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Corde spezzate
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E-book552 pagine8 ore

Corde spezzate

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Info su questo ebook

'Corde spezzate' è il secondo volume della serie 'Nel deserto delle passioni'. In queste pagine proseguono le vicende dei vari protagonisti conosciuti nel primo 'Parole di pietra' e prendono vita nuovi personaggi, alcuni nati nelle famiglie già incontrate, insieme a molti altri incontrati nella loro vita, così come accade a ciascuno di noi. La storia segue un percorso cronologico e, da fine '800, si giunge alla seconda decade del '900' attraverso gli eventi storici susseguitisi in Italia ed in Europa dalle colonie alla 'Belle époque', dalla prima guerra mondiale alla nascita del fascismo.
LinguaItaliano
Data di uscita8 lug 2022
ISBN9791221407754
Corde spezzate

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    Anteprima del libro

    Corde spezzate - Franco Piri Focardi

    Annetta a servizio (settembre 1907)

    Annetta si ritrovò a Bologna. Camminava con la testa per aria, la bocca aperta e gli occhi rivolti verso la lunga striscia di cielo azzurro delimitata da un appiccicume di palazzi alti e scuri tanto somiglianti alle rupi della gola che il fosso s’era scavato su nelle montagne, dove lei, libera, aveva saltellato alla ricerca delle pietre lisce e colorate; mirava sbalordita gli archi tutti uguali e le centinaia di colonne di pietra che, alle volte, le parevano i suoi alberi nel bosco quando si mettevano in fila per aprirle un corridoio illimitato; e guardava meravigliata le decine di persone che le passavano accanto frettolose, addirittura sfiorandola, ma senza rispondere, se non in rari casi, al suo sorriso felice, al suo ‘Buongiorno!’ entusiasta.

    Accompagnata da una donna di mezza età, che l’aveva presa in consegna dal sindaco del paese, portava da una parte un paniere pieno di funghi, frutti di bosco e un barattolo di marmellata che la mamma Angiola aveva preparato, nonostante la penuria della stagione, come dono per la Signora dove avrebbe preso servizio, e, dall’altra, una borsa di paglia intrecciata con tutto il suo guardaroba: un piccolo corpetto ricamato, ricordo della nonna Margaretta, e un grosso maglione di lana fatto a mano dalla mamma… il resto lo aveva addosso!

    Si fermarono davanti ad un portone immenso aperto su una galleria che conduceva ad una corte interna; al fondo, ritagliato da un arco, risplendeva il verde rigoglioso di un giardino. Imboccarono lo scalone di marmo bianco e lucido che saliva e girava, saliva e girava su se stesso, e dall’alto pioveva una luce colorata come in certi angoli della foresta dove lei amava distendersi per godere in silenzio la cascata di brillanti che il sole lasciava cadere fra le foglie proprio sul suo corpo.

    La donna che aprì la porta, la governante, avrebbe voluto squadrare Annetta dall’alto in basso, ma erano alte uguali! E, con disappunto, storse il naso, quando lei le consegnò con entusiasmo il suo bel paniere. Quella, con la faccia disgustata e una smorfia di ribrezzo, disse: Lascialo lì indicando il pavimento. Annetta non ci pensò nemmeno, lei voleva consegnare nelle mani della Signora il tesoro di cibarie che sua mamma aveva messo insieme con tanta fatica, addirittura togliendosele di bocca! Entrò, tenendo ben stretto il paniere, mentre la Governante congedava la donna domandandole a mezza voce:

    Ma ‘questa qui’ da dove viene!? Eeeh! sospirò l’accompagnatrice, dai monti, e credo sia la prima volta che vede una città. Oh Santa Vergine Beata e Immacolata. Chissà quanto tempo ci vorrà per renderla almeno un po’ civile!

    La lasciò entrare, facendole scorrere addosso una rapida occhiata di sufficienza, e la precedette, attraverso il lungo corridoio coperto da tappeti colorati, facendole cenno di non calpestarli con le sue scarpacce, cosa che Annetta non si sarebbe nemmeno sognata di fare, infatti camminava saltando qua e là come un uccellino felice e curioso. Giunte in cucina le presentò la cuoca, una donna grassottella con due occhi vispi ed un bellissimo sorriso.

    Lei è Clara, si occupa della cucina e delle provviste, tu sarai la sua aiutante e dovrai obbedire a tutti i suoi ordini. Se vuoi puoi lasciare codesto paniere a lei. Annetta glielo consegnò volentieri, quel sorriso le era piaciuto subito, la cuoca accettò e apprezzò esclamando: Accidenti, questi sì che sono funghi! Senti come sono saldi, e che profumo, ne faremo un sughetto da leccarci i baffi.

    La Governante tagliò netta quel cici. Ora vieni con me disse perentoria spingendola verso il bagno delle domestiche, sfiorandola delicatamente con la punta della mano tesa, quasi temesse di rimanere contaminata. Annetta, aperta la porta, rimase incredula davanti a tanta bellezza di marmi, specchi e rubinetti lucidi, racchiusa in una stanza grande quanto la sua casa; c’era una fila di armadi oltre a degli oggetti strani ed incomprensibili come le tazze di ceramica, una di queste coperta con un legno, e poi uno specchio grande che la rifletteva intera, dalla testa ai piedi, proprio come il laghetto degli scoiattoli quando la superficie era calma, rise... si aspettava di vedere i suoi compagni di gioco sbucare dalle tazze, gocciolare dai rubinetti, saltar fuori dallo specchio, cinguettare dal vetro della finestra!

    Adesso spogliati, hai bisogno di un bel bagno. Così dicendo la Governante girò il rubinetto sulla vasca e l’acqua scese scrosciando con un vapore intenso che annebbiò la stanza. In un attimo Annetta fu completamente nuda. Era magra con una pelle olivastra liscia come la seta, ed un seno sodo e grazioso. Si immerse nella vasca come quando si tuffava nel laghetto, battendo le mani e schizzando dappertutto.

    Fai piano ragazzina… che dopo dovrai lavare ed asciugare pareti e pavimento! le intimò seria la Governante, ma trattenendo il sorriso che quella gioiosa libertà le aveva provocato. Aprì un armadio, prese gli asciugamani, una vestaglia e la biancheria.

    Questa dovrebbe essere la tua misura le disse passandole gli strani cenci bianchi e ricamati. Annetta non era certo abituata ad indossare la biancheria! il massimo che possedeva era un paio di brache del corredo della mamma, che, dopo aver compiuto otto anni, le aveva adattato, prima restringendole e poi via via allargandole... tantomeno aveva indossato delle stoffe morbide e leggere come quelle, con nastrini colorati e fiocchetti… era così strana la sensazione sulla pelle, una specie di solletico sulla pancia e tra le cosce... ad ogni passo si alzava il vestito, e si guardava le mutande ed i nastri che ciondolavano, e rideva.

    Raggiunta la cucina, Clara la mise a pulire le verdure; per lei, con l’acqua che scorreva da un rubinetto sopra al lavabo, era una specie di gioco! E mentre erano intente a sfaccendare, la cuoca le insegnava le regole della casa, la informava sulle abitudini dei Signori e le spiegava come avrebbe dovuto comportarsi con loro dal momento delle presentazioni; ma per ora non c’era pericolo, la Governante aveva disposto per Annetta un lungo periodo di addestramento claustrale.

    Dalla cucina una scala a chiocciola portava nel sottotetto dove si trovavano le camere delle domestiche. Una stanza piccola, con il soffitto inclinato ed una grande finestra. Un letto, un comodino, un armadio. Quando Clara le disse che quella era tutta sua, Annetta non credeva ai suoi orecchi: mai aveva avuto tanto! Le presentò Esterina che stava uscendo dalla camera, una ragazzetta magrolina e timida che a malapena rispose al saluto gioioso di Annetta, abbassando istintivamente la testa. Clara ruppe subito il momentaneo imbarazzo: Forza mie belle ragazze, ora andiamo al lavoro, non ci consumiamo in chiacchiere, avrete tutto il tempo per fare amicizia.

    La prima notte da sola, Annetta non chiuse occhio, pensava alla sua mamma; al giaciglio di paglia scricchiolante e profumata in cui dormivano tutti assieme abbracciati quando il babbo era via per il lavoro; alla sua casa piccola e stretta tra gli alberi e la montagna; agli animali che accarezzava chiamandoli per nome e governava prima di andare a letto; ai richiami e ai rumori notturni che le facevano compagnia. Qui tutto pareva lontano, silenzioso, ovattato. Si girò e rigirò chiusa nella trappola della nostalgia. Al mattino, però, dopo essere andata in bagno si rivestì di tutto punto come le altre ragazze, e corse giù in cucina. Clara, che era già al lavoro, la sgridò con affetto mentre le aggiustava i bottoni chiusi male, il colletto col becco rigirato, il grembiule stropicciato, i fiocchetti delle mutande sciolti e, predicandole la sua litania di regole, le rifece per bene la treccia.

    Oh, ecco fatto! disse Clara soddisfatta, sei bella, ma ora scaccia quelle ombre che ti arricciano il labbro e fai un bel sorriso.

    Annetta era sveglia e intelligente, grazie a Clara imparò presto a gestire i suoi modi, il suo aspetto, i ritmi della cucina e le regole snocciolate di continuo come preghiere. La Governante quasi non la riconobbe quando, alcuni giorni dopo, aprendo la porta se la trovò davanti: era bella, luminosa ed il suo sorriso un invito al buonumore. Decise che era venuto il momento di presentarla ai Signori.

    Va bene così! dichiarò con enfasi la Governante aggiustandole una crestina bianca sui capelli e lisciando le bretelline del grembiule. E, dopo aver bussato delicatamente, entrarono nel salotto dove i coniugi Lanfranc, comodamente seduti in poltrona, leggevano il giornale.

    Vi presento Annetta, la nuova aiutante di Clara, disse accompagnandola al centro della stanza.

    Annetta fece un inchino, come le avevano insegnato, ma la crestina le scivolò dal capo e dovette improvvisare una piroetta per non farla cadere sul pavimento. I Signori Lanfranc risero per la grazia con cui era riuscita a salvarsi dall’impaccio. Invece la Governante, con tutti i muscoli della faccia tirati per trattenere il grido di rabbia, l’avrebbe incenerita all’istante per la brutta figura che le stava facendo fare.

    Brava! disse Madame e proseguì dolcemente, come sei bella! Quanti anni hai? Sedici! rispose con un sorriso che illuminò l’aria troppo seria e compassata di quel salotto. Oooh... che bell’età! sospirò Madame Lanfranc.

    Il Signor Lanfranc aveva posato il giornale sulle gambe e continuava a guardare quel sorriso con uno stupore incantato; allora, puntualizzando e facendo suonare le sue parole come un piccolo rimprovero, chiese: Ma come mai non ci aveva ancora mostrato questo fiore?

    La Governante, quasi fosse stata frustata da un colpo improvviso di vento, si schiarì la voce, e avvicinandosi quel tanto da non disturbare, rispose: Signore! Quando è arrivata sembrava una montanara selvatica ed ho dovuto lavorare non poco per renderla presentabile. Brava! Se così è, ha fatto bene, posso dirLe che il risultato La compensa ampiamente dell’impegno profuso! concluse il Signor Lanfranc facendo fare la ruota e alzare la cresta alla Governante.

    Fu sufficiente quel primo incontro perché Madame Lanfranc, una donna molto bella, ma che si muoveva avvolta in una nuvola di mestizia, un fondo di grigio polveroso che spengeva gli splendidi colori di cui si vestiva, la richiedesse come cameriera personale, e, forse, espresse quel desiderio nella speranza di essere contagiata dal brio giovanile e dalla leggerezza adolescente.

    Ma l’impresa era disperata se non impossibile!

    Luiselle, unica figlia dei coniugi Lanfranc, al momento dell’arrivo di Annetta non era presente in casa. La giovane amava viaggiare, e quasi ogni giorno il postino consegnava una cartolina illustrata con i saluti, e dei brevi resoconti riguardo il luogo, i fatti, la giornata... di tale tenore: ‘il sole è fortissimo, mi trafigge’; ‘due ore seduta. ora basta!’; ‘sulla tunica indossa una collana di pietre... pessimo gusto’; ‘incapaci!... troppo zucchero nel caffè’; ‘una schiuma bianca ribolle e segue il piroscafo’; ‘colonne e rovine, che polvere, che caos;’ ‘suonano i tamburi, ho mal di testa’; ‘l’uomo del tram, corre sui binari’; messaggi che sembravano destinati a se stessa più che ai genitori, scritti con una bella grafia inclinata a formare dei ricami sullo spazio bianco.

    Giungevano da città lontane che Annetta aveva solo sentito nominare dal suo babbo nelle sere in cui la prendeva in collo seduto al canto del fuoco, o in estate, sul praticello davanti a casa, e le raccontava dei suoi viaggi in mare: Marsiglia, Barcellona, Londra, Atene, Alessandria, Massaua, Mogadiscio, Montevideo, Boston... ognuno di questi nomi evocava un ricordo vivo e presente nella sua memoria: la montagna di zanne d’elefante (animale assolutamente misterioso) in attesa del carico; l’ufficiale inglese che voleva il tavolo con la tovaglia sul ponte per sorseggiare il tè mentre un vento terribile scaraventava tutto in mare; le luci del porto avvistate come un’ancora di salvezza dopo una tempesta; il profumo troppo intenso delle balle di spezie sotto il sole del porto; il comandante cattivo che aveva frustato un povero mozzo e il suo babbo era intervenuto in sua difesa; i colori accesi dell’abito di una donna nera discesa a Mogadiscio... Eppure lei non aveva mai visto quelle città, e neppure il mare e le navi, ma quei nomi avevano il potere di sciogliere la sua fantasia e farla fluttuare in un sogno continuo. quei momenti si abbandonava alle belle sensazioni.

    C’era una cartolina, in particolare, fra le tante infilate in bell’ordine nel portacarte di legno sul secrétaire di Madame, che avrebbe voluto tenere sempre fra le mani, in quel rettangolo di cartone c’era la soluzione di un rebus, lo scioglimento di un segreto, per la prima volta vedeva ciò che fino ad allora erano state solo costruzioni fantastiche della sua fervida immaginazione: la nave ed il mare; nelle parole del babbo, nave e mare, insieme al fuoco (ma quello lo conosceva bene), erano sempre presenti e lei non riusciva a figurarsele nonostante la ricchezza di minuzie che il babbo metteva nei suoi racconti, delle similitudini che lui cercava in quei boschi per farle capire cose che le parole da sole non potevano spiegare. Quella, invece, era una cartolina a colori con rappresentata una grande nave bianca e nera, colma di alberi, fili, bandiere, finestrini, bocche e scialuppe, in mezzo alle onde blu del mare con il fumo grigio di due camini disperso in un cielo di nubi rosate; adesso sapeva... quella era una nave! quello era il mare!

    Madame, presa dall’emozione per l’arrivo della nuova cartolina, dimenticava tutto e sedendosi alla scrivania leggeva volentieri ad Annetta, a voce alta, i commenti scritti dalla figlia... lei ascoltava con piacere il suono soave della lettura fatta da una madre innamorata della figlia, ma, ahinoi! le leggeva in francese... per questo Annetta rimaneva col bel viso interrogativo e gli occhi grandi e curiosi, allora Madame ricordava e, scusandosi, glieli traduceva.

    Da due mesi Luiselle era in viaggio a bordo di un piroscafo, stava facendo il giro del Mediterraneo. Le cartoline che giungevano in quei giorni illustravano piccoli porti e grandi rovine con colonnati possenti, bazar, piramidi, cammelli, beduini coperti fino alla testa. Annetta sognava... guardava le immagini e viaggiava; si sentiva una compagna d’avventura di Luiselle, anche se non l’aveva ancora incontrata di persona. L’aveva ammirata solo nel bellissimo quadro, a figura intera, appeso nella camera da letto, dove lei entrava una volta alla settimana insieme a Gigliola, l’altra domestica, per aprire le finestre, smuovere il letto e spolverare.

    Nel grande quadro che domina la stanza, Luiselle indossa un abito chiaro, a veli soprammessi, che modella la figura alta e slanciata; il volto, leggermente inclinato, fa risaltare gli occhi chiarissimi che sembrano guardare lontano. Annetta, ogni volta che entrava, doveva fermarsi ad osservare quegli occhi, non riusciva a capire dove stessero guardando, si era spostata in tutte le posizioni possibili ma non aveva ancora risolto quel piccolo mistero. Ed il sorriso... perché a prima vista sembra un sorriso, in realtà copre una piccola smorfia, una piega del labbro che la pennellata ha riverberato sullo zigomo, come una malinconia o l’ombra di un pensiero incompleto. Il quadro pare dipinto in campagna, all’aria aperta; in primo piano, un piede nudo spunta dall’orlo del vestito, poggia leggero sull’erba; il movimento dei capelli, lunghi e neri, sotto il largo cappello di paglia che lei trattiene con la mano, dà la sensazione di un vento leggero.

    Annetta si era innamorata di quel quadro, della bella figura rappresentata ed ormai attendeva trepida, quasi fosse un appuntamento, il giorno delle pulizie. E, mentre era intenta a guardarlo, si chiedeva... ‘chissà se un giorno potremo essere amiche?’.

    Però, nell’attesa di quel giorno, lei voleva sapere com’era realmente Luiselle, se l’immagine del quadro corrispondeva, com’era la ragazza di carattere ma, stranamente, l’argomento era tabù. Nessuno diceva, lei domandava e gli altri tacevano; appena cercava di entrare nel discorso sia Gigliola che Esterina svicolavano via con scuse banali; ma anche Clara, con la quale, dopo aver familiarizzato, sentendosi a suo agio chiedeva spiegazioni pure su temi delicati ed intimi, e confidava le gelosie e le piccole angherie che le altre domestiche le facevano, anche Clara sull’argomento Luiselle manteneva un riserbo assoluto. Solo una volta, incalzata da una sfilza di domande, le rispose spazientita: È inutile che tu continui con questo ‘dimmi, dimmi, dimmi’! Siamo tutte legate ad una promessa che ci ha richiesto, non solo Madame, ma Luiselle stessa. Saprai com’è il giorno che la incontrerai. Più di così non posso dirti. Ora, mettiti l’animo in pace, e torna alle tue faccende!

    Più che ‘l’animo in pace’ la tirata di Clara le aveva acceso una curiosità irrefrenabile che la portava a cogliere parole e frasi dette sottovoce per ricamare possibili soluzioni intorno al mistero.

    Un mattino, sistemando insieme a Gigliola il cambio dei vestiti in uno dei due grandi armadi del guardaroba, il bastone che reggeva le grucce cadde e tutti gli abiti scivolarono giù su di lei. Gigliola, rassicurandola con queste parole: Oh non è niente, è tutta colpa di quel bastone che s’incastra male, ed è già successo! l’aiutò a raccoglierli e appoggiarli sul tavolo. Annetta, cercando di risistemare il bastone nel suo alloggio, si accorse di un pannello del fondo staccato, nel tentativo di riposizionarlo, vide spuntare il retro di una grande tela incorniciata. Incuriosita da quella stranezza, spostò il pannello... stava per girare il quadro, quando la mano ferma di Gigliola la bloccò.

    No! le disse, è meglio che tu non lo guardi. E, còlta da una fretta improvvisa, spinse al suo posto il pannello, rimise il bastone e cominciò a riporre i vestiti.

    Ma perché non posso? chiese stupita dalla subitanea reazione. Non lo so rispose Gigliola, Madame non vuole, dice che è un quadro brutto e che fa male... per questa ragione deve stare nascosto! Ma tu lo hai visto? Nooo! e non lo vorrei mai vedere... se fa paura a Madame, figurati a me!?! Sistemò gli ultimi vestiti in bell’ordine e con un sospiro, chiudendo gli occhi soddisfatta, girò la chiave dell’armadio.

    Allora potrebbe buttarlo via. Così non lo vedrebbe più nessuno ricominciò Annetta mentre uscivano nel corridoio. No! questo non lo può fare, perché il quadro è di Luiselle... e so che prima, io ancora non lavoravo qui, lei lo teneva appeso in camera, Madame si arrabbiava... una volta, mi hanno raccontato, le disse piangendo... ‘è brutto, mi fa tanto male! andiamo insieme in giardino e bruciamolo’, a quella proposta Luiselle rispose... ‘togliti codesta idea dalla testa, il quadro è mio, è parte di me, se proprio non lo sopporti possiamo nasconderlo’ e così fecero!

    Tutti quei discorsi intorno al quadro, evidentemente legato alla figura di Luiselle ed a tutti i misteri che la circondavano, invece che farla desistere ridestarono la sua curiosità. Trascorse buona parte della notte a ideare dei piani per poter vedere la brutta immagine nascosta. Nel compiere quell’analisi si rese conto che l’impresa da sola non era facile; il vero problema era trovare il tempo sufficiente per togliere e rimettere tutti i vestiti senza essere scoperta dalle altre domestiche o peggio dalla Governante. Di giorno era impossibile, conosceva ormai il continuo via vai nelle stanze. Quindi bisognava agire di notte! Un primo tentativo lo fece per scoprire cosa accadeva nelle ore notturne, visto che fino a quel momento lei aveva dormito sempre profondamente.

    La governante e la cuoca erano le ultime ad andare a letto e, prima, percorrevano tutte le stanze saggiando la chiusura delle finestre, del portone, spengendo le luci e gli eventuali candelieri rimasti accesi. A quel punto calava il silenzio. Per ore non si udiva alcun rumore; solo vicino alle camere il ronfare più o meno forte dei dormienti.

    La notte seguente attese il silenzio e, armata di un candeliere, scese nel guardaroba. Con rapidità e determinazione vuotò l’armadio, spostò il pannello e sfilò il quadro, lo girò verso la luce e, si accasciò a terra! Era davvero terribile. Chi aveva potuto dipingere una tela siffatta e quale spinta emotiva aveva sostenuto il pittore durante la posa? Era Luiselle, la stessa del bel dipinto in piedi o, alla luce di quella pittura, in piede! Entrambi i quadri, riportavano in basso, la sigla A.D.E. quindi, anche se profondamente diversi, erano stati dipinti dallo stesso pittore. Ma qui, il centro della tela è dominato da una faccia rossa e sbalordita, quasi sorpresa nel pieno svolgimento di un baccanale, con la bocca sguaiatamente spalancata, i capelli corvini, sciolti, che scendono come una cascata su quello che pare un letto coperto da un telo di damasco; gli occhi cerchiati, come per notti insonni, sprofondano in un gorgo liquido nel quale è difficile non essere risucchiati! Qui, Luiselle non ha i morbidi teli soprammessi, ma indossa un abito nero, cangiante di riflessi, bello ma mezzo sbottonato, da cui esce un seno perfetto con il capezzolo acceso da una pennellata di rosa, un seno che lei offre con la mano, che porge come a dire... ‘lo vedi!?... la vedi questa carne palpitante?... io sono una donna che desidera essere amata!’; ha il busto buttato all’indietro e dalle sottane alzate spunta, come una trave a bucare gli occhi di chi si trova a guardare il quadro, il moncone di una gamba tagliata, esposto in tutta la sua crudezza, con le cicatrici in primo piano!; l’intimo ciuffo di peli neri, che compare fra il candore delle cosce e le stoffe in movimento, resta dietro, quasi un ultimo appello al desiderio stravolto.

    Annetta era sbigottita! Schiacciata da un marasma di pensieri che non trovavano fine. Era rimasta in ginocchio davanti al quadro illuminato dalla fiamma del candeliere e con le dita lo toccava quasi fosse una cosa irreale. Era quello il segreto taciuto? L’innominato tabù! Ma, sebbene l’amputazione fosse una cosa atroce e terribile, specie in una giovinetta così bella come Luiselle, lei non aveva pianto o gridato come spesso accadeva a quella vista.

    Lei, su in montagna, era amica del Cordolo, che pur privo di una gamba e l’animo saturo di veleno, viveva da tanti anni del suo lavoro, trascinandosi qui e là con un bastone. Inoltre aveva toccato con mano il dramma di un’amputazione.

    Annetta era cresciuta nei boschi dove i bracconieri si aggiravano pronti a colpire, e quando era ancora piccola, suo padre aveva portato a casa un cerbiatto sanguinante, salvato da una tagliola, al quale, col suo aiuto, dovette segare la zampa, e, nonostante la passione, il dolore ed i battiti del cuore a mille, lo aveva aiutato. No! Il suo sbigottimento maggiore ruotava su due cardini ben distinti: uno... il fatto di essere venuta a conoscenza della menomazione di Luiselle attraverso un quadro, e due... perché dipingere un quadro siffatto?...

    Rientrata nella camera, tirò su una gamba, tenendola stretta alla coscia con la mano, come faceva nei giochi da bambina, e in tal guisa, a zoppino, attraversò tutta la stanza. Si rasserenò un poco.

    Al mattino, aprendo le tende nella camera di Madame e dandole il suo ‘Buongiorno Signora’ non riuscì ad evitare di scrutare il suo bel viso alla ricerca di una risposta. C’era! ma solo per chi sapeva e comprendeva il dramma... stava ben nascosta dietro il velo di tristezza sorridente, e affogata negli occhi mesti... era una voce sottile, proveniva da dentro e raccontava di continuo a chi sapeva ascoltare quei tragici momenti...

    L’incidente (aprile 1900)

    Il professor Raggi si prese immediatamente carico del dramma. Ordinò l’apertura della sala operatoria ed eseguì personalmente l’operazione. Volle con sé i migliori medici e infermieri. Operò con determinazione cercando di contenere i danni. Purtroppo non fu possibile evitare l’amputazione della gamba sopra il ginocchio, la rotula era stritolata, la tibia e il perone spezzati in più punti, infine il rischio di setticemia era altissimo.

    Luiselle era andata dalla sua amica Penelope per trascorre un pomeriggio di svago nel giardino della villa su nella collina. Le due ragazzine, adocchiato un gruppetto di giovanotti in tuta sportiva che passava di corsa lungo il viale, si rincorsero a filo del muro di cinta ridendo e schiamazzando per farsi notare. Luiselle, non contenta del risultato, per mettersi meglio in mostra e attirare la loro attenzione, infilò il piede sulla traversa del grande cancello di ferro e con le mani alle sbarre si tirò su, da quella posizione bene in vista cominciò a dondolarsi eccitata, a salutare con la mano aperta.

    Nooo... ferma! non devi arrampicarti! le gridò Penelope impaurita, ricordando le raccomandazioni del padre riguardo ai lavori in corso al cancello, ci sono i muratori a sistemarlo, è pericoloso, scendi!

    Ma lei non poteva darle ascolto era troppo eccitata dai ragazzi che adesso l’avevano notata, la salutavano con la mano e le sorridevano. Fu un attimo, ed il cancello cadde giù. Luiselle riuscì a divincolarsi con la parte superiore del corpo prima dello schianto a terra, ma la gamba sinistra era rimasta schiacciata.

    I due muratori, allarmati dal fracasso e dalle grida, mollarono la conca che Donna Silvia, la madre di Penelope, aveva chiesto di spostare da un’aiuola per correre in soccorso e verificare l’accaduto. Tremanti per le conseguenze che quell’incidente poteva aver provocato, sollevarono il pesante cancello liberando la ragazzina svenuta.

    Donna Silvia, tutta impegnata a seguire il trasloco dell’imponente conca, aveva assistito inerme alla tragedia. La poveretta si accasciò a terra lanciando uno strillo che fece uscire di corsa il marito Edgardo, ex ufficiale della marina militare con una grande esperienza alle spalle; egli si rese immediatamente conto della gravità della ferita, non si perse d’animo e con la cinghia sfilata dai suoi pantaloni strizzò la coscia sanguinante di Luiselle. Non c’era tempo da perdere!

    La porto io disse uno dei muratori, se taglio per i campi in dieci minuti sono al Rizzoli! Edgardo approvò la proposta e avvolse con cura la gamba stritolata in un telo. Il muratore prese in braccio la ragazzina e stando attento a non farla cadere, si lanciò a passo veloce attraverso campi, balzi e giardini. Gli altri lo seguirono e davvero in poco tempo raggiunsero l’ospedale.

    Gli infermieri, constatata la gravità delle ferite, avevano chiamato il medico di turno, il quale, parlando di Luiselle con Edgardo, aveva deciso di interpellare subito il primario, amico della famiglia Lanfranc.

    Luiselle rimase molti giorni tra la vita e la morte. La grossa emorragia durante l’operazione, seguita dall’infezione con la febbre alta, alla quale si aggiunse l’impossibilità di nutrirla, ridussero il suo corpo ad uno scheletro. Non parlava, delirava e si lamentava nel dormiveglia.

    Madame Vittoria Lanfranc, la nobile signora che frequentava le feste e i salotti, più per dovere che per piacere, si era chiusa in un dolore ancestrale. Jean-Louis, il marito, passava due volte al giorno per sostenerla e ricevere notizie. Lei, invece, non si staccava mai dal suo capezzale. Stava immobile, in piedi, e si aggrappava con tutta se stessa ad ogni pensiero che svelasse anche solo una briciola del futuro della sua bambina, ma in tutte quelle sue riflessioni Luiselle le appariva ancora spezzata, sanguinante e sofferente... ‘che importa!’ si diceva scuotendo via le brutte immagini ‘basta che viva, io non chiedo altro! d’ora in poi le starò sempre a fianco, sarò la sua gamba, il suo bastone, la sua guida, farò tutto quello di cui ha bisogno!’. Il pensiero della morte della sua bambina, che a volte le squarciava la mente con lampi di cecità, era un dolore così acuto che la stroncava, abbattendo le sue difese e costringendola all’angoscia per ore.

    Lei l’aveva amata fin dal concepimento, fin da quel primo segno percepito nella sua pancia e sentito come un miracolo; poi, il tempo era svanito in un attimo, era cresciuta, si era distaccata, la vedeva piegata sui libri a studiare senza più chiedere il suo aiuto, prendere decisioni, rendersi autonoma, era felice lo stesso perché desiderava il massimo per sua figlia... ed oggi aveva di nuovo bisogno di lei, sentiva di amarla al di là di ogni immaginazione.

    Vittoria e suo marito erano soli in quel mare in burrasca a governare la barca dove giaceva la figlia ferita ed ancora priva di sensi. Intorno a loro trionfava l’ipocrisia, mentre davanti tutti col viso falsamente triste a belare... ‘povera figlia, speriamo ce la faccia’, ma poi, appena girato l’angolo, col viso schifato vomitavano le vere parole... ‘speriamo muoia presto, come si fa a stare in società senza una gamba, sarebbe solo una disgraziata compatita dalle altre ragazze!’. Vittoria era troppo intelligente per non capire il senso di quelle visite di cortesia, e ci passava sopra, ciò che lei davvero desiderava era al sicuro, protetto dentro al suo cuore.

    Nell’arido deserto sociale scoprì, inaspettatamente, una vera alleata nella povera e strana Adelaide: la sorellina a cui aveva fatto da mamma, bella, stravagante, straordinariamente intelligente, una pittrice di talento, un poco folle e un tantinello dissociata. Era, quello, un disturbo manifestato già in tenera età con momenti di intensa euforia e iperattività alternati ad alcuni di un profondo sconforto tremebondo; Vittoria era stata vigile durante le crisi di eccitazione, attenta alla sua incolumità, e materna nelle fasi calanti; starle accanto, dopo una crisi, era come volare sul mondo, attraversarlo pei varchi dell’esistente e scoprire l’infinito in uno sguardo scambiato con un sorriso indecifrabile, incrociare correnti luminose e posarsi con le ali chiuse in un breve battito sul petalo di un fiorellino minuscolo che lei sola poteva notare in mezzo al prato; ed era straordinario ascoltare le semplici e acute osservazioni sui flussi di energia colorata, invisibili ai più, che lei vedeva scorrere fra le piante.

    Adelaide piombò nell’ospedale, in soccorso della sorella e dell’adorata nipote, come il frullo di un turbine tempestando di domande, fin dalla portineria e su su per le scale chiunque incontrasse: inservienti, dottori, suore, infermieri, un ciclone estivo infilato nel suo tipico guardaroba esotico ed appariscente, piuma sulla capigliatura, veli trasparenti sovrammessi, grandi collane colorate, valigiona.

    Il suo caloroso affetto e la sua compartecipazione al dolore riaccesero l’animo di Vittoria. I suoi lunghi ed intensi abbracci, i baci e le carezze, resero l’attesa meno triste. E poi quella mano vibrante sulla stessa nota di speranza, che ora poteva stringere serenamente!

    La febbre passò e l’organismo di Luiselle riprese ad assimilare; in breve tornò il colorito, la muscolatura si riattivò, e le cicatrici si rimarginarono... almeno quelle fisiche! Durante quel periodo era rimasta in uno stato di incoscienza, praticamente separata dalla realtà della sua condizione; la febbre, la morfina, l’indebolimento, l’avevano sigillata in una bolla, un vuoto sospeso di funzioni dove l’esteriorità non possedeva alcun valore. La rottura della bolla ebbe l’effetto di una bomba, e mentre il corpo guariva, la mente principiò a vacillare.

    L’urlo straziante attraversò l’ospedale come una lancia affilata scagliata da un guerriero impazzito. Luiselle aveva scoperto il moncone ricucito e dolorante.

    Non è vero! Nooo! non può essere vero... Mamma! Mammaaa! dimmi che è un incubo, che è un brutto sogno, che adesso mi sveglio!... Mamma dimmelo!... dimmelo... piangeva con dei singhiozzi che le sconquassavano il corpo rifinito. Poi un improvviso moto di rabbia le contrasse tutti i muscoli, ed i lineamenti, che nonostante le sofferenze erano rimasti dolci, s’indurirono, la pelle s’irrigidì similmente ad un cuoio lasciato al sole, ogni traccia di lacrime scomparve, quasi non fosse stata lei quella che aveva pianto fino a poco prima, e gli occhi prosciugati divennero due cerchi di fuoco: il suo visino trasformato in una maschera spettrale!

    Voglio morire! gridò. Un solo grido alto, di una vertigine cupa, scaraventato sui presenti con tutto il fiato che aveva in corpo. Si era alzata sul busto, le mani piantate sul letto per sorreggersi e fissava il mondo come un terrificante Dio di pietra sopravvissuto all’esplosione di un vulcano!

    A La Costa – fine 800

    Matilde si alzava a malapena, compiva ogni giorno lo stesso tragitto dal letto alla sedia, un lamento a passetto, un passetto a lamento... rimanendo piegata in due come se portasse sulle spalle un’enorme catasta di legna; i dolori alle articolazioni non le davano tregua e sulla stufa teneva in costante ebollizione dei pentolini pieni di intrugli con erbe che le sollevavano il morale e lenivano i dolori.

    Giovanna, diventata la Governante della villa, l’accudiva con lo stesso amore di sempre; tutte le sere prima che l’anziana si coricasse le spalmava, sul petto e sulle spalle, un unguento che l’aiutava a riposare senza troppa sofferenza. Quella sua dedizione non era solo un atto di riconoscenza verso colei che l’aveva aiutata a crescere e a diventare un’abile governante, ma, specialmente dopo la morte di sua mamma, un sentimento di affetto profondo che la legava alla povera sofferente rimasta sola al mondo. La quotidiana frequentazione aveva cambiato il loro rapporto, trasformando Matilde da maestra a confidente, fino a divenire il suo punto di riferimento affettivo, anche perché Giovanna, sia con i fratelli che con le cognate, a forza di piccoli contrasti, invidie e gelosie, aveva finito per stabilire un rapporto gerarchico.

    Quando alla sera, si sdraiava sul letto con la camicia da notte aperta e Giovanna si accingeva a massaggiarla con la pomata, Matilde cominciava a parlare... più che parlare la interrogava! Le prime domande, per ovvie ragioni, erano sull’andamento della vita domestica, sui problemi di gestione della casa, sulle condizioni di Anastasia... poi, guardandola negli occhi e scrutando dentro il suo cuore, le chiedeva se di nuovo qualche problema l’affliggesse.

    Conosceva fin troppo bene le pene di Giovanna, però, ogni volta che riusciva a fargliele tirar fuori, anche se era tutt’altro che facile per via del suo carattere chiuso, la vedeva andar via più sollevata, come se il guardare nel suo amore segreto insieme a un’altra persona la sgravasse. Matilde non la giudicava e benché non approvasse quell’amore non corrisposto attendeva il momento buono per entrare nell’argomento.

    Non è giusto le disse ascoltando l’ennesimo episodio negativo, che tu sacrifichi la tua vita per una persona che non ti ama! No, Matilde, per me non è un sacrificio... quando sono vicino a lei il mio corpo diventa più leggero, la malinconia svanisce e qualsiasi cosa io possa fare per lei è solo gioia... e tu sai quanto lei ha bisogno di me... e quanto io di lei. Sì, va bene, ti capisco... anch’io ho provato i tuoi stessi sentimenti e so quanto siano necessari per vivere tirò un lungo sospiro e per un attimo volle credere che le mani sul suo petto fossero quelle di Cirillo... poi ripigliandosi, però quando ti vedo soffrire perché lei, ignorandoti, gode a farsi idolatrare da quei bellimbusti che si vantano, come tante cornacchie, di essere degli artisti, degli eletti... solo per approfittare dell’ospitalità e riempirsi la pancia... mi viene la voglia di afferrare la scopa e sbattergliela addosso, e scacciarli via come un branco di topi che ha invaso la cucina. Dai, Matilde, ora non essere così caustica, ci sono alcuni che hanno un animo davvero sensibile e sono dei veri artisti. Sì, certo... uno su cento!!!

    In quegli anni di fine ottocento, grazie alle iniziative artistiche di Anastasia ed Adelaide e alla loro squisita ospitalità, la villa era diventata un salotto in cui una grande varietà di personaggi della cultura cittadina s’incontravano e spesso vi soggiornavano. Poeti, pittori, musicisti, politici, gente ambigua, approfittatori e scansafatiche, avevano trovato un luogo di delizia da godere senza tanti complimenti! Il buon cibo ed il buon vino non mancavano mai! Le due donne si erano ritagliate un perfetto ruolo di anfitrione, ciascuna, a suo modo, godeva delle attenzioni che gli illustri ospiti, insieme ai meschini adulatori, riservavano loro; le composizioni poetiche, musicali, pittoriche dedicate alle due padrone non si contavano più... hainoi! la quantità non è certo sinonimo di qualità e le squallide brutte copie si sprecavano! Però la villa aveva ripreso a vivere.

    La sera del giovedì le finestre s’illuminavano, e le carrozze, in un intenso via vai, risalivano il lungo viale; poemi declamati con passione, partiture musicali eseguite da gruppi di musici, tenori, soprani, voci di uomini e di donne, risate e strillozzi riempivano lo spazio circostante, tresche più o meno lecite si intessevano negli angoli del terrazzo e tra le complici ombre del giardino. Mentre dal salone le note del pianoforte, della viola e del violino, del flauto e del clarino, insieme ai vocalizzi di qualche cantante, allietavano le serate dei contadini prostrati dalla fatica.

    L’idillio tra madre e figlia non durò molto e apparvero i primi screzi; l’una dirigeva verso un mondo neoclassico nel quale ritrovava le sue origini culturali e l’altra spingeva verso un oriente immaginifico e simbolico, carico di mistero.

    Adelaide studiava gli antichi testi alla ricerca delle vie dello spirito, un itinerario che illuminasse gli angoli torbidi del suo animo, per questo si lasciava convincere e voleva costruire dei percorsi nel giardino per visualizzare le teorie in cui si avventurava, edificare un tempietto a Iside, issare un obelisco, scavare un locale sotterraneo per gli iniziati.

    Finirono per scontrarsi, troppo distanti gli interessi, di conseguenza i personaggi, invitati ora dall’una ora dall’altra, erano l’espressione di due mondi di pensiero diametralmente opposti e in netto contrasto per il predominio del salotto con continui scontri e battibecchi, così divisero gli invitati nelle due parti della villa: il salone col terrazzo, ed il giardino con lo studio. Però, durante la settimana, i rapporti continuavano ad essere ostici e, ironia e causticità, grandinavano da entrambe le parti. Infine Adelaide se ne andò a Londra insieme ad un indiano che viveva comodamente nella villa da due mesi.

    Mentre la villa era tornata a nuova vita, i poderi languivano. Buona parte dei terreni erano rimasti incolti per anni. La grande famiglia di Cirillo, tra lutti e matrimoni, si era ridotta drasticamente. Adesso erano rimasti: Nicola; Fausto, il fratello, sposato con Erminia; il loro neonato Guglielmo; Giovanna, ma lei non poteva essere annoverata fra le braccia necessarie al lavoro nei campi, poiché la sua vita si svolgeva totalmente all’interno della villa. Troppo pochi per eseguire la gran mole di lavoro necessario al mantenimento dei poderi ed al loro pieno sfruttamento, così, sia per la vendemmia, la mietitura, la raccolta della frutta che per altri lavori al terreno, dovevano prendere degli operai stagionali. All’organizzazione di tutta l’attività agricola doveva pensarci Nicola, diventato ‘capoccia’ al posto del fratello maggiore Fausto, grande lavoratore, ma con un animo tanto umile e semplice da renderlo incapace di dare un qualsiasi ordine ad un’altra persona. Per questo, l’impegno di Nicola, era comunque gravoso e di grande responsabilità, quantunque Anastasia si fidasse ciecamente di lui.

    Ma i problemi, di ogni ordine e genere, non mancavano certo! A causa del precario stato di salute dell’amministratore, (questa, almeno, era la scusa che Arturo Disguidi dava per giustificare i ritardi, le assenze, e lo stato confusionale in cui talvolta si era presentato), Anastasia, col beneplacito di Adelaide, aveva delegato ufficialmente Giovanna al controllo di tutta l’economia della fattoria e della villa consegnandole le chiavi dell’ufficio e dell’armadio blindato, dove erano custoditi i libri contabili, i soldi ed i gioielli. Giovanna, aveva assunto quel compito, di grande responsabilità, come un atto dovuto. Nonostante l’età, essa, si considerava, non certo padrona, ma legittima erede di una famiglia che aveva dato, da generazioni, tutta se stessa per il bene della fattoria e della villa.

    Erano già trascorsi alcuni anni dalla morte di Raffaello e, nonostante la presenza di Arturo, un amministratore considerato fino ad allora un uomo serio e capace, la situazione finanziaria aveva cominciato a traballare e a dare segni preoccupanti, benché la fattoria continuasse a produrre ottimi raccolti e dalle stalle arrivassero buoni risultati.

    Giovanna si presentava agli occhi di tutti come una ragazzona equilibrata, precisa, puntuale, saggia, sempre calma, pure nelle situazioni di crisi, e in grado di trovare la soluzione più semplice ad un problema complesso; per queste caratteristiche si era ritrovata, nel corso degli anni, ad assumere il ruolo di consigliera personale di Anastasia e, in una scalata progressiva, era passata da semplice confidente... ‘sai io farei rimettere il viale d’ingresso’, a... ‘che dici: facciamo piantare un filare di oleandri tra il muro ed il piazzale?’, fino a... ‘potresti ricontrollare il registro che mi ha portato Arturo? lo sai, tutti quei numeri mi annoiano!’.

    Lei non aveva mai interrotto del tutto gli studi iniziati con Raffaello. Il farmacista aveva intuito le capacità di Giovanna ed aveva continuato a rispondere alle sue domande, a correggere gli esercizi da lei richiesti e svolti diligentemente, a consigliare la lettura di alcuni libri che le sarebbero serviti per approfondire i suoi interessi. Al termine del percorso guidato dall’illuminato maestro, Giovanna aveva accumulato le conoscenze per seguire la lavorazione dei campi, per controllare i libri contabili, per decidere l’andamento di un restauro nella villa. Sapeva dove e come trovare la risposta ai problemi più impegnativi, bisognava trovare il libro giusto e mettersi a studiare. La biblioteca della villa conteneva varie migliaia di volumi ben catalogati e sistemati per argomento negli scaffali: lì, la sera, dopo aver terminato le sue mansioni, si metteva a sfogliare i libri e prendere appunti come le aveva insegnato Raffaello. A tutto ciò, lei aggiungeva un’innata capacità organizzativa.

    Anche Matilde, con l’avanzare dell’età e dei dolori, aveva trasmesso a Giovanna le sue conoscenze accumulate in una vita. Quelle informazioni pratiche erano molto importanti, perché andavano a spiegare certi meccanismi che regolavano la vita della piccola comunità; grandi e piccoli particolarità dei vari personaggi che gravitavano intorno alla padrona ed alla padroncina; trucchi per capire ed evitare raggiri...

    Erano stati tutti quei raccontini rimessi insieme che le avevano aperto gli occhi sul reale andamento economico della fattoria e svelato il vero comportamento di alcuni soggetti. In specie su Arturo Disguidi, sul suo carattere, sulle sue manie e sul suo potere, che solo Matilde, negli anni, aveva potuto conoscere fino in fondo grazie al suo punto di osservazione privilegiato: la cucina!

    La cucina era il luogo prediletto dove tutti amavano soffermarsi: per un caffè, un bicchier di vino, un antipasto, una fetta di torta. Era rilassante sedersi al tavolo, scambiare due parole con Matilde senza nessuna fretta, attendere che lei, col suo amabile accento ed i modi schietti, servisse la bevanda o lo stuzzichino per ristorare pancia e testa. In quel modo Matilde aveva ascoltato un’infinità di confidenze e delle vere e proprie confessioni.

    Arturo Disguidi, un uomo poco più che cinquantenne con l’animo del solitario e dedito interamente al suo lavoro, rifuggiva sia le donne che le altre compagnie. Amico di famiglia, sua madre aveva frequentato la casa dei genitori di Anastasia; per anni aveva tenuto in ordine e con rigore l’amministrazione di tutti i beni, tanto che nessuno si era mai potuto lamentare del suo lavoro, anzi spesso aveva ricevuto gli elogi di Raffaello e Anastasia. Ma poi in quella vita, regolare e monotona, accadde qualcosa che la fece saltare in aria, il suo carattere subì un cambio repentino, un’ansia di morte, una voragine di sensi che lo condusse a ricercare l’amicizia in una compagine di militari con i quali desiderava far bella figura, sentirsi amato e cercato, per cui chiuse occhi ed orecchi e vi si lanciò a capofitto. Cominciò con delle semplici vendite sottocosto a persone compiacenti, ritardi nei pagamenti, piccoli ammanchi che gli consentivano di avere fra le mani delle somme di denaro da sperperare per mettersi in mostra con gli amici, fare il galletto, il pavone, portarli a cena, fare regali costosi, essere adorato. Ed in quell’orgia di sentimenti contrastanti si perse definitivamente.

    All’inizio gli era sembrato tutto molto facile, quasi un gioco innocente, a volte riusciva persino a rimettere il denaro al suo posto e con quel gesto infantile poteva giustificare il suo animo tanto da dirsi... ‘è solo un prestito! Vedi, posso restituirlo quando voglio’; ma gli ci volle poco a rimaner preso nel vortice del meccanismo da lui stesso avviato, e, in mancanza di un qualsiasi controllo che lo avrebbe inchiodato alle sue responsabilità, sì lasciò scivolare in quella scellerata china fino a creare dei buchi difficili da coprire o, eventualmente, spiegare.

    A Giovanna bastò un primo rapido esame dei libri contabili per riscontrare degli errori così madornali da sembrare fatti apposta per richiamare l’attenzione e richiedere una verifica immediata. Per Arturo,

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