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La vita che non voglio
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E-book253 pagine3 ore

La vita che non voglio

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Info su questo ebook

Lena ha più o meno trent’anni, lavora come giornalista a Milano e si sente con le spalle al muro. Deve fare una scelta e non pensa di esserne capace. L’unica soluzione che vede è la fuga. Così telefona ad Anastasia, detta Ani, vedova di un collega più grande di lei che le aveva fatto da mentore e le era stato vicino in alcuni momenti difficili: «Posso venire da te, a Trapani?». «Certo che puoi.»

Lena arriva in Sicilia. Ad accoglierla un mondo fatto di calore, di odori, di sapori. E una sorpresa. Lei non sarà l’unica ospite di Ani, c’è anche Monsignor Patrick, un vescovo settantenne, anche lui arrivato senza un vero preavviso. Anche lui in fuga.

Ma il primo giorno in cui sono tutti e tre insieme Ani ha un malore improvviso, devono portarla d’urgenza in ospedale, rischia la vita. Lena e Patrick restano soli, a studiarsi, conoscersi. Mentre sullo sfondo aleggia una grande domanda: da cosa stanno fuggendo?

Roberto Perrone, prematuramente scomparso lo scorso gennaio, è stato un grande giornalista e un grande scrittore. Nei suoi libri ha saputo spaziare tra i generi, scrivendo alcuni dei più bei noir italiani degli ultimi anni e indimenticabili storie d’amore, con lo sguardo universale proprio dei grandi umanisti, che sanno abbracciare la vita in tutte le loro forme, dalla letteratura allo sport, dal cibo ai sentimenti, quotidiani ed eterni, che animano l’esistenza.

La vita che non voglio è l’ultimo romanzo che ha completato. È il racconto di un’amicizia inattesa e grande, dell’incontro tra due dolori che specchiandosi sapranno tornare a sorridere. Un libro poetico e bellissimo, che appassiona e commuove.

LinguaItaliano
Data di uscita16 giu 2023
ISBN9788830592643
La vita che non voglio

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    Anteprima del libro

    La vita che non voglio - Roberto Perrone

    Nota dell’Editore

    La vita che non voglio è l’ultimo romanzo completato da Roberto Perrone.

    Al momento della sua scomparsa stava lavorando al seguito di Un odore di Toscano, dal titolo di lavorazione Toscano, la senti questa voce?, e aveva scritto poco più di metà libro.

    Ma, confermando la natura mirabilmente eclettica della sua produzione, oltre ai libri noir di Toscano, negli ultimi anni della sua vita, Perrone aveva scritto anche un romanzo profondo e dolce, carico di umanità, un’indagine non rivolta a fatti criminali ma a un lavoro di immersione nelle profondità dell’animo umano, l’incontro di due solitudini che, facendosi forza l’una con l’altra, riescono a superare le crisi in cui la vita aveva precipitato i loro cuori: La vita che non voglio.

    D’accordo con lui, prima di pubblicarlo, nonostante fosse terminato, avevamo pensato di dare alle stampe la seconda avventura di Toscano, per dare continuità alle vicende del personaggio da lui recentemente creato e già amato da molti lettori. Purtroppo non è stato possibile.

    A meno di cinque mesi dalla sua scomparsa, vede così la luce il volume che avete tra le mani. Non c’è stato il tempo di riguardare il libro con lui. Grazie alla preziosa collaborazione di sua moglie, Emanuela Carbone, abbiamo però potuto condurre una revisione del testo, cercando di intervenire il meno possibile, per non alterare la voce, inconfondibile, di Perrone.

    Per tutta la casa editrice è stato un onore e un piacere lavorare con Roberto Perrone, straordinario per le qualità letterarie e per quelle umane, così come è un onore contribuire a portare nel mondo queste sue parole, che ci fanno sentire la sua permanenza, la sua presenza.

    a Pietro, a Roberto

    e agli amici in viaggio

    Criteri di edizione

    Delle strade percorribili per l’opera postuma di Perrone, si è scelto di restituire al lettore l’ultima lezione dell’Autore, evitando di sostituire criteri di valutazione oggettivi a criteri soggettivi, se non nei luoghi dove piccole sviste avrebbero compromesso la pulizia del testo. Si tratta di rari casi riguardanti refusi da battitura del dattiloscritto o lievi imprecisioni sintattiche, per i quali si è preferito emendare. In presenza di varianti lessicali, si è mantenuta la lezione attestata nelle precedenti opere dell’Autore, conservandone i propositi.

    Quando tira un po’ di vento che ci si rialza un po’ e la vita è un po’ più forte del tuo dirle «grazie no», quando sembra tutto fermo la tua ruota girerà. Sopra il giorno di dolore che uno ha.

    Ligabue, Il giorno di dolore che uno ha

    1

    Dentro la casa

    1.

    La fretta è una cattiva consigliera. Lena, dopo l’afa, le code e il pesce in carpione, odia i proverbi. Trova insopportabile la banalità della saggezza popolare che non può più trovare spazio in questa società liquida. Ora la cosiddetta vox populi, ammesso che cento anni fa avesse un senso, non verrebbe più ascoltata da nessuno. L’uditorio di quella presunta saggezza si è dissolto. L’affacciarsi della società liquida nella sua mente le strappa finalmente un sorriso che attenua il caldo appiccicoso dovuto al clima, all’ambiente chiuso e all’assembramento di cui fa parte, nel suk di quel luogo chiuso. L’ilarità è dovuta al pensiero della sua nonna adorata, Nonna Costi, che non la chiama liquida ma fluida, attribuendola a quel tale dal nome impronunciabile, cioè Zygmunt Bauman. Il filo nella sua mente si annoda al momento preciso in cui la nonna ha usato quel termine: durante un viaggio a Santa Margherita Ligure, qualche anno prima. Era un fine settimana di luglio e si trovarono, partite da Milano il venerdì sera, in mezzo al traffico, ai rallentamenti, alle code di auto in fuga dalla città, dirette al mare e alla Riviera. Nonna Costi ribolliva accanto a lei, avvolta in una felpa e con il collo circondato da una pesante sciarpa di lana per permettere a Lena di tenere l’aria condizionata al massimo. Nutrendo lo stesso disprezzo per le code, Nonna Costi si era esibita in una filippica contro la globalizzazione e le vacanze intelligenti.

    «Una volta, Milano si svuotava di colpo, tra il 31 luglio e il primo agosto, per un mese. Da un giorno all’altro non c’era più in giro nessuno. Adesso ci sono le vacanze intelligenti, senza punti di riferimento, amicizie, paesi natali, luoghi da raggiungere. Si va due giorni qui e due giorni là, al massimo una settimana. Si parte ogni weekend ed ecco che tutti questi cretini sono qui a ostruirci il cammino.» Aveva fatto un gesto rivolto all’uomo alla guida dell’auto che procedeva lenta accanto alla loro, che le aveva rilanciato uno sguardo interrogativo.

    «Potrebbero dire lo stesso di noi, nonna» aveva obiettato Lena.

    «No, perché noi non siamo fluide come questi. Io vado sempre e solo ad agosto a Santa. Se non ci fossi stata tu, non mi sarei mossa da Milano. Quindi non siamo come questi.»

    Seduta sul suo trolley, appena ritirato dal nastro bagagli, Lena osserva con lo stesso disprezzo della nonna la folla attorno, ma soprattutto quella davanti a sé, dove un’interminabile fila si muove lentamente verso il bancone dell’autonoleggio. Butterebbe i soldi che ha già speso per la prenotazione, se uno dei concorrenti fosse libero e non avesse la stessa muraglia umana accatastata nei pressi del bancone. Purtroppo ce l’hanno tutti. È qui, Lena lo ammette a malincuore, nell’umidità di corpi umani sudati e lingue babeliche dell’aeroporto Falcone e Borsellino di Palermo, che le due banalità riunite dal suo ragionamento descrivono in modo perfetto la situazione. Le vacanze non sono più quelle di una volta viene confermato da quella massa informe che cerca di raggiungere i luoghi di villeggiatura o d’arte della Sicilia a fine settembre, rendendo l’aeroporto invivibile. Riguardo alla fretta cattiva consigliera, poi, se lei avesse fatto un bel respiro e atteso il volo per Trapani la mattina successiva, non avrebbe avuto bisogno dell’auto, avrebbe preso un taxi o il bus e, dopo un quarto d’ora, venti minuti al massimo, si sarebbe trovata a destinazione. Sta riflettendo sulla sua condizione, delusa da se stessa, quando lo zainetto che tiene tra i polpacci vibra.

    Lei guarda le sue gambe che escono da un paio di shorts color kaki. Belle, sode e lisce, ma di un bianco, di un pallore che Lena sa diffuso anche sul suo viso. Si guarda intorno.

    «Perfino questa massa di nordici accaldati è più colorata di me» commenta ad alta voce, sicura che nessuno la comprenda, e tira fuori il cellulare.

    2.

    «Cara, avrei bisogno di un grosso piacere, anzi due.»

    Lena attende un po’ prima di rispondere, anche se quel numero lo hanno solo due persone e quindi non può esserci pericolo. Ha cambiato sim, gestore e perfino modello di telefono all’aeroporto di Linate, dov’è arrivata con un anticipo privo di logica. Non voleva più stare a casa. La tizia del baracchino telefonico cerca di venderle il cellulare a rate («È un affare») e sta cominciando a spiegarle quanto sia conveniente, ma lei la blocca: «Non voglio firmare troppe carte, voglio il telefono, la sim dentro, perché non riesco mai a capire come si infila e ho solo una domanda: tra quanto avrò l’attivazione?». La tizia promette che non occorreranno più di un paio d’ore. Quindi quando atterrerà a Palermo il nuovo telefono sarà funzionante. Con quello vecchio manda un whatsapp a sua madre e uno alla persona che la ospiterà, segnalando il nuovo numero e pregandole di non darlo a nessuno («A nessuno, per favore» ripete). Poi spegne il vecchio cellulare e toglie anche la sim. Compiuto il gesto, scuote la testa.

    «Tu hai visto troppi film, Lena.»

    Le viene da sorridere. Un buon segno. Il primo dopo alcuni giorni.

    E ora, il nuovo telefono, per la prima volta, suona. O meglio, vibra. Lena guarda il display.

    È Anastasia.

    Anastasia è la donna che le ha offerto ospitalità nella sua casa a Trapani. Sono amiche da quindici anni, anche se Ani, come le piace farsi chiamare, è addirittura più anziana di sua madre. Sopra i settantacinque, ma portati in modo vitale. «Con allegria» sostiene lei, malgrado le batoste dell’esistenza. È vero: con la vita che ha avuto, avventurosa per usare un eufemismo, dura in certi passaggi, tragica in altri, come a punirla della felicità faticosamente conquistata, su Ani le nuvole transitano leggere, senza gocciolare. Lei è una persona positiva, solare. Il contrario di me, pensa Lena.

    Anastasia porta il nome della figlia più piccola dell’ultimo zar di tutte le Russie, quello rovesciato dalla rivoluzione del 1917. Suo padre era un giovane ufficiale dello Stato Maggiore, un conte, ma Ani non è mai stata molto sicura del titolo («Mio padre era uno straordinario cacciaballe»), e sebbene fosse fuggito subito dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi di Lenin e Ani fosse nata più di due decenni dopo la fine della Russia zarista e la nascita dell’URSS, aveva sempre coltivato il rimpianto per la vita di corte, per le feste, per il languore di San Pietroburgo che descriveva come una specie di paradiso in terra.

    «Non per tutti, evidentemente.» Ani a questo punto metteva una parentesi, considerato com’è andata a finire.

    Suo padre, però, ci credeva, al paradiso zarista, e l’aveva chiamata come l’ultima figlia dell’imperatore, la cui fine è avvolta nella leggenda, anzi nelle leggende. Secondo la più diffusa, non sarebbe morta, giustiziata con il resto della famiglia, ma l’avrebbe scampata, riparando in Occidente, smemorata, povera e sola. Una volta, nella casa di Ani a Roma, che ora è stata venduta, l’amica ha costretto Lena a guardare il filmone hollywoodiano con Yul Brynner e Ingrid Bergman che narra la storia di un gruppo di imbroglioni in cerca del grande colpo: presentare agli amministratori dell’eredità dello zar una finta Anastasia per entrare in possesso del malloppo. A Lena quei film degli anni Cinquanta, colori maldestri e melensaggine diffusa, non sono mai piaciuti. Ani invece ne va pazza. Le ricordano la sua giovinezza. È nata a Spalato, perché suo padre, dopo la fuga dalla Russia in fiamme, era riparato in Serbia. Diceva sempre, e su questo i ricordi di Ani sono precisi, descrivendo le sue peripezie: «Caspita, abbiamo scatenato la Prima guerra mondiale e ci siamo rovinati per loro, per questi balcanici, un tozzo di pane me lo daranno». Era proprio un tozzo. Troppo poco per un conte, o comunque per uno che si sentiva tale. Così, dopo altre peripezie, aveva finalmente trovato fortuna a Spalato. «La fortuna era mia madre» chiosava Ani, «la ricca figlia di un armatore italiano.»

    Erano nati i suoi fratelli e dieci anni dopo il terzo maschio era arrivata lei. C’era già la guerra, la Seconda mondiale, allora, anche se a Spalato si avvertiva solo in lontananza. Poi era finita ed era stato peggio, pericolo e violenza erano arrivati con i partigiani di Tito che non avevano più tedeschi da cacciare. Il bersaglio erano diventati gli italiani e così li avevano messi nel mirino. Qualcuno se lo meritava pure, ma gli slavi non fecero distinzioni. La famiglia di Ani aveva dovuto abbandonare precipitosamente casa e averi, come tante altre famiglie. Avevano affrontato una traversata tempestosa dell’Adriatico, Ani, piccolina, sulle ginocchia di sua madre. Non c’erano cabine libere, era già tanto essere riusciti a salire a bordo della nave.

    Lena ha sentito quei racconti tante volte, ma non si è mai annoiata, anche perché Ani è una narratrice volubile, al contrario di Nonna Costi, che non muta neanche la punteggiatura delle sue storie. Le narratrici volubili, secondo Lena, sono quelle che cambiano versione, impreziosiscono, aumentano, deviano, aggiungono particolari a ogni ripetizione della storia. E quindi non ti succede mai di ascoltare due volte lo stesso racconto. Non ti annoi, insomma.

    Ani non sa riprodurre la storia pari pari, si prende molte licenze e questa caratteristica la rende affascinante. A Lena piacciono in particolare i racconti sulla corte dello zar, su San Pietroburgo, sui maledetti bolscevichi e sulla vita degli italiani sulla costa dalmata. Sulle famiglie, gli intrecci, la vita chiusa in un bozzolo finita nell’esilio e, per molti amici dei genitori di Ani, anche con la morte. La famiglia di Ani, con suo padre che ripeteva, in tono melodrammatico, «sono uomo destinato all’esilio», è sbarcata a Pescara. E poi si è dispersa. Ma Ani è rimasta laggiù, perché ha incontrato quello che sarebbe diventato suo marito a sei anni, sui banchi della scuola dell’obbligo, e in quella occasione gli ha detto: «Io e te ci sposeremo».

    Non è fantasia, questa. Angelo Nati, il marito di Ani, ha sempre confermato. Aggiungendo: «Ovviamente, ho pensato: questa è una pazza. E non ho cambiato idea».

    Ani è profondamente religiosa e devota al Volto Santo di Manoppello, santuario in provincia di Pescara. Nel santuario è conservato un velo con un ritratto che, secondo alcuni studiosi, è quello di Cristo, anche perché è sovrapponibile in modo quasi perfetto a quello della più famosa Sindone, conservata a Torino. Anche questo racconto è uno dei preferiti di Ani. Lena lo ha ascoltato tante volte.

    Il piacere che le chiede l’amica è legato a Manoppello e alla preziosa reliquia.

    3.

    Lena ascolta la richiesta di Ani in una sorta di scompiglio mentale, mentre avanza, nel suk aeroportuale, diretta all’agognata conquista dell’auto e quindi verso la via di fuga da quel luogo caldo e affollato.

    «Cara, senti, dovresti dividere la casa con un amico. Anche lui ha bisogno, come te, di un luogo tranquillo dove rifiatare.»

    Lena è sempre affascinata dall’uso della lingua italiana di Ani, dei suoi verbi, dei suoi aggettivi, dei suoi sostantivi e del significato che dà a questi. Mai quello comune. Spesso si tratta di eufemismi. Rifiatare, in questo caso, significa che l’amico dev’essere in fuga come Lena. Da qualcosa o da qualcuno. Rifiatare significa scappare, fuggire, allontanarsi, staccare da persone e situazioni e trovare un luogo tranquillo dove rifugiarsi, in attesa di un mutamento della condizione umana. Questa, la traduzione di rifiatare nel vocabolario di Ani, che ama far rifiatare le persone. Suo marito Angelo la chiamava refugium peccatorum.

    Ma Lena non sa quanto, questa volta, l’espressione latina sia pertinente.

    Già è irritata di dover dividere la casa con un amico, ma la successiva rivelazione la lascia senza fiato.

    «È un prete.»

    «Un prete!» ripete Lena.

    Si accorge, subito dopo averlo fatto, di aver alzato la voce. Qualcuno dei nordici che la circondano si è voltato, una ragazza la fissa con insistenza. Quella è italiana o parla molto bene l’italiano, Lena non ha dubbi, perché ridacchia.

    «Scusami, lo so, ma vedi, me lo sono trovato davanti all’improvviso, a Roma. Non so neanche come ha fatto a trovarmi.»

    Da anni, Ani non ha più una casa a Roma, né in altro luogo del Continente, come definisce la penisola italiana da siciliana acquisita. Le uniche due abitazioni che possiede sono in Sicilia. Lei e suo marito acquistarono, dopo averla scoperta durante il viaggio di nozze, una casa sull’isola di Marettimo. Innamorati pazzi di quel luogo, affittarono in seguito un appartamento a Trapani come punto d’appoggio, per tutte le volte che il mare impediva le partenze di battelli e aliscafi. Angelo era stanco di cercare una stanza d’albergo all’ultimo momento, spesso sotto la pioggia portata dalla tempesta. Quando non è a Trapani, Ani ha amici che la ospitano. Se non è in Germania da sua figlia, un’architetta d’interni che vive a Berlino e che è di qualche anno più grande di Lena, si trova sempre qua e là. In una villa tra gli ulivi sulla Riviera ligure: «Cara, quando vengo qua mi sembra di essere una delle protagoniste di Un incantevole aprile, hai presente? Il libro e il film?». Lena ha presente. Oppure in una camera con vista a Firenze: «Questa mia amica americana si è comprata una splendida mansarda davanti a Ponte Vecchio e ci verrà, sì e no, due volte l’anno. Così ogni tanto mi chiede: "Ani, please, go to the house, it’s alone"», e giù una risata. O in una masseria in Puglia: «Bello, eh, ma qui mi fanno mangiare troppo, non ci vengo più». O nella foresteria di qualche santuario o convento: «Silenzio e preghiera, Lena, sono sinonimo di rinascita».

    «Questo prete è un caro amico, un teologo, uno studioso di immagini sacre, reliquie, un luminare. L’ho conosciuto perché ha scritto un saggio straordinario sul Volto Santo. A casa ne ho una copia, te lo presto.»

    Lena è perplessa.

    «Hai detto che i piaceri sono due.»

    Ani sembra riprendersi da una lunga riflessione quando risponde.

    «Sì, cara, è vero, il secondo piacere è che dovresti andarlo a prendere, alla stazione di Palermo. Intanto io sistemo la casa, arieggio un po’.»

    «Alla stazione? È venuto in treno?» Ani ridacchia.

    «Eh sì, è un po’ strano, lo vedrai. Ha tutta una serie di manie e fobie. Una di queste riguarda gli aerei. A parte gli intercontinentali o dove non può arrivare in altro modo, sceglie sempre gli altri mezzi. Ha preso un vagone letto da Roma.»

    Lena pensa che può dare uno strappo a Trapani a un prete con la fobia dell’aereo, pur sapendo che perderà un paio d’ore, addentrandosi a Palermo, tra una cosa e l’altra, ma non dividere la casa con lui. Con Ani è un conto, ma in tre e con un prete? Conosce la casa di via Carreca solo per i racconti dell’amica che l’ha descritta come molto grande, ma immagina l’imbarazzo, la privazione della libertà a cui va incontro. A proposito, guarda le sue gambe bianche da assenza di vacanze e di sole che escono dagli shorts. Potrà tenerli in casa? Già si vedeva percorrere l’appartamento mezza nuda, in totale libertà, in mutande. Neanche a colazione potrà presentarsi con una mise inappropriata e anche la canotta è esclusa, ne ha prese un paio larghe e comode, di quelle che si vede tutto, come le fa notare Nonna Costi, ogni volta che le indossa.

    Va bene, decide Lena, ormai quasi davanti al bancone dell’autonoleggio. Recupererà il prete aerofobico,

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