidanzato».

    Sempre sognante ha sbuffato: «Goffri, non dire stupidaggini mi vedo con un caro amico che presto conoscerai».

    Non ho mollato e ho aggiunto: «I fidanzati voi adulti li chiamate cari amici?»

    Ha riso di cuore e ha ripreso a passarsi lo smalto. L’allarme mi è scattato al continuo avvicendarsi di fattorini carichi di doni costosi per una mamma che si stava trasformando in una bellezza da copertina. Ero incantato e furioso. A detta di Filippo era innamorata e lui se ne intendeva avendo già subito l’invasione di due cari amici di sua madre, un’esperienza che a me mancava. Non sono geloso, altroché! Vedevo rosso e sbuffavo come un toro tanto che mi sono impuntato e non ho aperto i regali a me destinati. Neppure il nome volevo sapere dello spasimante che in settimana avrebbe fatto il suo ingresso ufficiale in famiglia.

    In suo aiuto mamma ha chiamato Filippo, ha ordinato pizza e bibite senza perdere di vista l’orologio (gli autisti sono puntuali). Un suono discreto di campanello e la signora lanciando baci ai suoi giovani ammiratori si è dileguata; noi due a sbirciare tra le tende una vera Rolls Royce che si allontanava. L’amico, eccitato dalla visione dell’auto e imbonito da mia madre, ha sentenziato che dovevo togliermi i paraocchi.

    «Fortunello, non Goffredo dovevano chiamarti» ha affermato «a fare il prepotente tra le mura di casa tua fino a oggi non c’è stato nessuno, da me ne sono passati un paio. Il primo era benestante, ma non cacciava un soldo, a stento contribuiva alla spesa giornaliera e aveva il vizio di menare le mani. A me riusciva di sfuggirgli non a mamma che a un occhio nero di troppo si è decisa e ha cambiato la serratura: allora sì che mi sono divertito a lanciargli dalla finestra i suoi striminziti averi. Il secondo, un insegnante, non parlava, leggeva di tutto, dal giornale a tavola al libro davanti alla televisione e pretendeva che lo imitassi, meno male che stanco della nostra ignoranza è andato via, a leggere altrove. Di cosa ti lamenti, tu presto sarai ricco».

    Poi mi ha convinto a scartare i regali, uno zaino per la scuola, felpa e scarpe firmate e un videogame che lo ha incuriosito.

    «L’Orco e l’agnello, che roba è questa!» ha esclamato.

    A sentire il titolo gli ho strappato la cassetta dalle mani buttandola nel cestino con lo stomaco annodato di paura. Ero sbiancato, tanto che lui portava già dell’acqua senza fare domande e senza chiedermi spiegazioni.

    La serata è proseguita con un film dell’horror masticando pizza fredda.

    Alla fine il malvagio muore e i mostri non esistono ripetevo tra me rigirandomi nel letto in una vana ricerca del sonno che non mi voleva perché era rispuntato l’Orco sulla copertina del videogame regalatomi. Coincidenza da pelle d’oca che mi impensieriva.

    L’ossessione continuava. Il mattino dopo, insaponato, strizzato e vestito a nuovo, ero pronto per il grande evento, fare la conoscenza di Don Antonio. La zia per l’occasione aveva ripulito persino il marito che moriva dalla voglia di bere.

    «Solo un goccetto» chiedeva a me che, di nascosto e impietosito, gli versavo del Porto in un bicchierino. Alla seconda bevuta si è ringalluzzito consigliandomi di tenere gli occhi aperti perché qualcosa non gli tornava.

    Per quale motivo un riccone desiderava imparentarsi con una commessa squattrinata e per giunta mamma di un adolescente?

    Una domanda espressa con voce roca ma chiara mentre davamo le spalle alla porta del soggiorno, ignari della presenza dell’ospite che, nei panni di un distinto gentiluomo, si faceva avanti e si presentava come Don Antonio. Le guance dello zio già arrossate erano diventate paonazze per la figuraccia mentre io fissavo a bocca spalancata il mio incubo travestito da caro amico di mamma. A toglierci d’impaccio proprio lei che sventolando sorrisi mi ha spedito in cucina a prendere le tartine; stravedo per quelle al salmone e lei lo sa, mentre le facevo fuori con gusto potevo sentire l’Orco tutto miele e comprensione nei miei confronti.

    «Non è che un adolescente» mi giustificava «giustamente geloso e arrabbiato con l’estraneo che osa portargli via la mamma».

    Volentieri gli avrei lanciato in faccia il vassoio di porcellana che invece mi è scivolato dalle mani provocando un botto da paura. Sono accorse zia e mamma, si è mosso anche lui che alla vista del pavimento ricoperto di cocci mischiati a tartine è esploso in una risata contagiosa, non per me, che lo guardavo e continuavo ad averne paura. Da uomo di mondo ha preso la bottiglia di champagne che aveva portato ma il tappo saltando si è intrappolato nella scollatura di mamma che non riusciva a liberarsene. Allora, battendolo in velocità, l’ho ripescato scatenando però altre risate. Imbronciato mi sono rifugiato nella mia camera, non sapevo cosa fare, cosa dire. E se avevo preso un abbaglio?

    A prelevarmi è venuta la coppia pronta e sorridente con un calice colmo anche per me; Don Antonio, sorseggiando le sue bollicine, occhieggiava la mia tana come se cercasse qualcosa, intanto, una voce dal salotto annunciava: «Il pranzo è servito, venite a tavola».

    Facevano un figurone la tovaglia ricamata e le preziose stoviglie di zia Iolanda; era lei ad andare avanti e indietro con le portate che si susseguivano senza sosta. Luigi che era già alticcio, al secondo bicchiere di vino, ignorate le occhiatacce della moglie, si è messo a piagnucolare sulla spalla dell’ospite ripetendo: «Sono un fallito, per un poker d’assi mi hanno scippato la pasticceria, meglio morire».

    A me veniva da ridere, la zia era impietrita dalla vergogna, mamma sembrava da un’altra parte, mentre Don Antonio appariva dispiaciuto e con gesto da gran signore rincuorava lo zio con la promessa solenne che in tempi brevissimi avrebbe riavuto il maltolto.

    «Per la felicità dei golosi» ha aggiunto.

    Iolanda è saltata dalla sedia per abbracciarlo, anche mamma lo ha stretto a sé, io sono restato in disparte. La festa non era conclusa e neanche le sorprese: mia madre ha ricevuto in dono la profumeria che avrebbe gestito la sorella! A quel punto hanno brindato al benessere. Posato il calice l’ospite si è rivolto a me che dalla paura sono rimpicciolito come un microbo.

    «Per questa sera vesto i panni di genio della lampada, ho un terzo desiderio da esaudire e ti spetta, scommetto che vuoi il computer; presto riceverai il migliore e potrai navigare in internet per sempre».

    Don Antonio! Un nome che da noi suonava come abbondanza, prosperità e speranza.

    Con la certezza che in brevissimo tempo avrebbe mantenuto la promessa fatta a tavola di fronte alla famiglia, mi sono vantato con i compagni di classe d’aver ricevuto in regalo il più avanzato dei computer che invece tardava ad arrivare. Purtroppo in tanti, compreso Filippo, erano ansiosi di navigarci e io, di umore sempre più grigio, inventavo scuse. Mamma ormai era fulminata, sprecavo solo il fiato scongiurandola di rammentare al suo caro amico che ero in trepida attesa del regalo; ne andava della mia reputazione a scuola. Lei invece di darmi retta si dilungava su una gita a Parigi con l’aereo privato e mi parlava del ballo da una contessa dove aveva fatto indigestione di ostriche. Anche zia Iolanda era fuori di testa, voleva rifarsi il naso da profilo greco come la sorella e non vedeva l’ora di liberarsi del marito ubriacone. Sostenuta da Don Antonio si era rivolta a un avvocato. Non uno qualunque, il più caro, naturalmente consigliato e pagato dal benefattore che a parere delle sorelle era l’uomo più affascinante e generoso del pianeta; dal canto suo Luigi continuava a ingurgitare alcool ma di buona qualità, ora, e farfugliava di volersi finalmente liberare della pasticceria appena riavuta perché i dolci, da sempre, gli davano la nausea.

    Nulla appariva più al suo posto in casa, nella mia vita, e io non sapevo dove collocarmi senza contare che del computer si erano perse le tracce, così ho iniziato un’inutile campagna diffamatoria nei confronti del nemico. Ogni qualvolta nominavano l’intruso partivo all’attacco. Lo giudicavo troppo perfetto per essere vero e poi rammentavo loro che era bene non fidarsi di una persona che non mantiene le promesse fatte, soprattutto a un ragazzino.

    Ai miei assalti mamma mi racchiudeva tra le braccia sussurrando: «Nessun uomo potrà mai prendere il tuo posto nel mio cuore».

    E invece, oramai, Don Antonio aveva preso possesso del nostro appartamento, entrava e usciva a suo piacimento, si aggirava nei pochi metri quadrati come il padrone di casa; un atteggiamento che mi rendeva furioso a dismisura. Presi a rispondergli in malo modo, mi alzavo al suo apparire in casa per rinchiudermi nella mia tana. Una sera lui ha osato varcarne la soglia e mi ha trovato stravaccato sul letto mentre ascoltavo il concerto di una band inglese. Quando la porta si è spalancata, ho rivisto l’Orco che liberatosi della maschera di gentiluomo avanzava. Dalla troppa paura non ho mosso un muscolo mentre lui mi strappava la cuffia abbattendo l’altra mano sulla mia guancia, con tale violenza da gettarmi sul pavimento quasi svenuto, un dolore da morire, amplificato dalle sue parole minacciose e vere.

    «Stupido e per niente furbo, vuoi costringermi a trasformarti in carne fresca e gustosa se…»

    A interromperlo il provvidenziale arrivo di mamma. Solo a vederla, un tale sollievo! Il suo sguardo preoccupato si è posato sulla guancia tumefatta e offesa, le ho lasciato credere di aver sbattuto contro lo spigolo del letto e l’Orco, ritornato Don Antonio, ha avuto persino la faccia tosta di stringermi la mano davanti a lei come a sancire tra noi un patto segreto.

    Ed eccomi trasformato in un ragazzino da viziare con una pioggia di soldi che lui elargiva di nascosto e che trovavo sulla mia scrivania accompagnati da biglietti affettuosi. E piovevano regali; dai jeans ultimo grido, all’iscrizione in una palestra da favola dove venivo trattato come una persona di riguardo. All’inizio mi sembrava una presa in giro, in seguito ho capito come funzionava e mi sono sentito importante per la prima volta nella mia vita. Poi un pomeriggio di ritorno dalla piscina ho trovato in camera mia un super schermo fisso e chiuso nella sua lussuosa custodia, un secondo computer, il portatile tanto sospirato. A bere il tè con mamma mi aspettava la terza sorpresa, un esperto d’informatica. Don Antonio si era guadagnato la sua tregua. Accettare la sua generosità era stato facile e conveniente, difficile però coniugarla con l’Orco che ormai mi ero convinto di aver immaginato. Il mutato atteggiamento che dimostravo nei confronti del mio benefattore divertiva Filippo che però mi provocava.

    «Sotto la pelle del tuo Orco» sosteneva «si celava un uomo niente male, imbottito di soldi e con le mani bucate». Non contento aggiungeva «Hai impiegato poco a farti comprare da lui, meno di trenta giorni, mio caro!»

    E aveva ragione!

    Corso via un altro mese, avevo sgombrato dalla mente ogni rimasuglio della faccia mostruosa che tanto mi aveva turbato. Scoprivo nel frattempo il potere dei soldi che sanava però ogni paura riducendo l’orrore orchesco in un brutto sogno. I voti a scuola

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