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I punti ciechi
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E-book195 pagine2 ore

I punti ciechi

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Info su questo ebook

Carrie Townsend è una donna psicologicamente provata da una vita vissuta a metà, piena di “punti ciechi”, confusione e dolorose riflessioni, nella quale si dibatte dal momento in cui, per sfuggire a una situazione di violenza coniugale, è scappata di casa lasciando anche la figlia Alison, di soli quattro anni. Davanti alla legge viene accusata di abbandono di minore e diffidata dall’avvicinarsi alla bambina, che rimane sotto la tutela del padre.
Dopo anni di angosce, paure e appostamenti a distanza, l’unico scopo nella vita della donna è quello di riannodare il rapporto con la figlia, ora adolescente, che frequenta una scuola americana nel viterbese. Per questo, Carrie giunge in Italia, precisamente a Civita di Bagnoregio, dove un’amica americana le concede l’uso di casa che lei occupa soltanto durante le vacanze estive. L’antico borgo, suggestivo e misterioso, diventa la giusta trasposizione spaziale della confusione emotiva di Carrie, dove però la donna incontra anche delle persone amiche e riesce, almeno in parte, a ritrovare se stessa.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2022
ISBN9788855392150
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    Anteprima del libro

    I punti ciechi - Marilena Fonti

    PROLOGO

    In una situazione normale, il tramestio che sento arrivare dal lato opposto dell’ampio locale, quasi completamente al buio, tranne che per qualche tenue striscia della luce della luna che si insinua dalla piccola finestra in alto, mi avrebbe atterrita. Potrebbe essere un topo, o magari una lucertola che s’è introdotta nello spazio tra il pavimento e la porta. Adesso mi fanno molta più paura i rumori che arrivano dall’alto. Quei passi inarrestabili e frenetici che percorrono il pavimento sopra di me, senza sosta, avanti e indietro, con pervicacia rabbiosa. Ho sentito anche il pianto di Alison, per qualche minuto: si sarà svegliata per il trambusto. Non la sento più, lui deve essere riuscito a calmarla e a farla addormentare di nuovo, dopodiché si è messo a camminare in modo convulso da un punto all’altro del soggiorno, proprio sopra la cantina. Il movimento febbrile s’interrompe di colpo: il mio corpo si contrae nella tensione di cogliere qualche segnale, farmi un’idea di quello che sta succedendo. Sentire i passi che scendono i pochi gradini che portano all’ingresso della cantina mi toglie ogni dubbio e il corpo, rannicchiato dietro una catasta di scatoloni vuoti, dove sono riuscita a nascondermi appena in tempo, è percorso da una scossa che ne paralizza ogni cellula. Solo il battito incalzante del cuore e il dolore lancinante del polso riescono a imporsi allo stato di sospensione di tutte le sensazioni. Quando sento la maniglia girare, si blocca anche il respiro, nella mente la preghiera che il tremito incontrollabile se ne stia confinato dentro, che la pelle riesca ad arginarlo e non lo lasci affiorare, tradendo la mia presenza. Mi pare di avvertire di nuovo un rumore provenire dall’altra estremità del vano: lui deve aver acceso la luce, ne filtrano strisce sottili negli spazi tra uno scatolone e l’altro e, quando i passi si dirigono verso i rumori, c’è un piccolo subbuglio e l’esclamazione: «Ma che cazzo…!» seguita da un’inutile rincorsa verso il topo che deve essersi precipitato fuori attraverso la porta aperta. Respiro appena. Non posso scappare, io no, io sono in trappola. Stringo le gambe tra le braccia, la testa ripiegata sulle ginocchia, potrei essere una statua scolpita nel legno, eliminata e dimenticata qui, sotto l’ammasso di cartone accumulato nel tempo, residuo di acquisti e mai smaltito perché non si sa mai, gli scatoloni possono servire. Lui non deve neanche intuire che io sia qui, non adesso, potrebbe succedere qualunque cosa, deve essere furioso, ancora. Quando la luce si spegne, lo sento chiudere la porta e girare la chiave nella toppa: non lo facciamo mai, quella porta è sempre aperta. Di certo vuole impedirne l’accesso, o l’uscita, forse non è del tutto convinto. C’è un’altra chiave nel cassetto di un vecchio tavolo accantonato in cantina: ce l’ho messa io per precauzione molto tempo fa, nell’eventualità che qualcuno rimanesse chiuso dentro per errore. Non per paura.

    1

    Il taxi aveva appena superato l’ultimo agglomerato di palazzi di quella che doveva essere la periferia estrema della città. Nella semioscurità del crepuscolo ormai avanzato, Carrie riusciva a distinguere alberi e campi sui due lati della strada, interrotti a tratti da costruzioni sporadiche che, come escrescenze invadenti, s’inserivano nel paesaggio a contrastarne l’uniformità.

    Pensava di arrivare prima, ma, sebbene l’aereo fosse stato in perfetto orario, il treno era partito in ritardo da Roma: aveva aspettato quasi un’ora alla stazione di Trastevere. Dai commenti degli altri viaggiatori in attesa le era sembrato di capire che ci fosse uno sciopero in corso. L’ultima volta che era stata in Italia le cose erano andate meglio, non era sola e anche le circostanze erano del tutto diverse. Il tassista che la stava portando a destinazione le parlava in un italiano abbastanza corretto, si rendeva conto, non senza stupore, che riusciva a capirlo. Le avevano detto che, a volte, le inflessioni dialettali rendevano difficile la comprensione. In quella situazione, inusuale per lei, era molto felice di aver frequentato per due anni di seguito i corsi serali di lingua italiana per adulti al community college della sua città: lo aveva fatto per mettersi alla prova, non conosceva nessuna lingua straniera, tranne un po’ di spagnolo imparato alla scuola superiore e, a quel punto, non le sembrava vero di poter mettere in pratica quello che aveva imparato. L’uomo le stava chiedendo come avrebbe fatto a portare le due grosse valigie fino al borgo.

    «Mi aspetta qualcuno all’inizio del ponte» gli rispose nel suo italiano stentato e con un forte accento, ma chiaro a sufficienza, almeno a giudicare dalla reazione del suo interlocutore, che a quelle parole aveva annuito. Fino a quel momento era andato tutto liscio. Era la prima occasione in cui si metteva alla prova in una conversazione, seppure molto limitata, in una lingua diversa dalla sua e senza l’aiuto di nessuno, e fin lì aveva funzionato: per quanto incredibile potesse sembrarle, riusciva a capire e a farsi capire, le sembrava quasi un miracolo. Un buon segno. Solo quando era arrivata alla stazione della piccola città era stata colta dal panico: non c’erano taxi nei paraggi, e non c’era neanche nessuno a cui chiedere informazioni. Sparita l’unica persona che era scesa insieme a lei, le era quasi parso di trovarsi dentro una scena di un film western, in una città fantasma, i cui abitanti, avvisati dell’incursione dei banditi, fossero scappati tutti. Per fortuna, proprio quando cominciava ormai a disperare, il suo sguardo si era posato su una scritta sul muro, proprio accanto alla porta della sala d’aspetto: taxi, tracciato con un pennarello rosso in lettere maiuscole, seguito da un numero di telefono. Non era stata lì a chiedersi chi lo avesse scritto e perché, aveva chiamato senza un attimo di esitazione. Prima della partenza Joyce le aveva dato il suo cellulare, quello con la scheda italiana: Carrie lo avrebbe usato per tutto il tempo che fosse rimasta lì, tanto alla sua amica non sarebbe servito, aveva intenzione di tornare solo l’estate successiva. E l’arrivo in quel borgo per lei sconosciuto, ma di cui aveva tanto sentito parlare, era la fine di un lungo viaggio e l’inizio di un’avventura in un luogo che le era stato descritto come magico. Ed era anche l’avvio della sua personale esplorazione in una sfera dell’esistenza che, fino a quel momento, era stata per lei accidentata e piena di ostacoli e di dolorose sconfitte: ne era consapevole e non ne avrebbe schivato gli ostacoli. Era preparata ad affrontarli, per una volta era pronta.

    Il taxi stava percorrendo quello che sembrava un centro abitato: le case diventavano sempre più numerose e, dalla strada su cui si trovavano, se ne diramavano altre che si perdevano nel buio, che ormai avvolgeva tutto. Dovevano essere quasi arrivati. La fitta oscurità era attraversata da una fascia luminosa che, partendo dal paese saliva verso quello che doveva essere il borgo, la sua destinazione finale: quel nastro di luce doveva essere il ponte che lo collegava al resto del mondo, secondo quello che le aveva detto la sua amica. E si intravedeva anche lo strano, suggestivo skyline color seppia, che si stagliava contro un cielo cupo appena spruzzato di stelle. Il tassista parcheggiò l’auto nello spiazzo appena prima del ponte e scaricò le valigie dal portabagagli. Nella luce giallognola dei lampioni Carrie notò qualcuno che procedeva verso di loro, con aria un po’ circospetta, come se incerto su cosa fare. Aveva l’aspetto di un uomo di mezza età, magro, allampanato, un po’ curvo, con un berretto di lana calcato sulla testa. Era l’inizio di ottobre, le pareva strano che qualcuno avesse la testa coperta in quel periodo dell’anno. L’idea che si aveva in genere dell’Italia era quella del paese del sole e del bel tempo, e la scena a cui assisteva strideva con l’immaginario collettivo, perlomeno con quello del suo paese. In effetti, però, si avvertiva l’umidità, o forse era la stanchezza accumulata nelle tante ore di viaggio, poiché cominciava a rabbrividire nel suo pullover di cotone. Lo sconosciuto si avvicinò e le chiese con voce esitante:

    «La signora Townsend?»

    «Sì, sono io» rispose, anche lei guardinga.

    Sembrò sollevato nel sentire il suo italiano approssimativo.

    «Io sono Matteo, l’accompagno a Civita» le chiarì in modo sbrigativo, quasi brusco e, senza neanche guardarla, sollevò senza sforzo apparente le valigie e le caricò su uno strano veicolo, una specie di furgone piuttosto piccolo, con tre ruote, un cassone aperto sul retro e una piccola cabina davanti. La fece entrare nella cabina, al suo fianco. Il disagio della vicinanza di quell’estraneo un po’ bizzarro fu vinto dalla curiosità mista a emozione: stavano per attraversare il ponte che, illuminato dai lampioni, sembrava un raggio sospeso nel vuoto, che si insinuava risoluto nell’oscurità densa che avvolgeva tutto. Un veicolo normale non ce l’avrebbe fatta, Carrie si rendeva conto del perché di quell’inconsueto mezzo di trasporto. Iniziarono a muoversi verso il borgo, accompagnati dal rumore di ferraglia del motore, affatto rassicurante: ansimante e affannato, come un vecchio allo stremo delle forze, ma ostinato. Dava l’impressione di essere sul punto di fermarsi da un momento all’altro, ma procedeva inerpicandosi lungo lo stretto ponte e avvicinandoli sempre di più a quelle pietre che sembravano materializzarsi dal nulla. Rimandavano il riflesso caldo dell’illuminazione, e diffondevano un alone che, sfumando nel buio ormai totale, faceva da cornice ai profili delle case. Per un attimo ebbe l’impressione di essere dentro una favola, di quelle che le raccontava sua madre per tenerla buona quando era piccola, piene di fate, di gnomi e di principi e principesse, e che lei aveva a sua volta raccontato a Alison. Chissà se le ricordava? O se le aveva invece dimenticate, come tutto il resto. Non più di quindici ore prima Carrie era nel suo appartamento a Stamford, nel Connecticut, in un quartiere sorto da poco e pieno di edifici super moderni come il suo, a due passi dall’oceano e a poco più di un’ora dalla babele caotica di New York; le pareva straordinario ritrovarsi invece là, in un paesaggio fatato, in cui il tempo sembrava essersi fermato diverse centinaia di anni prima, e che non avrebbe mai potuto neanche immaginare se non l’avesse visto.

    Intanto erano arrivati alla fine della salita. Il suo autista se ne era stato zitto per tutta la durata del breve tragitto, ma lei lo aveva notato appena: presa com’era a guardare davanti a sé, tutto il resto s’era come smorzato, anche i suoni si erano affievoliti. Stavano passando sotto una specie di arco, che si apriva su una stradina che immetteva in una piazza. Era un altro mondo: non c’era anima viva, sebbene non fosse tardissimo; da una finestra di un palazzo alla loro sinistra filtrava la luce soffusa di una lampada, tenue e velata anche quella. Lì tutto era indefinito, sfocato. Non c’erano rumori. Lo scoppiettio del motore dello strano veicolo quasi profanava quel luogo, su cui sembrava aleggiare un antico sortilegio. Joyce aveva ragione: Carrie era già sotto l’impressione di trovarsi in un luogo fantastico, scollegato dalla realtà e dal tempo. Era anche per quello che era arrivata fin lì, per allontanarsi da una realtà che la respingeva, sulle orme dell’unica persona di cui, a quel punto, le importasse davvero.

    Matteo fermò il bizzarro veicolo in una stradina che dava sulla piazza, accostandolo a una breve scalinata che s’arrampicava lungo la facciata di un palazzetto dalle persiane serrate: lì non filtrava alcuna luce dalle fessure, doveva essere la casa di Joyce; la ricordava dalle foto che lei le aveva mostrato per farle iniziare a prendere confidenza con il posto in cui avrebbe passato un paio di mesi, quelli necessari per raggiungere l’obiettivo che si era imposto. Ora i tempi erano maturi. Forse.

    Il suo laconico accompagnatore la aiutò a portare le valigie in casa, sempre in silenzio, anche quando lei gli tese una banconota per ringraziarlo: accettato il denaro, si limitò a togliersi il berretto in segno di gratitudine, precipitandosi quindi fuori dalla porta quasi senza neppure guardarla.

    Era stanca, ma non aveva sonno, come le capitava sempre quando l’emotività aveva la meglio su di lei. La casa di Joyce la accolse subito con un calore che la stupì, anche se dentro faceva quasi più freddo che fuori. La sua amica le aveva detto che, sebbene lei fosse negli Stati Uniti in quel periodo, una donna del paese andava ogni quindici giorni a spolverare: infatti non c’erano teli a coprire i mobili, si aveva l’impressione di entrare in un posto dove abitasse abitualmente qualcuno. Avrebbe voluto chiamare subito Alison, ma si trattenne. La ragazza non immaginava neppure che lei avesse il suo numero di cellulare, ottenuto grazie a Joyce, che conosceva una sua insegnante, una ex compagna di università. La stessa grazie alla quale aveva saputo che la ragazza avrebbe passato un anno in Italia. Carrie sapeva che sua figlia alloggiava presso una famiglia di Viterbo, ma non voleva crearle problemi, e poi era anche piuttosto tardi. Era meglio fare le cose con calma, la sorpresa di saperla lì, tanto vicina a lei, avrebbe potuto indisporla ancora di più nei suoi confronti e rovinare tutto. Se avesse saputo che aveva in mente di seguirla, avrebbe di sicuro cercato di impedirglielo e magari non sarebbe neanche partita per questa sua prima avventura in Europa da sola.

    Avrebbe dovuto disfare i bagagli, ma rimandò all’indomani: tirò fuori solo lo stretto necessario per la notte. Forse avrebbe anche dovuto intiepidire un po’ l’ambiente: la sua amica le aveva spiegato dov’era il termostato e la signora delle pulizie avrebbe dovuto lasciare tutti i contatori aperti. Ma non ne aveva voglia, avrebbe messo una coperta in più per dormire, e rimandato alla mattina successiva tutto il resto. Il silenzio di quel luogo un po’ la sgomentava: si sentiva solo il fruscio lieve del vento che s’insinuava risoluto tra gli spiragli degli infissi del vecchio fabbricato.

    Nel frigo trovò della frutta, e anche del latte: doveva averli lasciati la donna delle pulizie in previsione del suo arrivo. Decise di scaldarsi un po’ di latte prima di coricarsi, l’avrebbe aiutata a rilassarsi e a prendere sonno.

    2

    L’aveva svegliata il ronzio del cellulare. Sul tavolino accanto al letto c’era una radiosveglia, ma la sera precedente era spenta e con la spina staccata: aveva evitato di perdere tempo ad accenderla e a capire come funzionasse, per poi impostare l’ora: davvero troppo per lei, era sfinita dal lungo viaggio. Aveva invece usato la sveglia del cellulare, il cui fastidioso brusio, però, si era insinuato con la molestia di un insetto importuno nella sua testa, ancora immersa in un sonno da cui usciva non del tutto riposata. Il corpo era indolenzito: doveva aver dormito in tensione, come le capitava quando era stremata o molto preoccupata. E la sera prima era entrambe le cose. Era abituata ad alzarsi presto: anche se molto del lavoro lo svolgeva

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