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L'altalena di Giulia: C'è un prima e c'è un dopo. In mezzo, quel maledetto giorno.
L'altalena di Giulia: C'è un prima e c'è un dopo. In mezzo, quel maledetto giorno.
L'altalena di Giulia: C'è un prima e c'è un dopo. In mezzo, quel maledetto giorno.
E-book540 pagine8 ore

L'altalena di Giulia: C'è un prima e c'è un dopo. In mezzo, quel maledetto giorno.

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Info su questo ebook

A sedici anni il mondo sembra un po’ come quei territori oltre le mura. A volte lo spazio non ha confini e vuoi correre forte; a volte lo spazio fa paura e rimani seduto a guardare. Riccardo convive con i piccoli e grandi tormenti della sua età, scopre i sentimenti della tristezza e dell’euforia. Scopre l’amore. I segreti dell’adolescenza lo avvolgono come catturandolo in un ciclone e lui si lascia trasportare, com’è giusto che sia.
Sembra preparato, ma a sedici anni la vita sa essere anche molto crudele e questa è l’ultima cosa che Riccardo avrebbe voluto scoprire.
LinguaItaliano
Data di uscita22 dic 2020
ISBN9788868762599
L'altalena di Giulia: C'è un prima e c'è un dopo. In mezzo, quel maledetto giorno.
Autore

Riccardo Guetti

Riccardo Guetti, nato a Trento nel 1980. Laureato in Mediazione Linguistica, nel 2012 si è classificato secondo al concorso letterario “La fantasia prende la penna”, promosso dalla Biblioteca di Cavedine, presentando il racconto “Parolina”. Nato a Trento nel 1980. Laureato in Mediazione Linguistica, nel 2012 si è classificato secondo al concorso letterario “La fantasia prende la penna”, promosso dalla Biblioteca di Cavedine, presentando il racconto “Parolina”. “L’altalena di Giulia” è il suo primo romanzo.

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    Anteprima del libro

    L'altalena di Giulia - Riccardo Guetti

    pensieri.

    SABATO 20 GENNAIO

    Tutto lavoro inutile!

    Nell’alzare la testa per rispondere all’ennesimo vicino di casa che non perde occasione per dire la sua, il berretto di lana verde scuro, che già calzava piuttosto largo, scivola fino a coprire gli occhi, lasciando in balìa del freddo le mie povere orecchie. Assalito dai doveri di replica, mi riservo il diritto di concedere al gentile pensionato una battuta tra le più originali del repertorio.

    No, ma è solo per passarci… dopo la rimetto dov’era!

    Ahimè, il vecchietto non sembra preparato ad accogliere una battuta di spirito né tantomeno a lasciare la scena per approdare verso chissà quali lidi. La scena la vuole anzi tutta per sé e con l’indice profetico lo vedo avvicinarsi con aria saggia e omnisciente.

    Spalàr la nef, bater le nos e copàr òmeni l’è tuti mistéri fàti per gnent!

    Esplodo in una breve ma energica risata, la condisco con goffi movimenti del bacino e la rendo più folcloristica con gemiti di spontaneo stupore per non aver mai udito tanta sapienza. Cercando di sistemarmi bene il berretto sulla testa mi preparo poi al triste commiato sottolineando quanta verità nascosta ci sia dietro quelle poche parole. Il mio simpatico interlocutore conferma e ribatte con un paio di racconti d’epoca bellica di cui non riesco a cogliere bene la pertinenza ma per i quali fingo nutrire profondo interesse. Grazie al cielo però l’amarcord non si dilunga oltre l’accettabile sopportazione e dopo alcuni minuti mi ritrovo finalmente di nuovo solo a dover tuttavia combattere contro un altro fastidioso impedimento. Con le dita intrappolate in questi guantoni da sci così ingombranti non riesco infatti ad aggiustarmi il berretto sulla testa come vorrei e dopo svariati tentativi decido d’infilzare la pala in un vicino cumulo di neve per togliermeli. Evidentemente sfiancato dalle precedenti fatiche, mi mancano ora le forze necessarie per infilzare la pala in posizione eretta e mi urta per questo dover registrare nel mio orgoglio ferito l’immagine deprimente di una pala obliqua che, a pochi metri da me, sembra deridere la mia fiacca sensibilità. Lo sconforto mi porta a vagare tra leggende cavalleresche dove, a segnare il confine tra il coraggio degli eroi e l’autorità del destino, è sempre la saldezza di una spada ben conficcata da qualche parte e non di certo l’obliquo ergersi di una vecchia pala da neve. Avvilito come d’abitudine, mi tolgo i guantoni e li lascio cadere sulla neve battuta che copre il vialetto di casa. Con le mani finalmente libere mi tolgo anche il berretto dalla testa per poterlo meglio indossare nel proseguo dei lavori. Spazzolo per bene la neve accumulatasi, sistemo con cura la doppia piega e verifico la posizione dell’etichetta all’interno. La pala è sempre lì a fissarmi. Obliqua ed arrogante. Storta ed ignorante. Pigra ed insolente. Un affronto che va subito stroncato. Concentro dunque gli occhi come si usa quando non si riesce a mettere a fuoco un soggetto. Piego le ginocchia divaricando appena le gambe, ne faccio avanzare leggermente una e prendo a molleggiare sulle punte per qualche secondo. Un veloce conto alla rovescia, un attimo ancora per prendere meglio la mira ed effettuo il lancio della vita. Il berretto vola al rallentatore verso la vecchia pala da neve, la sorvola purtroppo di un buon metro abbondante e atterra poco oltre il piccolo cumulo di neve. Deciso a riprovare il colpo, vado a recuperare il berretto, ma la sorpresa ha dell’incredibile quando lo ritrovo comodamente adagiato e galleggiante in una piccola pozzetta di acqua stantia, color giallastro e piena di tanti sottili aghetti caduti dal vicino pino. L’odore, che leggero si alza nell’aria, e la frequentazione della zona da parte di molti affettuosi cagnolini, che la sera scodinzolano felici per il vialetto, mi forniscono gli indizi necessari per convincermi che la pozzetta non è un semplice deposito di acqua stantia.

    L’orologio segna le tre e mezza quando una forte raffica di vento accompagna il lento sfumare della luce del giorno. Gli occhi scalano i boschi del vicino Monte Bondone e ne seguono i contorni più alti per capire dietro a quale cima si sia nascosto il sole. Pur così lontana la vetta più illuminata sembra abbastanza vicina per essere accarezzata con un pennello e, come un pittore tra i più bizzarri, cerco di espandere quella luce più in alto nel cielo. Fra i tanti colori lo sguardo sceglie quello grigio delle rocce per scavalcare la montagna e saltellare in equilibrio al di là dell’orizzonte. Che meraviglia! Proprio mentre cerco di cogliere un’immagine conosciuta tra le veloci evoluzioni di una nuvola, giocano a confondermi le folli geometrie disegnate da uno stormo di uccelli di passaggio. Un’apparente coincidenza, una gentile concessione, un improvviso intercalare a dare vivacità al pomeriggio di un sabato qualunque. L’energia e la gioia mi travolgono con un sorriso e la freschezza sulla pelle portata dalle fredde folate di vento è ora anche una spinta a dare il meglio di me con tutti coloro con cui avrò a che fare ed in ogni circostanza che mi capiterà di affrontare.

    A cominciare da stasera!, bisbiglio tra le labbra.

    A cominciare da subito!, mi correggo poco dopo.

    La neve da spalare è ancora tanta ma con la forza d’animo e la voglia di fare che mi hanno appena assalito sono certo che in mezz’ora riuscirò sia a creare lo spazio per un passaggio pedonale sia a permettere alle poche automobili di uscire dal loro parcheggio. Armato di sano entusiasmo riunisco quindi le idee e pianifico il lavoro. Raccolgo da terra i guantoni da sci e me li metto con particolare foga. Non certo per indossarlo nuovamente, procedo poi di buon passo per recuperare il povero berretto di lana verde scuro, abbandonato oltre il cumulo di neve. Vederlo però in quello stato tutto d’un tratto mi demoralizza e la neonata passione per la dinamicità si esaurisce al momento di afferrare la vecchia e sbilenca pala da neve. Non trovando altri appigli motivazionali per continuare a spalare, mi rifugio nell’unica giustificazione logica che mi appare improvvisamente evidente: sono stufo. In un attimo mi convinco che ogni tanto è giusto assecondare ciò che mi sento veramente di fare e, sorridendo, mi avvio verso casa ricordando a me stesso che, in fondo, sarebbe stato comunque tutto lavoro inutile.

    La sera raggiungo Trento a piedi. Sotto la neve. Passeggiare sotto la neve è bello, e ho pensato a quanto mi piacerebbe succedesse più spesso. La neve con la sua leggerezza, che si appoggia delicatamente sulla giacca senza nemmeno sporcarla. La neve con la sua lentezza, che permette di camminare serenamente senza costringere ad accelerare il passo. La neve con la sua saltuarietà, che aumenta l’attesa e aiuta ad accettare i disagi. La neve con il suo silenzio, che canta nella notte ma non stona mai. La neve con la sua purezza, che non fa arrabbiare i genitori se capita di volerne mangiare un po’ aspettandola a bocca aperta. La neve con la sua evocazione, che rimanda al Natale e ci solletica per farci sorridere. La neve per qualcuno. La neve per tutti. La neve all’improvviso. La neve dalla finestra. La neve che passa ma resta.

    Arrivato in città la neve ha rallentato la sua corsa e da quando i bolognini di porfido mi hanno introdotto in Vicolo del Vo’ anche l’andatura del mio passo si è fatta gradualmente più tranquilla. Mi guardo in giro e penso che la vetrina del negozio di video games e soprattutto quella del barbiere siano specchi che riflettono un incedere ancora troppo poco soddisfacente.

    Un pizzico di vittimismo e di velata autocritica, ma anche poi una goccia di vanità e di modico narcisismo, quando penso che piangere un difetto sia giusto quanto dimenticarlo in fretta e forse un tantino apprezzarlo. Non si è mai del tutto fieri della propria immagine riflessa, ma il segreto credo risieda nel saper limitare la delusione ai soli momenti in cui ci si imbatte nel delicato test del confronto, come ad esempio passare davanti ad una vetrina, e poi, appena distratto lo sguardo, nel saper prontamente riassaporare il gusto di noi. Seppur immerso in un nuovo travolgente dibattito interno, non dimentico di ricordare come in Vicolo del Vo’ mi succeda sempre qualcosa di particolare: un amico perso di vista, un elicottero in lontananza, il primo acquisto della lista o un profumo di cui sentivo la mancanza. O ancora l’orologio che suona l’ora esatta e la voglia di dare un calcio ad un insolito barattolo di latta. Niente di poi così strano. Solo che ormai mi sono fissato che in Vicolo del Vo’ deve accadere sempre qualcosa a cui in altri vicoli non darei altrimenti tanta importanza.

    Non avendo finora trovato quel qualcosa da poter ricordare, decido di bloccare il passo e soffermarmi ad ammirare la vetrina di un negozio di abbigliamento, così posso attendere che le tre ragazze che si stanno avvicinando in senso opposto, mi passino dietro la schiena. Sono sicuro che la prima del terzetto darà una rapida occhiata alla vetrata del negozio con lo scopo di osservare per un attimo i lineamenti riflessi del mio volto e stabilire se concedere un commento o sorvolare indifferente. Sarà in quel preciso istante che le sorriderò, le strizzerò l’occhio sinistro e le mostrerò la mano aperta con i lenti tremolii delle cinque dita che rimbalzeranno sulla vetrata e la raggiungeranno come fossero un poetico ciao ciao. Chissà se s’accorgerà di tutti e tre gli accorgimenti. Chissà se noterà anche una sola sillaba, una sfumatura, una virgola di arte svenduta ad un alone di vetro e neve. Chissà anche se si volterà. Chissà se commenterà o procederà. Chissà, ma non m’importa. Voglio solo portare a termine il progetto. Togliermi un peso. Poter dire che ce l’ho fatta. Creare una situazione. Creare un ricordo di qualcosa d’insolito.

    Quando le ragazze mi passano dietro la schiena non succede nulla. La prima del terzetto lancia un’occhiata, sì, ma alle mie attenzioni reagisce distratta ed imparziale. Non muove un muscolo del viso e non si lascia andare a commenti di nessun tipo. Procede anzi indifferente più intenta a non perdere il filo dei suoi discorsi che disposta a cadere tra le braccia di uno sconosciuto così avvincente e misterioso. Io mi lascio invece andare ad una commovente smorfia di candida amarezza che, nonostante la buona volontà e le cose da ricordare, va comunque trascritta su una nuova intransigente pagina della mia fiscale diaria dei rifiuti in amore.

    La neve intanto ha riacquistato una certa velocità e tra un fiocco e l’altro cadono regolari anche le poche sicurezze maturate lungo il percorso. Una di queste si riferisce ad esempio al fatto che presentarsi all’Emporio senza volantino d’invito non dovrebbe scaturire una tragedia poi così grave. Ed invece sì, mi grido nella mente. Il volantino, quel maledetto volantino, sarei dovuto andare a prenderlo nella classe di Valentina poco dopo il nostro incontro in bagno così come mi aveva chiesto di fare proprio lei.

    Passa alla ricreazione che ti do il volantino!

    Così mi aveva salutato uscendo dai bagni e allontanandosi lungo il corridoio. È stato pronunciando queste parole che mi aveva guardato negli occhi quel secondo in più prima di voltarsi. Quello sguardo che aveva ripetuto poi subito dopo, quando, girandosi all’improvviso, ridendo, mi aveva chiamato ‘professorÈ. Professore! Mi ha chiamato professore! Ancora adesso se ci penso mi emoziono. Quel sorriso mentre mi chiamava professore era divertito. Era sincero, presente, rumoroso. E poi quello sguardo mentre mi parlava. Quello sguardo era molto più di uno sguardo. Era un messaggio, una freccia, un colpo di bigliardo. L’energia di quello sguardo e la ricchezza di quel sorriso mi avevano fulminato. Mi avevano abbagliato, accecato e fulminato. Ed inoltre mi avevano fatto sentire davvero importante. Soddisfatto. Per una volta mi ero sentito fiero di me. Eccitato. Talmente appagato che alla ricreazione non ero andato nella classe di Valentina. Non ci ero andato perché sapevo che le scintille di quel contatto si sarebbero inesorabilmente spente al suolo all’avvicinarsi di un altro contatto, decisamente più esplicito e formale. Niente a che vedere con le fiamme alimentate da uno sguardo e le frecce scagliate da un arco. Si sarebbe dovuto ripetere tutto un’altra volta ma in fondo ci si sarebbe solo persi a tentare di dare un senso. Avevo deciso di non voler giocare questa carta. Avevo preferito non rischiare. Forse avevo perso un’occasione, ma forse ora ne ho guadagnata un’altra. Un altro contatto da sognare e poi tutto da vivere.

    Da sognare e da vivere, sì, ma quando? Un giorno della prossima settimana se capiterà un’altra coincidenza o durante questo sabato sera da tutti così aspettato? Lasciarsi alle spalle il suo compleanno e attendere un momento più propizio o cogliere l’attimo e buttarmi nella mischia? E se fosse stasera, sono al cento per cento? Mi sento a mio agio in questi vestiti? Saprò cosa dire? E se scelgo di aspettare, non rischio che ci si dimentichi? Saprò reggere ad una attesa così lunga? Non finirò con l’avere fretta per poi inciamparmi e rovinare a terra?

    Mi convinco che dai dubbi se ne esca solo andando avanti e che il destino si adeguerà al naturale corso della vita. Il tempo poi farà il resto. Decido che andrò avanti per la mia strada, proverò a fare qualcosa e sarà quel che sarà.

    Forte di tale spirito e munito della giusta convinzione proseguo a camminare lungo il Vicolo del Vo’ aggiustandomi bene il cappuccio della giacca per la fitta neve che ora scende più velocemente. Una mano è nella tasca della giacca da quando ormai sono partito da casa e, così nascosta e riparata, ha continuato in segreto ad accarezzare la carta regalo con cui poco prima di uscire avevo accuratamente confezionato il mio regalo per Valentina. All’agendina ’96, che avevo per sfizio comperato in una cartoleria nei giorni prenatalizi, non avevo mai dato grande importanza. L’avevo anzi abbandonata nella mia stanza ad impolverarsi su una mensola senza nemmeno preoccuparmi di togliere il cellofan in cui era avvolta. E lì vi era rimasta fino a ieri sera quando ho deciso, non so neanch’io perché, di addormentarmi sfogliandone il contenuto. Per ogni giorno dell’anno, in fondo alla pagina, veniva descritta l’origine e la storia di un’invenzione. Dalla prima locomotiva a vapore di Stephenson, alla lampadina ad incandescenza di Edison. Dalla penicillina di Fleming, fino addirittura alla lingua italiana di Dante. Ogni pagina una curiosità. Ogni giorno una novità. Man mano che sfogliavo mi rendevo conto che quello sarebbe stato un regalo perfetto per Valentina, ma allo stesso tempo riflettevo se renderlo in qualche modo più simpatico o più romantico. L’idea di renderlo invece più stuzzicante nasceva, dapprima poco convinta, quando mi intestardivo che in italiano le frasi iniziano sempre con le stesse lettere. Non era altro che una delle tante psicosi maniacali che d’ogni tanto mi assalgono, solo che sfogliavo le pagine e nessuna descrizione che iniziasse ad esempio con la B. E nemmeno con la F. E me la ridevo quando ormai sconsolato ne trovavo una che invece iniziava con la Z. Considerazioni stupide, attitudine all’osservazione praticamente senza senso. Fissazioni assolutamente inutili, pensavo. O quasi, visto che per una volta sono servite, le mie manie, ad illuminarmi sul tocco di mistero che avrei potuto dare ad un regalo fino ad allora abbastanza carino, ma niente di più.

    Dopo aver lanciato il piumone più in là che potevo, mi alzavo veloce dal letto per poi riassaporarne prontamente la comodità, recuperata dalla scrivania la penna della Cassa Rurale, rigorosamente blu. Sistemato il cuscino e avvicinate le ginocchia al petto, ricordo di aver trascorso diversi minuti a trovare le parole da scrivere sulla prima pagina dell’agendina, quella tutta bianca che sembra generalmente fatta apposta per le dediche. Non avendo trovato grande ispirazione, ricordo anche di aver rimandato detta ricerca ad un momento più fertile cominciando, piuttosto, ad occuparmi della messa appunto dell’intrigo. L’idea, messa in pratica nei minuti successivi, era quella di annotare su un foglio i numeri di cinque pagine in cui le descrizioni delle invenzioni iniziavano con la T, con la I, con la A, con la M e con la O. Cinque numeri per cinque pagine. Cinque lettere per cinque brividi.

    Al suo termine, il lavoro mi aveva serenamente stancato e, appoggiata l’agendina sul comodino e spenta la luce, ricordo di aver tradito l’emozione affogando la faccia nel cuscino e comprimendo le spalle al collo, come per trattenere una gioia e non volerne far scappare neanche un po’. Non so se la notte ed il giorno durino di più o di meno a seconda di come uno si aspetta che saranno, ma di certo so che l’ultima notte è passata molto in fretta, perché quella stessa gioia, mentre stamattina appena sveglio trascrivevo quei cinque numeri in bella copia, sembrava proprio non aver mai riposato. Scritti sulla parte più alta della pagina di oggi, sabato 20 gennaio, compleanno di Valentina, il 77, il 12, il 184, il 22 ed il 210 si presentavano ai miei occhi come una serie di linee e curve difficilmente eseguibili a penna; e le pause, nel ricopiare quelle poche cifre, non servivano ad altro se non a dare un po’ di tregua alla mano e al suo incessante tremare.

    Come ogni compagnia che si rispetti, anche la compagnia di Valentina annovera tra le sue fila un numero di elementi assolutamente indeterminabile. Gente che va e che viene; soggetti tutti d’un pezzo che irrompono, strapazzano cuori e scompaiono; splendide ragazze che timidamente s’inseriscono, sconvolgono gli equilibri e s’allontanano, accusate d’ingiuria, accidia e doppiogioco; giovani leve che, sfavorite alla partenza, si ritrovano di colpo sul palco a manovrare pedine; amici di tutti e nemici del mondo; l’adolescente, ancora ingenuo della vita, e l’uomo con alle spalle già le sue esperienze da raccontare. Molti di loro frequentano il mio liceo, mentre altri li ho spesso incontrati a gruppetti girare per la città. Volti noti, abitudini osservate da lontano, chiacchiere origliate per sentito dire e movimenti spiati dalla serratura. A dare voce alla Blue Stone, qui in piazza Italia, ci sono sempre loro. Chi fuma, chi scherza, chi esaspera una tendenza e chi piace perché non segue la moda. A quest’ora del sabato è molto strano che in piazza non ci sia nessuno e lo è ancor di più avvicinarsi alla Blue Stone senza sentirsi osservati e senza doversi atteggiare in una qualche maniera. La neve che da ieri cade ininterrotta su Trento ha rinnovato l’aspetto abituale della piazza e ha coperto la Blue Stone di una morbida mantella bianca. La struttura irregolare, che rende innovativa la robusta lastra di marmo blu, non appare più così imponente sotto quello strato di neve. Uno strato di neve che ne manipola piuttosto la concezione di arte moderna e ne restituisce l’immagine di un percorso inesplorato e tutto da calpestare. Finalmente padrone di un territorio sempre troppo impegnato per essere anche solo in parte di mia proprietà, balzo sulla Blue Stone e la attraverso in solitaria come nessuno aveva mai osato prima.

    Scendo dalla Blue Stone e mi rendo conto che m ritrovo ad un passo dal fatidico incontro con Valentina con le scarpe impregnate di acqua ed i jeans bagnati fino a sotto il ginocchio. In breve raggiungo l’incrocio tra via Diaz e via Oss Mazzurana. La tensione si fa largo tra le emozioni ed il vociare dietro l’angolo cresce d’intensità man mano che mi avvicino. Fingendo di cercare riparo nel piccolo atrio all’entrata di una libreria, cerco di capire chi siano i primi arrivati alla festa sbirciando indifferente da dietro l’angolo delle due vie. Nonostante abbia poco tempo per distinguere bene l’identità di ognuno, riconosco, tra il capannello di ragazzi che stanzia di fronte all’entrata dell’Emporio, la fisionomia di alcuni conoscenti. Al centro, in un attimo, scorgo in particolare la fisionomia di una conoscente che, a differenza degli altri, mi sembra che conoscente lo sia da sempre. Quella è senza dubbio la Vale!, Non può che essere lei!, certificano i pensieri. Dalla distanza in cui mi sono messo non riesco a capire bene chi ci sia lì con lei e cosa stia facendo. Ci sono troppi ombrelli, troppi giacconi ingombranti, troppi movimenti per ingannare il freddo e l’attesa. Ma lì, al centro, sono sicuro che c’è lei. Il leggero roteare dell’ombrello, prima in un verso e poi nell’altro, è tipico del suo affrontare le cose sempre con una buona dose di entusiasmo, di energia e di fantasia. La gonna a metà, in stravagante e raffinato abbinamento con il più comune giubbotto imbottito, è la perfetta soluzione di un’eleganza che solo lei sa portare con tanta leggerezza. L’adoperarsi per non girare mai le spalle a nessuno ricambiando le attenzioni di tutti senza svenire come la più improvvisata delle dive, è la storia di un’educazione che solo lei sa raccontare con un sorriso così bello. Continuando a fissarla mi sembra di subire l’allucinazione di un immenso raggio luminoso che si concentra su di lei e ne illumina la presenza in mezzo a tutti gli altri. Come un riflettore in un grande teatro, il raggio luminoso l’avvolge dall’alto quasi per attirarla su una navicella spaziale. Sola, in mezzo a tutti, la vedo distratta girare il capo verso di me. Il suo sguardo è lo stesso di sempre, quello sguardo che mi ha fatto innamorare e che ora sembra fare caso solo ai miei applausi. S’inchina a destra, s’inchina a sinistra…ehi, fermi tutti! S’inchina a destra, s’inchina a sinistra, ok, ma alla sinistra della Vale c’è un ragazzo che conosco! Lo conosco ma non so dove metterlo! Aspetta che ci sono, ancora un attimo…ah, ecco, ma certo! È il ragazzo dell’altro giorno in chiesa! Ma dai! Ma che ci fa qua? Madò che figura! Io torno a casa! Sì, sì, io torno a casa! Non ho neanche l’invito! Li ho visti quei due ragazzi all’entrata dell’Emporio che lo chiedono a chi si avvicina. Io arrivo lì, tutto ridotto come sono ridotto, e non ho neanche l’invito. No, no, io torno a casa!

    Ormai convinto a tornarmene da dove son venuto, e tuttavia abbastanza rinfrancato per non aver altra scelta, mi volto verso via Diaz per riprendere il mio cammino verso casa, quando, d’improvviso, sbatto violentemente contro una persona che corre in senso contrario e che, urtandomi, mi scaraventa pure a terra.

    Scusi!, ribatto istintivamente.

    Che botta!, replica una voce familiare.

    Eh…scusi! Non l’avevo vista!, sospiro cercando un appoggio nella neve per girarmi e tirarmi in piedi e colpevolizzandomi nonostante sia stato io, il solo dei due, a finire a terra.

    Ricky! Mamma mia! Ma sei tu! Ti sei fatto male? Dai tirati su!

    La sensazione di aver già sentito quella voce diventa certezza nel voltare lo sguardo a colui contro il quale ho appena impattato. Leo! Leo, il mio amico porta-sfortuna. Leo, che ride come uno scemo, e già mi si ingrossano le vene delle tempie. Leo, che mi prende per un braccio, e già dalla rabbia mi fa venire male al cuore. Leo, che mi passa la mano sul dietro della giacca, e già vorrei ucciderlo. Leo, che mi stringe il gomito nel suo, mi trascina qualche metro sulla via, ci annuncia alla folla…e già vorrei morire.

    Buona sera a tutti!

    Palesemente provato dalla vergogna e ancora aggrappato al gomito di Leo, mi presento al gruppetto di ragazzi con un’entrata in scena tuttavia degna di onore. Sorriso abbondante, pupille a tutto schermo, postura giovanile e freschezza generale. Il gruppetto dapprima si apre a ventaglio come per accogliere un amico appena arrivato, poi si chiude a riccio come per aspettare un amico che deve ancora arrivare. La reputazione di Leo, per quanto ne dubitassi l’effettiva entità, credevo mi potesse aiutare, ma dal modo in cui sembra non rendersi conto di quanto inutili dovremmo sentirci, mi rammarico per non aver capito in tempo che la sua è una reputazione tutt’altro che da invidiare. Mentre cerco di decifrare le parole esatte pronunciate da chi rigirandosi s’interrogava su chi potessimo mai essere, mi chiedo se oltre a ciò non debba sentirmi umiliato anche per non aver avuto il coraggio di guardare negli occhi né il tipo conosciuto in chiesa né tantomeno la Vale. Il gruppetto, aprendosi, aveva lasciato al centro proprio loro due, ma il desiderio di apparire misteriosamente inconsapevole della loro presenza mi aveva portato a puntare lo sguardo ovunque fuorché in loro direzione. Il Leo intanto mi ha trascinato verso un altro gruppetto di ragazzi i quali, seppur evidentemente ignorati dalla bontà divina in materia di stile ed estetica, sembrano incredibilmente apprezzare il nostro pietoso sopraggiungere.

    È vero che non bisogna badare alle apparenze, ed è altrettanto vero che bisogna cercare di trovarsi bene ovunque e con chiunque senza perdersi in antipatiche ipocrisie, ma in questo momento non sono dell’umore giusto per interagire con questi quattro stupidi secchioni. Mi slego pertanto dal gomito di Leo con sofferente cortesia e di punto in bianco abbandono il gruppetto di occhialuti scusandomi con una piccola bugia. Mi allontano dall’Emporio e giro l’angolo di via Diaz. La neve accompagna nuovamente il silenzio dei pensieri. Il vociare e le urla sono sempre lì ad un passo, ma pian piano perdono l’onda e si smorzano in un ultimo acuto. Non mi giro per non vedere, ma sogno che qualcuno mi rincorra, mi preghi di non andarmene e insista perché io ci ripensi.

    Non mi giro per non vedere ma curvando in direzione della Blue Stone allungo lo sguardo all’indietro cercando di non farmi scoprire. Non c’è nessuno, ma meglio così, perché adesso ho solo voglia di tornare a cavalcare la Blue Stone e di sentirmi nuovamente eroe di un sogno già vissuto. La neve che prima non avevo calpestato sembra infatti chiamarmi ad un altro balzo. La tentazione è troppo forte ed un sorriso spazza via tutte le inutili questioni che riguardano il cuore e le relative chiacchiere. Adesso sono io, e al condizionale non voglio più sottostare. Prendo allora la rincorsa e accelero per il salto in alto, ma, ad un metro dallo stacco decisivo, il pacchetto regalo, che con tanta premura custodivo nella tasca, vola fuori dalla giacca distraendomi quanto basta per farmi perdere l’equilibrio una volta atterrato sulla scivolosa superficie della Blue Stone. In un attimo mi ritrovo a braccia larghe e pancia in giù quasi completamente coperto dalla neve. Potrei affrettarmi nel tirarmi in piedi ma preferisco girarmi su me stesso per poter guardare il cielo e non pensare a niente. La neve mi cade sulla pelle del viso appoggiandosi delicata su di essa. Le guance e le orecchie ne soffrono il contatto diretto ma mi provoca un insolito sollievo avvertirne il mutare infiammato della temperatura e del colore. Le braccia le spingo per pochi centimetri su e giù per la Blue Stone, così posso rinnovare la piacevole goduria per la freschezza rilasciata sulle punte delle dita nel grattare i cristalli di neve come per scavare piccoli cunicoli.

    Dolorante ma allegro mi alzo in piedi, mi spolvero la neve da dosso e mi diverto per qualche secondo a pestare sulla neve sporca e bagnata che appiccicosa ha trasformato l’arte della Blue Stone in qualcosa di meno appagante. Da un lato della piazza si avvicina una persona e, sperando di non dovermici in alcun modo relazionare, colgo l’attimo per balzare a piedi pari giù dalla Blue Stone. La persona è ancora piuttosto lontana ma non abbastanza per impedirmi di riconoscerne l’identità. Nel decidermi se svignarmela come se nulla fosse o andarle incontro proponendo me stesso con una battuta di circostanza, mi sovviene contemporaneo il dubbio se reagire all’imprevisto saluto di Silvia con un cenno altrettanto amichevole o con sospetta indecisione. Ritenendo come al solito più fortificante l’aspetto misterioso del primo impatto, opto per la seconda ipotesi e decido che per qualche istante è meglio atteggiarmi fingendo di non aver ancora capito che Silvia è davvero

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