A scopare si comincia dall'alto
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Anteprima del libro
A scopare si comincia dall'alto - Antonio Guzzon
633/1941.
PREFAZIONE
A SCOPARE SI COMINCIA DALL’ALTO
Nord Italia, inizio del Novecento: questo è il contesto storico entro il quale la vita di Gelso Ma-gistri fa il suo corso.
Gelso vive serenamente con la mamma, il papà e due fratelli, ma i tempi sono duri per chi tira a campare
del solo modesto lavoro del capofamiglia.
La farina per fare il pane scarseggia, in tavola si accendono discussioni tra coniugi; poi la deci-sione – sofferta ma inevitabile –: mandare il piccolo Gelso a lavorare sull’alpe per il padrone delle terre, Enrico Malafanti Dalla Torre Del Riale.
Accade tutto in fretta, una mattina il piccolo Gelso viene prelevato dalla sua casa, strappato agli affetti e alle sue sicurezze di ragazzino.
«Lo spinsero tutti da dietro, gli allungarono il sacco con la sua poca roba e lo guardaro-no muti e pallidi. Poi uno schiocco di frusta, e via! Rimasero in mezzo alla strada con gli occhi fissi e le braccia levate a guardare la carrozza che a gran corsa si allontanava finché, avvolta in un fragore di ferri sul selciato, sparì dietro la curva del mulino.
Sua madre cercò di riprendersi ancora per un attimo il suo bambino urlandogli dietro: Scrivici!
».
Così il piccolo Magistri si ritrova sull’alpe a fare un lavoro duro, un lavoro da uomo vero
, trovandosi costretto a cancellare velocemente le insicurezze e le paure dell’infanzia.
Per fare il formaggio bisogna anche badare al bestiame, mungere le capre e portarle a pascolare tra le selvagge e pericolose alture, ai piedi delle alpi.
Se all’inizio la compagnia dell’amico Seghetto addolcisce la permanenza di Gelso sui monti, la sua partenza lo vede fare i conti con un’assordante solitudine. Unico compagno dei suoi giorni e delle lunghe e buie notti diventa Bracco, il fedele cane, e Bruno, l’uomo che porta rifornimenti e viveri al solerte Gelso.
Un giorno, per noia, il piccolo Magistri si trova a esplorare prati e vallate fin quando non scopre l’ingresso di un’abitazione all’apparenza desolata. Pur sapendo di fare qualcosa di poco corretto, entra all’interno della casa e, rapito dalle illustrazioni di una copertina, ruba un libro, lasciando in pegno la sua fionda.
Per Gelso quel gesto apparentemente sbagliato, si rivela come una delle prime svolte della sua vita. Il libro rubato – o meglio, preso in prestito – appartiene infatti ad Amilcare, un bonario insegnante che decide di prendere il ragazzino sotto la sua ala protettrice, istruendolo in modo esemplare.
Passano gli anni e, il giorno dell’Assunta l’amico Bruno dice a Gelso che in occasione della messa e della sagra, i due si dovranno recare a Roccaspina; occorrenza che final-mente vedrà ricongiunta la famiglia Magistri.
Proprio in quell’occasione ecco la seconda, prepotente svolta nella vita di Gelso: senti-tolo conversare in modo forbito e disinvolto, Enrico Malafanti Dalla Torre Del Riale decide di as-sumere l’atipico montanaro come istruttore privato di sua figlia Fiorella, giù in paese, a Farinengo.
Farinengo non si rivelerà però come il semplice fulcro lavorativo di Gelso, l’occasione per liberarsi dalla vita solitaria, su in montagna, ma sarà anche il luogo in cui il giovane farà la co-noscenza delle donne della sua vita: Fiorella, Nirvana e Marina. Ognuna di loro innescherà una catena di eventi, talvolta burrascosi talvolta assai piacevoli, dai quali Gelso trarrà sia benefici che inattesi e assai fastidiosi contrattempi.
A scopare si comincia dall’alto è un bellissimo romanzo capace di rapire la mente e il cuore del lettore attraverso le parole del protagonista ma anche attraverso la meravi-gliosa ambientazione che diventa essa stessa personaggio.
Tra le aspre montagne del Nord Italia, in un periodo storico che sta per sfociare nella terribile Prima Guerra Mondiale, Gelso si fa portavoce di un passato che potrebbe essere quello raccontato dai nostri nonni, un romanzo di fantasia che si fa tangibile e concreto riga dopo riga: la vita del paese, i tanti personaggi che sembrano essere talmente veri e vivi da parere in carne e ossa, le dicerie della gente
che di sottofondo rumoreggia, le case illuminate ancora con le candele, gli umili e faticosi lavori della terra che sono colonna portante della quotidianità della maggior parte delle famiglie.
Gelso Magistri e la sua incredibile vita ci insegnano come l’intelligenza, la tenacia e la bontà d’animo possano essere la vera ancora di salvezza, il punto fermo da apporre alla fine di ogni tormento o disgrazia.
Disegni dei protagonisti a cura di Tosca Romaneschi
L’inizio di tutto
Giacomo invocava il sonno, che però non arrivava.
Buttò da parte la coperta, si vestì e, in silenzio, uscì in strada.
Il gallo non aveva ancora cantato e pure le case e le stalle dormivano alla grande. Sotto quei tetti di sasso ci vivevano un centinaio di contadini e altrettante bestie, i primi nel timore di Dio e le se-conde in quello di venire mangiate. I pochi artigiani erano una categoria messa ancora peggio dei contadini: fabbri che non potevano pagarsi il ferro, falegnami che chiedevano lavoro passando di casa in casa, muratori vestiti di stracci, calzolai senza niente ai piedi e costretti a rubare. Proprio per quello scenario, Giacomo non aveva ancora scelto che mestiere fare. Era dunque un ragazzo cresciuto bene, paffutello, come pure i suoi fratelli, ma il periodo del relativo benessere, del tirare avanti dignitosamente, s’era esaurito già da un paio di stagioni in casa Magistri.
Quando i contorni delle vette cominciarono ad apparire, udì un tossicchiare e il cigolio di persiane spalancarsi al nuovo giorno. Sul bordo di un ruscello, colse uno stelo d’erba, lo strinse fra le labbra e ripensò alla sera precedente, quando i suoi genitori inchiodarono suo fratello Gelso al muro, tra la credenza e la cassapanca. Senza darsi pensiero di lui che stava lì ad ascoltare, a quel poveretto dissero che lo davano in appalto, che sarebbe andato sui monti e da lì in poi avrebbe guardato tutto e tutti dall’alto. Giacomo si chiese nuovamente se i suoi bravi genitori avessero perso la testa, giacché, con i suoi quindici anni compiuti, lui era più grande, più forte e pure meno furbo di suo fratello.
In quel suo girovagare, si fermò dinanzi al municipio a rimirare il grande manifesto pubblicitario incollato al muro che consigliava l’acquisto di un tal apparecchio radiofonico. Seppur zep-po di meraviglia e curiosità, lo considerò nuovamente una stupidaggine, uno spreco d’intenti, visto che in paese non c’era la corrente elettrica. Rientrò a casa assie-me ai tocchi del mezzogiorno e, smanioso, si sedette al tavolo.
Come da rituale, il capofamiglia tagliò il pane a fette e, in tal fare, chiese a sua moglie: «Lisa, come mai la pagnotta è venuta così piccola?»
Con il tono di chi ha tante faccende sulle braccia e troppi pensieri in testa, lei lo guardò fisso negli occhi e rispose: «È quel che è rimasto della farina.»
«Il sacco è già vuoto?»
Lisa si levò in piedi, si aggiustò la gonna sulle gambe, appoggiò le mani sul bordo del tavolo e si difese: «Giuseppe Magistri, vuoi forse incolparmi di sciupare la roba? Il sacco l’hai porta-to a casa un mese fa! Siamo cinque bocche e non mi pare di avere vissuto nell’abbondanza!»
«No, non t’incolpo di niente! Rimettiti tranquilla.»
Lisa si risedette e notò che suo marito stava appallottolando un pezzetto di mollica tra il pollice e l’indice. Non lo ritenne un buon segno e gli afferrò la mano nella sua, sperando in tal modo di riuscire a tenergli a bada il cuore grosso. Ma l’esplosione era nell’aria e, infatti, il pugno del suo uomo si abbatté violento sul tavolo. «Ve lo dico io, cari miei! Verrà il giorno in cui ci rifaremo di tutti questi patimenti; la giustizia giudicherà e condannerà tutta quella genta-glia corrotta e ingorda! E poi finiranno a marcire in galera, sissignore!»
Lisa lo guardò tristemente. «Giuseppe, perché ti sei lasciato venire un altro travaso di bile? Adesso ti sei pure fatto male alla mano. Lo sai benissimo che non serve a niente rivangare continuamente nel passato e che soldi e amicizia intorbidiscono la giustizia. Ti prego, non indebitarti per un poco di farina. Avanti, fammi vedere la mano…»
«Lascia, donna, non è niente…»
Magistri strofinò la mano sul petto e si sedette al tavolo. La sua voce riprese il registro quieto e rispettoso di sempre: «Comunque, hai ragione sposa, non conviene indebitarsi per del pane di frumento che, diciamocelo pure chiaro e tondo senza girare attorno alle cose, è un lusso pure sulla tavola dei ricchi!»
Non parlò più nessuno. Perfino i tarli smisero di rodere le gambe della credenza, così lui continuò: «O di paglia o di fieno lo stomaco dev’essere pieno! Oggi anticipiamo di una settimana il compleanno di Mirella; vado in cantina a prendere una tal cosa e mandiamo i fastidi a farsi bugge-rare.»
Giuseppe scostò la sedia, si alzò, si aggiunstò le bretelle sulle spalle e si diresse verso l’uscio della cucina. Mirella lo seguì con lo sguardo, chiedendosi come avrebbero festeg-giato i suoi dieci anni. Gelso ruppe il silenzio con una domanda che era come un tiro di fionda su sua madre: «Siamo poveri, vero?»
Lei sussultò, gettò uno sguardo sulla sedia vuota del suo uomo e sentì calarle sulle spalle tutto il peso di una risposta. Strinse tra le dita la finissima catenella gialla che portava al collo e sorrise come se si fosse inventata al momento la più dolce favola al mondo.
«Che domande fai, bambino mio? No di certo! Possediamo una casa, una mucca nella stalla, qual-che gallina, i conigli e anche un orto. Lo vedi pure tu.»
Gelso pensò a quel misero orticello che attraversava con quattro salti delle sue gambette da bam-bino e gli uscì di bocca: «Abbiamo anche i soldi?»
Con la faccia angustiata lei rispose: «Al momento, non ne abbiamo.»
«Io ho dodici centesimi! Ho catturato molti topolini e li ho portati al Comune. Guarda!»
Gelso estrasse dalla tasca dei pantaloni un fazzolettino bianco, tutto incrostato. Lo depose sul tavo-lo, lo spiegò con fare gongolante e chiese: «Quanta farina si può comprare con questi soldi?»
Non ricevette risposta per il sopraggiungere di suo padre. Teneva un salame in mano e continuava a tastarlo. Quando fu vicino al tavolo, levò il braccio in alto e disse:
«Guardate quant’è bello, stagionato al punto giusto!»
Poi, nel tagliarlo di traverso il più fino che poteva, l’uomo si mise a piangere.
Erano tutti intenti a sparecchiare, che una carrozza si fermò davanti alla porta di casa. Un uomo gettò voce e Giacomo sperò di udire in risposta le parole che sempre rimbalzavano sulle pareti del-la chiesa: "Dove c’è innocenza c’è anche provvidenza."
Invece venne l’ordine di suo padre: «Gelso, è giunto il momento!»
Attaccate alla carrozza c’erano ben quattro vigorose e scalpitanti giumente. Quando Gia-como le vide, provò una punta d’invidia: Gelso non avrebbe dovuto percorrere neppure mezzo metro a piedi. I bambini posseggono un istinto che li spinge a unirsi agli altri, così il dolore per il bene altrui sparì del tutto in Giacomo quando pure lui aiutò suo fratello a salire in carrozza. Lo spinsero tutti da dietro, gli allungarono il sacco con la sua poca roba e lo guardarono muti e pal-lidi. Poi uno schiocco di frusta, e via! Rimasero in mezzo alla strada con le braccia levate a fissare la carrozza che a gran corsa si allontanava finché, avvolta in un fragore di ferri sul selciato, sparì dietro la curva del mulino.
Sua madre cercò di riprendersi ancora per un attimo il suo bambino urlandogli dietro: «Scrivici!»
L’alpe
A Gelso quel carrettiere tutto indaffarato a tenere a bada con le redini il fervore delle giumente, parve fin troppo taciturno. Così pensò di avviare discorso e si azzardò a chiedergli: «Quando arri-viamo? Quanta strada c’è ancora?»
Con il sigaro dondolante tra le labbra, l’uomo rispose: «Devi avere pazienza, ragazzo, ci vuole il tempo che occorre; non possiamo mica volare. Se ti metti a dormire, vedrai che ci si arriva in un attimo.»
Gelso si disse che quello era il tipico modo degli adulti di svignarsela quando non conoscono la risposta. Evidentemente, il carrettiere non era proprio in vena di parlare. Comunque, di mettersi a dormire, lui non ci pensava proprio. L’uomo nasce con lo stimolo di conoscere nuove co-se, così Gelso si guardò attorno. Dapprima passarono tra vallette ondulate, corse da gorgoglianti fili d’acqua, macchiate da casolari e gruppi d’alberi. Poi, la strada si fece sempre più sinuosa, spesso appoggiata sull’orlo di abissi dai quali saliva il fragore della furia dei torrenti. A ogni curva la valle diveniva sempre più stretta e anche la vegetazione cambiava. Le vigne erano sparite già da un pezzo, così come i castagni e ogni altro albero da frutto. C’erano molte mucche sparse sui prati e Gelso gettò ancora voce.
«Signor carrettiere?»
«Sì…»
«È vero ciò che si dice di quelli che vanno con le bestie sull’alpe?»
«Che cosa?»
«Che a furia di stare via da casa, anche agli uomini crescono le corna?»
Il carrettiere strinse il mozzicone del sigaro tra gli incisivi e rispose: «Sì, eccome! Ma può succede-re solo agli uomini sposati. Tu non preoccuparti: non diverrai cornuto.»
Gelso si passò una mano sulla testa e sperò di rimanere non sposato fintanto che doveva stare sui monti. Quando giunsero a destinazione, soffiava un vento assai fresco che gli fece alzare il bavero. Con un rauco Ohhhh!
il carrettiere tirò le redini e strinse il freno sulle ruote.
Si volse all’indietro: «Ci siamo. Ce la fai a scendere?»
Figurarsi! Che cos’era per lui, agile e snodato come un furetto, buttarsi giù dal semplice predellino di una carrozza. Gelso saltò a terra e si storse una caviglia. Soffocò il lamento che gli salì dal petto, strinse i denti e serrò le palpebre, sperando che nessuno l’avesse notato. Incu-riosite da quel nuovo odore, tre capre gli si avicinarono e presero a mordicchiargli la giacchetta. Pure un uomo, grande come una quercia, gli venne incontro e se lo caricò sulle spalle. Lo portò all’interno di una baita bassa e fumosa, lo coricò su un sacco riempito di fieno, gli diede una coperta di lana, gli guardò il piede e, con un tono di sicurezza e comando, gli disse che aveva sonno. Gelso non avrebbe potuto ribellarsi: ora aveva sonno sul serio.
Le montagne sono le prime, all’alba, a essere baciate dal sole. Un suo raggio trovò uno spiraglio tra le lastre di sasso del tetto e andò a sfavillare sulle palpebre di Gelso. Tenace in quel suo intento, il raggio riuscì a svegliarlo. Gelso aprì gli occhi e si chiese come mai la sua stanza si era trasformata durante la notte. Si girò e vide due occhi gialli e neri che lo fissavano. Li prese per quelli del diavolo e, con un urlo, si levò a sedere.
«Come ti chiami?» gli chiese un ragazzino intento a ravvivare il fuoco nel camino.
«Gelso», rispose ancora in affanno, «e tu chi sei?»
«Di che cosa hai paura? È solo una capra!»
«A casa mia non ci sono le capre in stanza da letto…»
«Hai fame?»
Gelso aveva una gran fame, ma si chiese che cosa quel ragazzo in canottiera, dal viso chiaro ma tanto sporco, gli avesse dato da mangiare.
«Solo un poco.»
Il giovane assunse il tono saggio degli adulti: «Guarda che non sei qui in villeggiatura. Dovrai la-vorare e ti consiglio di mangiare. Tieni, è ancora tiepido di mungitura.»
Il ragazzo gli allungò una scodella piena di latte di capra, poi un pezzo di pane e un uovo sodo. Mangiando, Gelso pensò a quanti buoni cibi sapevano fare gli uomini, le capre e le galline. Con la bocca piena e la voce ingolfata gli chiese: «Non mi hai ancora detto come ti chiami.»
«Seghetto.»
«Non mi pare un nome da cristiano.»
«Non sono mica una bestia! Mi hanno chiamato così perché da piccolo facevo tante domande. Il mio vero nome non lo conosce quasi più nessuno.»
«E qual è il tuo vero nome?»
«Gabriele.»
«Ti chiami come gli angeli!»
«Sei tutto scemo! L’ho pensato già da quando ti ho sentito urlare.»
«Non è vero, che sono scemo! Se non mi credi, chiedilo a don Faustino come si chiamano gli an-geli!»
Seghetto gli voltò la schiena e, nascondendo un sorriso, si mise a rivoltare sul tavolo alcune forme di formaggio. Di preti ne aveva conosciuti solo due e con uno di loro ci aveva perfino bisticciato per via del paradiso terrestre, una storia alla quale lui faticava a credere, non riuscendo a dare una spiegazione