Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La nuova scuola: I primi amori sbocciano, ardono e si spengono. Ma restano eterni.
La nuova scuola: I primi amori sbocciano, ardono e si spengono. Ma restano eterni.
La nuova scuola: I primi amori sbocciano, ardono e si spengono. Ma restano eterni.
E-book254 pagine3 ore

La nuova scuola: I primi amori sbocciano, ardono e si spengono. Ma restano eterni.

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il mio compagno di banco era e non a caso, Felice. Era abbastanza simpatico, ma nessuno avrebbe scelto di sedergli accanto perché aveva spesso i pidocchi in testa e l’abilità d’infestare chi gli stava vicino   


Versai il vino dalla botte direttamente nella brocca e gli stappai una gassosa. Come al solito, prese la brocca con la mano sinistra e la depositò di lato sulle labbra mentre con la mano destra sospese la gassosa sopra la cannata al livello del naso e mentre trincava il vino, svuotava contemporaneamente la gassosa nella cannata senza toglierla di bocca finché non aveva scolato anche l’ultima goccia, e finiva il processo con un violento sospiro di soddisfazione. L’avevo visto fare la stessa cosa allo stesso modo un centinaio di volte, eppure non mi stancavo mai di osservarlo  


La strinsi più che potei cercando disperatamente di comfortarla. Sentivo sul collo i suoi capelli lisci, neri, lunghi, e le sue lacrime calde che mi inumidivano il viso, e il pianto, dapprima distinto che gradualmente svaniva, e il mio desiderio che quel momento, in cui sembrava che solo noi esistessimo, non avesse fine, forse anche in anticipazione di una devastante notizia 


All’inizio di luglio il nonno stette male. Cercò di alzarsi dal letto un mattino, ma le gambe non lo ressero e finì sul pavimento da dove non ebbe la forza di alzarsi e rimettersi in piedi. Non chiese aiuto perché, siccome dormiva nudo, si vergognava d’essere trovato svestito da zia Teresa, o peggio ancora da una delle sue giovani figlie  


LinguaItaliano
Data di uscita26 giu 2023
ISBN9781977265982
La nuova scuola: I primi amori sbocciano, ardono e si spengono. Ma restano eterni.
Autore

Luciano Racco

Mio padre mi ha insegnato sin da piccolo con il suo esempio ad amare i libri. Avevo da sempre desiderato scriverne almeno uno per me, ma soprattutto per lui. Averne scritto il primo ha segnato la realizzazione di quel sogno, purtroppo a metà, dal momento che papà, il cui giudizio mi era supremo, non c’è più.   

Correlato a La nuova scuola

Ebook correlati

Biografia e autofiction per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La nuova scuola

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La nuova scuola - Luciano Racco

    Capitolo I

    La maestra Gallo

    La nuova scuola elementare fu finalmente completata, pronta ad aprire. Una struttura tutta in mattoni rossi sormontata da tegole d’argilla di un giallo paglierino e tutt’intorno un cortile spazioso . Un recinto, anch’esso degli stessi mattoni con grandi inferriate nel mezzo di un susseguirsi di pilastri, la proteggeva con trepidante amore, come una mamma che avvolge tra le braccia la sua creatura appena nata. Mancavano due settimane al primo ottobre, l’inizio dell’anno scolastico, e mi sognavo seduto a un banco di quella che sarebbe stata la mia prima esperienza di scuola. Decine di ragazzi della mia età e anche più grandi, celebravano chiassosi la nuova scuola correndole tutt’intorno, saltellando e schiamazzando euforici mentre gli adulti, indifferenti alla cagnara, la guardavano dalla via attraverso le finestre di ferro intrecciato a ragnatela, come un prigioniero in cella ammira il mondo dall’altra parte della finestrina, sospirando tristemente per le opportunità concesse ad altri di goderselo, ma negate a loro. Distolsero lo sguardo dall’ edificio solo appena s’accorsero che don Ciccio Di Noia si stava avvicinando. Si tirarono un po’ da parte salutando ossequiosamente quell’uomo che aveva donato il terreno per costruire la scuola e mormorando tra di loro, arriva don Ciccio, facciamo un po’ di spazio. Don Ciccio marciava con la schiena eretta e a testa alta tradendo chiaramente il suo passato di carriera militare. Dava l’impressione d’essere assai più alto del suo metro e sessantacinque. Portava, come al solito, una camicia bianca sbottonata intorno al collo dentro un paio di pantaloni color crema che non facevano una grinza, con bretelle marrone scuro a sostegno dignitoso di pantaloni e pancione. Un coro di buon giorno don Ciccio, o buon giorno Capitano, a seconda del rispetto sociale o rispetto militare riservato all’uomo, l’aveva investito non appena s’era accostato a quel gruppetto.

    ___Bella veramente, don Ciccio. Ne potete essere fiero, disse Vici Mammella deferente.

    ___La scuola è per tutti i nostri figli e nipotini, ammonì gentilmente, don Ciccio. Ne possiamo essere orgogliosi tutti insieme, continuò con un filo di falsa modestia. Sarà un grande vantaggio avere quasi tutti gli scolari in un solo posto anziché sparpagliati in stanzoni bui qui e lì per tutte le nostre campagne. Certo, se il Cavaliere Cavalletta avesse donato anche lui un suo pezzo di proprietà adiacente, la scuola sarebbe stata grande abbastanza per creare tutte le aule di cui c’era bisogno, aggiunse con velata malizia. Vuol dire che purtroppo, un paio di classi dovranno seguire il vecchio sistema. Comunque, certo, meglio di così si muore. Bisogna sapersi accontentare e guardare al futuro. Vedremo che ne pensano i maestri a ottobre. Scusate, sembra che mio figlio abbia bisogno di me. Così dicendo, Si avviò verso Tommaso, il figlio, che l’aspettava all’angolo del vicolo che portava a casa loro. Conferirono brevemente prima d’incamminarsi insieme lentamente su per la stradetta, chissà forse per l’età avanzata di don Ciccio, ormai ottantenne, o forse per la zoppia di Tommaso che era nato con una gamba più corta dell’altra, e che nonostante le tante visite mediche da piccolo in tutt’Italia, e tante spese per tanti esperimenti, la differenza in lunghezza era rimasta tale e quale e così anche lo squilibrio dei suoi passi.

    Da quando l’edificio scolastico era stato costruito, noi ragazzini avevamo spostato inconsciamente il centro delle nostre attività dalla piazzetta difronte alla chiesetta a Via delle Fosselle, dove si trovava la nuova scuola. La nostra migrazione aveva naturalmente annoiato le famiglie vicino alla scuola, che d’un colpo avevano perso tutta la loro tranquillità e avevano sicuramente cominciato già a maledire la nuova scuola, se non addirittura don Ciccio. Poi, finalmente, era arrivato il giorno che avevo anticipato con trepidazione. Primo ottobre. Primo giorno di scuola. Il cortile così ampio fino a ieri, si era di colpo rimpicciolito sotto la valanga di alunni che vi si era riversata con assordante violenza, separando spietatamente le due metà del cancello di ferro all’entrata dalla strada. Grembiuli neri con colletti bianchi ancorati da fiocchi azzurri e uno o due grembiuli bianchi che stonavano un po’ davano l’impressione di capre in branco che si spingevano caoticamente cercando spazio che non c’era. Le conversazioni aumentavano di volume e si intrecciavano disordinatamente. I gruppi si sformavano e riformavano involontariamente a causa di chi veniva spinto scriteriatamente da un gruppo a un altro. La confusione diventava il caos assordante di una battaglia senza strategia. D’improvviso, quel clamore cacofonico delle capre in grembiule diventò silenzio. La valanga aveva finito la sua babelica corsa, inghiottita per un attimo dalla quiete della valle sottostante, rimpiazzata quasi simultaneamente dallo stridere aspro di una sirena, che inavvertitamente aveva cominciato a causare nei nostri animi coscienti l’ ansia e l’ inquietudine dell’ignoto: Il primo suono della campanella nuova, della nuova scuola, del nuovo anno scolastico. Gli occhi di tutti si spostarono verso gli scalini dell’entrata. I maestri sorridenti alla soglia del corridoio che divideva le aule di sinistra da quelle di destra, erano pronti ad accogliere affettuosamente, come genitori amorevoli, quei loro bimbi ancora sconosciuti. Era l’eccitamento di una grande famiglia che da una casetta di tufo sembrava finalmente trasferirsi nella nuova casa di cemento, con majolica e tappetini in tutte le stanze, bagni luminosi con docce e vasche e una grande cucina con tutti gli elettrodomestici modernissimi. Mentre salivo quei cinque scalini, d’improvviso sentii una stretta allo stomaco che m’impediva quasi di respirare e mi sembrò d’affogare come nei momenti in cui al mare mi immergevo sott’acqua sfidando me stesso a toccare il fondo non sapendo in risalita se mi restava abbastanza ossigeno nei polmoni per arrivare in superficie. Mesi d’anticipazione e d’eccitamento per quel momento erano svaniti di colpo. Avevo voglia di vomitare. Di girarmi e correre via. Invece, entrai anche con l’aiuto di qualche spinta accidentale, e per fortuna i polmoni non mi scoppiarono in petto, anzi, lentamente la stretta si allentò e ritrovai la serenità. Ero vivo. Ero pronto.

    La maestra Gallo era molto simpatica. Mi era piaciuta subito perché assomigliava a mia zia Teresa che faceva le migliori frittelle al riso, o con i fiori di zucchini che amavo da morire. Infatti, mentre lei parlava, mi sembrava di sentire l’odore di frittura che veniva dalla sua cattedra e quando lei disse, alla fine del suo prologo, di avere una piccola sorpresa per addolcire l’inizio del nostro primo anno, m’aspettavo di vederla tirare fuori dal cassetto un piattone di frittelle. Ci diede invece una caramella e un cioccolatino ciascuno.

    ___E non illudetevi che succederà ogni giorno. Questa sarà la prima e l’ultima volta. Capito?, disse con un sorrisetto materno.

    Il mio banco era il più vicino alla sua cattedra. Non era stata una mia scelta, bensì la conseguenza d’essere entrato in classe per ultimo, e così avevo ereditato sia banco che compagno di banco. Ero il più basso della classe e quindi essere in prima fila non mi dispiaceva, anzi era di certo un grosso vantaggio. Il mio compagno di banco era e non a caso, Felice. Era abbastanza simpatico, ma nessuno avrebbe scelto di sedergli accanto perché aveva spesso i pidocchi in testa e l’abilità d’infestare chi gli stava vicino. Abitava dietro la chiesa e sotto la casa c’era un pollaio con tante galline accusate, forse ingiustamente, di esportare i pidocchi. Io c’avevo giocato spesso con lui e non m’era mai successo niente, cosicché il fatto non mi preoccupava più di tanto. Neanche la maestra aveva paura di lui ché gli veniva accanto di tanto in tanto ad assisterlo durante il lavoro di classe, senza mostrare alcun segno di apprensione. Nel banco alla mia destra sedevano Maria Leone che era altissima e molto bella e sua cugina Francesca. Alla sinistra di Felice, c’erano Rocco e Enzo. L’aula era abbastanza ampia e luminosa con finestroni lungo l’intera parete che si affacciava sul cortile dalla parte del mare lontano. Tra la porta e la cattedra c’era una lavagna nera girevole, montata su un’intelaiatura in legno. Dall’altra parte della cattedra, c’era un grande armadio usato come ripostiglio e dentro cui la maestra conservava il materiale scolastico, tipo gesso e cimose.

    Capitolo II

    Dalla scuola al bar

    Nei giorni che seguirono, la cagnara del primo mattino di scuola andò assuefacendosi come il rumore di un treno che s’allontana sempre più. Un ordine spontaneo aveva cominciato a regolare il nostro tempo nel cortile di terra battuta, prima del suono della campanella che annunciava l’inizio di ogni nuovo giorno di scuola. La calca selvaggia del primo giorno si era pian piano scissa in gruppi autonomi, autodisciplinati e per lo più di tutti ragazzi e tutte ragazze. Col passare del tempo, alcuni gruppi avevano cominciato a sciogliersi spontaneamente anticipando la chiamata della campanella, dirigendosi volontariamente verso l’entrata e agevolando così il movimento d’ognuno in modo meglio ordinato e civile. Quello spostamento più tranquillo, m’aveva consentito di osservare la composizione del corridoio, che si estendeva lunghissimo dall’entrata da una parte con i gabinetti sulla destra, ai tavoloni del refettorio dalla parte opposta. Tre aule a destra e tre a sinistra. La mia era sul lato destro accanto al refettorio, che era una novità. Nessuna scuola del centro del paese ne vantava uno. Io ero contentissimo della mensa perché serviva un brodino di pomodoro in cui era sciolto un tipo di formaggio con un gusto dolce che non riuscivo a identificare, ma che mi piaceva tantissimo. Mia mamma raramente faceva il brodino. E ogni volta che lo faceva, il nonno le poneva la stessa domanda sarcastica: Chi sta male oggi? Era luogo comune, tra gli anziani in particolare, che il brodino venisse considerato cibo per gli ammalati. Il mio nonno materno e la nonna condividevano la loro casa con la figlia Teresa, zia Teresa, delle frittelle buone, il marito Franco e mezza dozzina di figli, in dieci anni di matrimonio. Dopo cinque figlie, era finalmente arrivato il maschio, Paolo, a garanzia che avrebbe portato avanti il cognome Nardò. Dalle conversazioni dei grandi, avevo capito che la casa era abbastanza grande, ma siccome era stata disegnata male, c’era stato un eccessivo spreco di spazio che adesso con l’arrivo del sesto figlio avrebbe fatto tanto comodo a zia Teresa. Zio Franco, che aveva la mania di rompere e ricostruire, spesso senza beneficio, passava ore a studiare la situazione per trovare rimedio alla mancanza di spazio che continuava a restringersi attorno a loro. Ogni piano che gli era venuto in mente, era stato impietosamente bocciato da zia Teresa, che temeva tra l’altro, gli effetti nocivi della polvere sul neonato, una volta cominciato il processo di demolizione. Non si vedeva via d’uscita. Fu allora, che la povera nonna trovò la soluzione. Decise di morire. Il nonno venne accantonato nel primo stanzone subito dopo l’entrata con la stessa velocità e facilità che un ninnolo viene spostato da un mobile a un altro. Un tavolino e una sedia tra le due finestre ad angolo retto che modellavano la struttura del cortile aperto che saliva dalla strada principale e poi girava a destra sempre all’insù verso casa mia che lo bloccava al cancello d’entrata del mio cortile e lo costringeva a carambolare a sinistra verso la casa e i terreni di Peppi du zi’ Cicciu, zio di mio padre, lui ancora più stallone di zio Franco, avendone fatto ben undici di figli. Una piccola credenza contro il muro della scalinata, fiancheggiata da un baule dove il nonno conservava vecchi documenti, ricordini e risparmi della pensione di commerciante e del poco che Cosimo e Damiano, ultimi geniti, che avevano rilevato da lui la bottega alimentare e i vini, gli davano di tanto in tanto. Il letto con un comodinetto a lato dove teneva l’orinale per la notte dalla parete opposta, e un armadio senza specchio a tre metri dai piedi del letto. Per terra un semplice tappetino a fianco al letto, e un’altra sedia per appoggiare i vestiti prima di coricarsi. Era tutto quello che gli rimaneva di quella casa che un tempo era stata tutta sua. In effetti, non aveva bisogno d’altro. La zia gliela puliva e mamma gli preparava i pasti che lui consumava, da uomo alieno e introverso, da solo, seduto al tavolinetto, fissando la parete difronte.

    ___È bello il tuo quaderno, mi disse Maria, poco prima che la maestra cominciasse la classe. Quell’osservazione mi aveva reso tanto felice. Maria aveva gusti raffinati in tutto. Nel modo di vestire, di aggiustarsi i capelli, di parlare, di comportarsi, di interagire con i compagni e con i maestri. Era veramente svelta e simpatica e, di conseguenza, benvoluta da tutti.

    ___Grazie, dissi, un po’ impacciato, un po’ orgoglioso. Stavo per aggiungere che anche il suo era bello quando la maestra cominciò a spiegare. Ne fui felice perché mi evitò di apparire ipocrita dal momento che il suo quaderno era ordinario come tutti gli altri. Lavorammo diligentemente e in silenzio quasi tutta la mattinata e l’ora della refezione fu accolta con sorrisi di sollievo da tutti. Andai di corsa in bagno e al ritorno l’unico posto libero era accanto a Maria. Mi ci accomodai con piacere e Maria si scostò leggermente per darmi più spazio.

    ___Senti, Giuliano, dov’è che l’hai comprato? mi chiese risoluta Maria.

    ___Che cosa? risposi confuso.

    ___Il quaderno. Dove l’hai trovato?

    ___Non l’ho comprato in nessun posto. Me l’ha portato mio zio Pietro dall’America quest’estate, quand’era venuto in vacanza. Ti piace davvero?

    ___Sì, è proprio bello con quel ponte lunghissimo, sulla copertina liscia e luminosa, che si specchia nell’acqua sottostante. Esiste davvero quel ponte?

    ___ Sì, mio zio m’ha spiegato che si trova nella città di New York, negli Stati Uniti. Si chiama Verrazzano Bridge. Il nome è scritto in basso sull’angolo destro della copertina frontale. Lo zio mi aveva raccontato con tanto orgoglio che prendeva il nome da Giovanni da Verrazzano, un esploratore italiano.

    ___Ecco perché non sono riuscita a trovarlo in nessuna cartoleria, concluse Maria, finalmente soddisfatta d’aver scoperto la ragione della sua inutile ricerca.

    ___Maria, interruppe Francesca. Il brodino si raffredda.

    Sentivo la voce di Francesca senza vederla dal momento che Maria, decisamente più alta di me, mi bloccava la vista all’altezza della sua spalla.

    ___Non mi va più. Se lo vuoi, mangialo pure, io non l’ho nemmeno assaggiato.

    Nel frattempo, alcuni maestri s’erano avvicinati a Mimmo ed Enzo al tavolo vicino ché avevano cominciato a lanciare palline di molliche di pane nelle scodelline del brodino con immediate proteste delle vittime. Il maestro Pisacani che aveva la reputazione d’essere severissimo, aveva intimato ai suoi due studenti del quinto anno di seguirlo immediatamente nella loro aula. I due avevano subito obbedito con apprensione e si erano allontanati dietro il maestro. Michele e Paolo, ridacchiando sottovoce, mimavano, strofinandosi le ginocchia e le mani, gli effetti dei colpi di riga sul dorso delle mani e dei sassolini su cui si dovevano inginocchiare, la pena fisica che attendeva i loro due compagni. L’uso della riga come strumento di punizione era comune a quasi tutti i maestri, ma maestro Pisacani era considerato il boia per eccellenza, anche tra i suoi colleghi. È lui che aveva instaurato l’uso dei sassolini per terra su cui erano costretti a inginocchiarsi i sabotatori del suo sistema di disciplina. Godeva della pena fisica di coloro che cercavano di destabilizzare l’ordine che lui stabiliva e manteneva a tutti i costi in classe e per tutto l’edificio. C’erano anche gradi di punizione per i corruttori del suo sistema. Un’ infrazione minore significava tempo dietro la lavagna o faccia al muro in un angolo dell’aula. Per poi passare a cinque bacchettate sul palmo d’una mano, a dieci, e questa volta sul dorso, che era ovviamente molto più doloroso, per le infrazioni più serie. Quelle ritenute particolarmente gravi meritavano una combinazione di dieci bacchettate sulle nocche d’ogni mano e di inginocchiarsi conteporaneamente sui sassolini o ceci duri per una quindicina di minuti. A quel pensiero, guardai con riconoscenza la signora Gallo e ringraziai il Signore d’avermela data come insegnante, invece di Pisacani.

    All’uscita di scuola, Mimmo evidentemente aveva ben recuperato dopo le legnate subite in classe e si spintonava allegramente con i compagni, imitando il maestro, goffo nei movimenti da orangotango, nell’atto di batterlo con la riga e tutti a ridere a crepapelle continuando a spingersi verso il cancello dell’uscita. Fu là che Mimmo venne investito dallo sguardo folgorante del padre che lo fece traballare e perdere l’equilibrio come se il padre l’avesse in verità colpito con la sua Cinquecento. La punizione del padre sarebbe stata ancora più violenta perché più umiliante. Poteva scappare via, ma non lo fece. C’era in lui un senso di rassegnazione ai soprusi del padre, quasi di misterioso piacere. Prese gli schiaffi in faccia, sul collo e sulle braccia, che istintivamente facevano da scudo, e le pedate sul sedere con stoico coraggio. Non pianse, e incassò le legnate senza lamenti. Non provava ormai vergogna da scene come quella difronte ai suoi amici, compagni, e tutto il resto della scolaresca. Il padre ottusamente cercava sempre un pubblico per dare, nel suo ragionamento, maggior valore al suo tentativo di educare il figlio. Mimmo oramai, cercava solo di capire mentre le prendeva di santa ragione, come cazzo facesse il padre a scoprire le sue magagne quasi in tempo reale. Il padre avrebbe ovviamente voluto che il figlio, in lacrime, gli chiedesse perdono e di non batterlo più. Ma, Mimmo non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di fargli credere che le batoste e l’umiliazione davanti a tutti avessero l’effetto da lui desiderato. Odiava il padre. Non per le botte e le male figure. L’odiava perché anche da così giovane capiva benissimo che lo scopo delle legnate non era di riformarlo e farlo migliorare. No, per niente. Al padre interessava solo dare prova ai suoi amici, ottusi come lui, e indirettamente ai maestri che lui era in controllo e che a casa sua comandava lui e solo lui. A quel punto, don Ciccio, che stava facendo ritorno a casa e aveva assistito alla scena finale, si era avvicinato a Vici Mammella e gli aveva afferrato il braccio con calma risoluta tirandolo in disparte e dai suoi gesti sembrava chiaro che lo stesse rimproverando per quella scenata umiliante e magari anche per tutte le altre di cui aveva sentito parlare senza esserne presente. Vici Mammella, ancora più concitato ché magari s’aspettava elogi dal capitano, rispose: ___Don Ciccio, con tutto il rispetto, voi non sapete quello che mi sta facendo passare questo pezzo di delinquente. È inutile cercare di ragionare con quel crapone mascalzone. Risponde solo alle botte e di quelle ne ho tante in riserva finché non riesco a raddrizzarlo.

    __Non mi sembra che i vostri metodi stiano funzionando come vi aspettate. Nella mia modesta opinione, non mi sembra che i risultati ottenuti finora siano per niente incoraggianti, disse don Ciccio con una punta di disprezzo voluto.

    __Don Ciccio, quell’albero, riferendosi al figlio, l’ho piantato io e solo io so quello che serve a farlo crescere dritto e forte. Dunque, voi pensate alla vostra famiglia che alla mia ci penso io. La vostra situazione non è la mia. Quello che funziona con la vostra famiglia non funziona con la mia. Quello è testardo come un mulo e quindi l’unico modo per ragionarci sono le legnate. Capisco le vostre buone intenzioni, ma interessatevi ai fatti vostri che i miei me li sbrigo meglio io.

    Don Ciccio, concitato dall’ ottusa reazione dell’uomo, stava per continuare la sua missione riabilitativa quando Tommaso, che era rimasto in strada, decise di intervenire e avvicinandosi al padre, lo prese gentilmente per un braccio e con calma gli suggerì di lasciar perdere. Il Capitano dapprima esitò e poi decise di seguire il suggerimento del figlio. Mascalzone farabutto, mormorò allontanandosi.

    Il negozio di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1