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La Follia Della Dimensione: Prima Follia
La Follia Della Dimensione: Prima Follia
La Follia Della Dimensione: Prima Follia
E-book135 pagine1 ora

La Follia Della Dimensione: Prima Follia

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Info su questo ebook

Un tempo avevo paura del buio.
Con la sua oscurità imperscrutabile, credevo che fra le ombre danzanti della notte si nascondessero i peggiori mostri che la mente possa immaginare.
Un tempo avevo una famiglia.
Una madre, un padre, e a tratti, persino degli amici. Una casa in cui stare e qualcuno con cui vivere, a dispetto delle situazioni. Un sorriso di genuino affetto.
Un tempo avevo un nome.
Ma il nome non ha importanza. Non più. Non il mio. Non da quando è successo. Non da quando me l’ha cambiato.
«Parli con qualcuno, Billy?» Una voce divertita, folle e instabile. È la sua.
«No, Zio.» Non voglio che mi scopra. «Arrivo.» Non ancora.
Non so per quanto ancora questa storia continuerà, poiché il tempo ormai è solo un concetto insignificante per me. Cambia di giorno in giorno, e i giorni neppure ci sono più. È solo la relatività dell’insensatezza. Solo la verità. Solo la follia.
Solo, la Dimensione.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2018
ISBN9788827593783
La Follia Della Dimensione: Prima Follia

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    Anteprima del libro

    La Follia Della Dimensione - Carlo F. Tropiano

    Nota dell'Autore

    Copyright © Carlo F. Tropiano 2023

    Tutti i diritti riservati.

    Questo romanzo è opera di fantasia.

    Ogni riferimento a persone, avvenimenti, o gruppi esistenti è puramente casuale.

    Episodio 1

    Il Trasloco

    Ricordo ancora la voce della Mamma...

    «Bart, smettila di sporgerti dal finestrino!» La voce della Mamma, sempre colma di una forte nota d'irritazione. Anche se era seduta davanti, sul sedile del passeggero, dallo specchietto potei vedere la sua espressione, quasi esasperata. «Porca miseria, sarà la centesima volta che te lo dico!»

    Ricordo di aver roteato gli occhi al cielo, ma sempre con cautela, stando ben attento a non farmi vedere nello specchietto dalla Mamma, e di aver ritirato dentro la macchina la testa per l'ennesima volta, chiudendo il finestrino schiacciando nervosamente il pulsante di controllo. «Tanto non è pericoloso, Ma'; lo faccio sempre anche sullo scuolabus e non mi succede mai nulla!»

    «Ohhh, ma allora abbiamo un grand'uomo qui con noi!» Il tono sarcastico di Papà risuonò insopportabile come al solito, sempre a parlare gravando lo scherno contro di me come se il grand'uomo della situazione fosse invece lui.

    La Mamma rise cercando, anche se in malo modo, di non farsi notare da me. «Tu pensa a guidare», disse in un, anche se seccato, simpatico risolino.

    Pa' fece finta di non aver sentito muovendo il capo in modo teatrale, e a ripensarci adesso, realizzo che di tutte, la carriera dell'attore era quella che meno gli si addiceva. «Cerco solo di proteggere il piccolo Bart! Non lo sai che i bambini cattivi che sporgono troppo la testa o le braccia dal finestrino finiscono mozzati dal Grinciombra?»

    La Mamma scoppiò a ridere, ricordo, in una cacofonia di mesti grugniti mal trattenuti, che chiaramente volevano dire: Ma da dove diavolo ti è uscito un nome tanto stupido?

    Io, d'altro canto, imitando l'indole di ogni altro bambino affascinato dall'estraneo, come del resto quella di ogni essere umano che si rispetti, mi ritrovai ad essere più che ammaliato. «Che... Che cos'è il Grinciombra?», chiesi esaltato come non mai. Dall'eccitazione afferrai addirittura il lato interno di entrambi i sedili frontali, affondando le dita nella finta pelle solo per sporgermi in avanti così da stare in mezzo, per ascoltare meglio la storia.

    La Mamma aprì la bocca, sicuramente per cercare di fermare Papà prima che la sua ebetica fantasia mi trascinasse nell'ignoto, ma tale immaginazione fu talmente rapida ed esplosiva che lei non fece mai in tempo ad escludermi. «Ma come! Non lo sai?», gridò esilarato. «Il Grinciombra è un mostro alto e forte e oscuro! È il proprietario delle strade di campagna da cui veniamo, e di quelle di città dove siamo diretti. Mantiene il controllo marchiando il percorso con un liquido che perde dai pori più disgustosi che ci siano, che sono sparsi su tutto il suo tentacoloso corpo! Tipo... Tipo...»

    «Tipo una medusa fuori dall'acqua!», gridai io sorridendo come non mai, nell'ingenua felicità di un bambino reduce dei ricordi di un estate passata in spiaggia.

    Pa' rise, lasciandosi trascinare dal suo stesso racconto. «Sì, proprio come una medusa fuori dall'acqua! Ma una medusa che usa le sue terribili ventose per afferrare le braccine e le gambine di tutti i bambini abbastanza stupidi da tirarle fuori dal finestrino per strapparglieli una volta per tutte!» Rise nuovamente nel farmi il verso. Rise parecchio, e parecchio forte, ricordo. Si doveva divertire davvero tanto. «Nessuno mette piede o mano sulle strade del Grinciombra senza il suo permesso, Bart, nessuno! Ah!»

    Mi misi a fantasticare sulle sembianze di quel nuovo mostro appena conosciuto, di indicibile fattura e membrane, mentre senza che me ne rendessi conto sui sedili davanti si era dato inizio ad una conversazione totalmente diversa. Discussioni noiose, che un bambino come me non avrebbe mai capito e mai avrebbe voluto capire.

    " Come siamo messi con le spese? , Riusciremo ad arrivare a fine mese? , Siamo già abbastanza indebitati così com'è adesso "... e svariate altre argomentazioni che a me non potevano risultare come altro se non ignobili perdite di tempo.

    Non mi interessava. Non mi interessava minimamente. Ero troppo preso dalle fantasie personali per introdurre la mia giovane mente in un diverso ignoto della vita, ovvero quello dell'immutabile realtà.

    Ma a discapito di tutto, anche se in sottofondo, tale mondo continuò ad elargirmi i suoi problemi, senza tenere conto dell'interesse che io potessi provare nei suoi confronti. «Amore, se il nuovo lavoro ingrana bene non dovremo più preoccuparci di nulla.»

    «Avevi detto questo anche del tuo ultimo impiego... E sappiamo entrambi com'è finita.»

    «Non è la stessa cosa.»

    Annoiato a morte, mi appoggiai con i gomiti schiacciando la testa contro il finestrino fermamente chiuso (per ordine di Mamma), e guardai cosa il panorama esterno avesse da offrirmi rispetto alle lagne insormontabili degli adulti. Ricordo di essermi accorto che, tutto d'un tratto, quella infinita distesa di campagna apparentemente interminabile si era tramutata in un centro città poco affollato. Come trasportato in un diverso mondo, osservavo, sotto l'ombra dei palazzi e persino di alcuni grattacieli, i semafori e le luci dalle intermittenze più disparate al posto di quelle che prima erano balle di fieno e campi da piantagione. Era la prima volta che mettevo piede in una cittadina.

    " Così sarà qui che vivremo d'ora in poi... ", pensai malinconicamente. "Spero di farmi piacere dai ragazzi di qui... "

    Al posto dell'orizzonte, il mio sguardo curioso di bambino, attraversando il corteo di macchine che era il traffico cittadino, si stagliò sulla visione interminabile di palazzine e torri intente a rilasciare un fumo nero dalle venature cremisi e un pulviscolo cinereo dallo spessore indescrivibile. " Che schifo" , determinai quasi istantaneamente, in quello che fu il verdetto iniziale nei confronti del luogo che da quel momento sarebbe stato la mia nuova dimora.

    Sempre dalla lontananza udii uno statico, irregolare battere, come il colpo secco tirato da un braccio possente di una mazzetta su un tamburo in pelle trattata. A primo impatto, mi sembrò addirittura che tali suoni producessero minuscole, a malapena percettibili, scosse sismiche di proporzione limitata.

    Strappato dalla frenetica immaginazione infantile intenta a mostrarmi con impazienza l'immagine impossibile di 'tamburi sismici', di striscio vidi un uomo correre di fianco al mio finestrino con un cartello legato sul petto che leggeva: IL PROGRESSO UCCIDERÀ IL PIANETA. SVEGLIATEVI! Ironico era il fatto che, mentre correva come un dannato per chissà quale motivazione contro il traffico impellente elargendo tale pensiero, in una mano teneva, perfettamente saldo fra le dita, il telefono cellulare come se dalla sopravvivenza di tale oggetto dipendesse il suo stesso fato.

    " Dovremmo svegliarci noi, eh? Guarda che se corri così sulle sue strade, il Grinciombra si arrabierà parecchio.. .", rimuginai nella più totale noia. Grattai con l'unghia dell'indice lo stipite della portiera. Pensando al fumo e al pulviscolo, e all'inquietante battito del cuore di quella città industriale che io avevo denominato 'tamburo sismico', fui colto, nella mia mente e nel mio cuore di bambino, da un dubbio ignorante. "Be’, però... A vedersi e a sentirsi, questo cosiddetto 'progresso'... Fa veramente schifo. "

    E mentre io ero impegnato ad annoiarmi pensando a quanto quel nuovo luogo non mi ispirasse fiducia, i miei genitori continuavano imperterriti con i loro crudeli discorsi di realismo. «Thomas, pensaci, è la prima volta che veniamo in città, e in una così grossa poi... Questo lavoro potrebbe stressarti troppo... Potrebbe ucciderti.»

    Papà rise. Quell'uomo rideva sempre, e con gusto. «Amore, ci troveremo benissimo, te lo assicuro! E poi dai, un bel cambio d'aria ci voleva proprio! A furia di stare lì stavamo cominciando tutti a puzzare di cavallo.»

    Mia madre, dallo sguardo chiaramente incerto, elargì un silenzio piuttosto esplicativo, mentre io ricordo di aver pensato fra me e me: "Cambiare aria? Qui nemmeno c'è l'aria... Solo fumo . "

    Man mano che la macchina avanzava, così come lo spessore delle ceneri fumanti e delle polveri che ora erano ovunque intorno a noi, il tamburo sismico, irregolare nel suo battere, si faceva sempre più forte. Come i fuochi d'artificio, si avrebbe potuto giurare che stesse facendo sussultare il corpo e l'ambiente circostante con i suoi botti incostanti, mentre in realtà era sicuramente immobile nel suo persistere.

    Papà rise di gusto. «Ci troveremo be-ni-ssi-mo! Ve l'assicuro!» Fece una pausa di silenzio. Poi, sorridendo sotto il riflesso incerto dei suoi occhiali, mosse il capo ruotando leggermente il largo busto verso di me. Il suo sorriso speranzoso, a pensarci adesso, risultava a dir poco ammaliante. Mi strizzò contro un occhiolino d'intesa. «Non è vero, Bart?»

    Io aprii la bocca per rispondere, ma dalle mie secche labbra non fuoriuscì nulla, neppure un suono. Neppure un suono, mentre il corpo dilaniato di mio padre veniva strappato a metà e il moncone superiore del suo pingue torso scagliato con il lato anteriore sinistro della macchina si schiantava contro il colonnato di un palazzo in una orrenda cacofonia mista di sangue, interiora e acciaio, lasciò la mia gola orripilata.

    Ricordo ancora la voce della Mamma.

    La voce della Mamma, che in un grido disperato di assoluto terrore misto a confusione veniva sommessa dallo sgorgare a spruzzo degli schizzi sanguinolenti provenienti da quel blocco irregolare di carne maciullata trattenuto a stento dalle cinture di sicurezza che un tempo erano state le gambe di mio padre.

    Io vidi la scena, ma non la capii. Probabilmente, mentre la macchina sbandava stridendo con il lato anteriore sinistro mancante, tranciato di netto in un taglio simile a quelli che si vedono in uno spot pubblicitario che promuove l'affilatura dei coltelli, e il rimasuglio di morte sanguinante che era mio padre lordava la follia spasmodica dei singulti di mia madre, stavo ancora sorridendo.

    Lo

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