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Le ricche invenzioni di un povero sognatore
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Le ricche invenzioni di un povero sognatore
E-book151 pagine1 ora

Le ricche invenzioni di un povero sognatore

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Info su questo ebook

Romanzo semplice, spontaneo, nel quale predomina l’elemento magico di una avventura a lieto fine condotta da un ragazzo protagonista dotato di qualità meravigliose e straordinarie. Un componimento narrativo insolito di vita, di esistenza, di verità morale che trae significato sostanziale di fatti, di avvenimenti realmente accaduti, realmente vissuti, alleggeriti solo dall'intreccio dell’inventiva artistica e fantasiosa dell’ attenta considerazione, in cui la verità storica si fonde con l’elemento fantastico della immaginazione.

Un racconto lungimirante, accorto, dunque, ambientato in una realtà povera, indigente, disgraziata del lontano 1850; periodo, questo, che fu il ganghero, il perno di una carenza culturale talmente vasta da alimentare, per un lungo periodo, disuguaglianze sociali, tra gli individui, molto banditori.

Il giovane Ciccio, in questa storia, compirà, da protagonista, un viaggio ricco di vita, dalle mille sfaccettature, nel quale la forza d' animo, l'ardimento, la fatica, l’altruismo, si contrapporranno all'ozio e alla dissolutezza, connotando la dignità dell’uomo e aprendo la strada alla valorizzazione della figura del lavoro attraverso l’impiego delle forze e delle facoltà del corpo e della mente, in un'attività produttiva che si realizza nell'esercizio di un mestiere molto avvenente: quello dell'inventore.
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2017
ISBN9788892673281
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    Anteprima del libro

    Le ricche invenzioni di un povero sognatore - Francesco Gualtieri

    elitari.

    sud dell’antico stivale Italico, sulla sommità di un monte dal nome regale, Monte Contessa, sorgeva, protetta, come se fosse una rocca di inestimabile valore, da un ambiente indefinito, erto, selvaggio, imponente, vivo se vogliamo, la casa lugubre di mastro Vincenzo, detto il Conte, per i suoi modi snob, un po’ arroganti, non certo per un titolo nobiliare intermedio tramandato da una generazione all’altra.

    in condizioni economiche disagiate, l’ambiente intorno a lui era dominato da un aspetto gentilizio dove mille facciate, mille orizzonti, mille capolavori, lasciavano gustare paesaggi, viste, colpi d’occhio di ambienti unici da centellinare in silenzio. Si potevano, infatti, contemplare dall’alto di quel monte le vette circostanti e le loro tinte fondamentali, il verde e il brumo, che sfumavano nell’azzurro, tanto che le più lontane si confondevano quasi con il cielo. Quegli effetti, l’apparente rimpicciolimento, le diverse proporzioni, il cambiamento di colore, erano fenomeni causati dalla lontananza che offriva impressioni di profondità, di distanza, di prospettiva celestiale.

    Come se ciò non bastasse, il panorama era arricchito ed abusato con garbo, dal verde cupo dei castagneti e dal verde argento dei querceti che, spiccando tra le elevate cime e le elevate vette dei monti circostanti, davano vita ad un vacillamento infinito di chiaroscuro e di mezze tinte . Ma, a Mastro Vincenzo, detto il conte, il classico scansafatiche, tutto quel panorama idilliaco non interessava. A lui interessava vivere nel vizio e nel finto divertimento, affrontando le angosce della vita nelle chiacchiere e nel vino. Le giornate il conte, dopo una tragedia familiare, le viveva, ormai da tempo, come copia imperfetta di uno stereotipo giorno infinito: dormire fino a tarda mattina, pulizia della casa e dell’igiene personale inesistente, mangiare alla rinfusa, pennichella pomeridiana, cantina fino a notte inoltrata. Ma, come accade spesso, in casa c’è sempre colui, e/o colei, che fatica per tutti, ed anche in questa storia esiste lo sfortunato lavoratore a conto terzi, Franco, detto Ciccio il biondo, per la folta chioma di capelli color oro che portava. Il lavoro spossante non mancava mai, il biondo, infatti, essendo orfano di madre e figlio unico, senza un lamento, ammatassava, ora dopo ora, lavoro, lavoro, lavoro. Mastro Vincenzo, d’altro canto, era l’unico membro della sua famiglia ancora in vita e, anche se come padre non era il massimo, gli portava rispetto. Ciccio, cominciò la sua vita lavorativa in età molto giovane presso la falegnameria del signor, nonché amico di famiglia, mastro Candido, detto penna bianca, per lo strano ciuffo bianco a forma di ala che ne dominava l’intera chioma. Il povero Ciccio Lavorava tutti i giorni, dall’alba al tramonto, percepiva una paga bassa, ma era felice perché lontano dallo stress di un padre ambiguo. Purtroppo, però, il lavoro, nell’arco della giornata, occupava molto tempo ed il biondo non trovava mai il giusto momento per giocare con gli amici, i quali, pian piano, si allontanarono sempre di più, fino a lasciarlo da solo con i suoi grandi problemi.

    – Ciccio, Ciccio! Dove hai nascosto la mia bottiglia? Vociò il Conte. Nessuna risposta da parte del giovane Ciccio; Il Conte abbassò gli occhiali a metà naso e guardò un po’ in giro, esplorando tutta la casa; quindi li alzò sulla fronte e guardò fuori, nel piccolo cortile, per vedere una cosa da poco, quale era il biondo; il conte non guardava mai, o quasi mai, attraverso quelle due lenti. Erano gli occhiali di parata, da usare per soddisfazione, per decoro, non come due occhiali qualunque. Per cui aver sul naso quelli, o un paio di coperchi di latta, per il conte era lo stesso. Egli rimase un momento a guardare, perplesso, e poi d’un tono più calmo, ma forte abbastanza perché l’udissero i mobili, esclamò :-

    - Se ti acchiappo ti ammazzo …

    Ma cosa volesse fare non riuscì a dirlo fino in fondo, perché intanto si era chinato sotto il divano con la scopa e ad ogni puntata che dava bisognava che riprendesse fiato. Non riuscì a sloggiare altro che un piccolo innocuo topolino.

    -Ma dove si sarà andato a cacciare quel discolo?

    -Dove sarà scappato?

    Si affacciò sulla porta di casa che era aperta e con lo sguardo cercò fra le piante di pomodoro e di stramonio, arrampicate alle cannucce, che costituivano tutto il giardino. Del biondo nemmeno l’ombra.

    Allora il conte piegò la testa all’indietro per arrivare più lontano possibile con la voce:

    -Ciccioooooooo!

    Un lieve fruscio alle spalle lo fece capitombolare per terra. Il biondo, allora, sentito il grande tonfo, balzò fuori per soccorrerlo. Mastro Vincenzo quando lo vide esclamò con aria infastidita :

    - Ah ecco! Ci dovevo pensare, alla dispensa!

    Cosa ci stavi a fare là dentro?

    -Niente!

    -Niente? Fa vedere le mani. E quella bottiglia?

    -Quale bottiglia! A si questa, non lo so padre!

    Rispose con tono convulso il povero Ciccio.

    -Lo so io. Quante volte ti ho detto che se mi nascondi le cose ti levo la pelle? Dammi quella bacchetta.

    Già la bacchetta era levata in alto. Non c’era scampo. -Padre, padre! Guarda là dietro!

    Il conte si voltò lasciando libero un po’ di passaggio. Pronto come un lampo il biondo gli guizzò accanto, s’arrampicò d’un balzo sull’alta barriera di tavole e sparì dall’altra parte. Per un momento il conte restò a bocca aperta; poi suo malgrado gli venne da ridere bestemmiando.

    -figlio di una buona donna; quando imparerò con quel teppistello indemoniato! Il biondo nel frattempo si era nascosto nel bosco, passeggiando nervoso, sussurrando dentro di sé con gli occhi persi nella volta infinita del cielo:

    - e così non riesco a dirgliele mai. Lo so, io cerco di fare il mio dovere con quella specie di genitore; che il signore mi perdoni, ma le percosse stupide non le tollero. Domani è sabato, gli altri ragazzi hanno vacanza, mentre io devo lavorare oltre che accudire un vecchio demonio vizioso..!

    Ciccio continuò imperterrito nelle sue riflessioni, ma, la fatica è proprio la cosa che gli va meno a genio;

    in qualche modo il biondo doveva trovare la forza per fare il suo dovere, per non essere lui stesso la rovina del padre. Con molta incertezza riprende la strada di casa, per rincasare, sperando che al suo ritorno mastro Vincenzo non lo stesse ad aspettare. Entrato in casa, il biondo, come il solito, trova la casa in disordine, una pattumiera di bottiglie vuote, una tazza di latta buttata sull’ empio divano, due barilotti vuoti adagiati sopra il tavolo e altre bottiglie, tante. Il conte non si trovava da nessuna parte. Era ovvio che si fosse recato nel suo ambiente preferito per eludere la realtà nel vino e nelle chiacchiere. Il biondo preso da un momento di panico non seppe cosa fare, non seppe cosa pensare, quando, improvvisamente una luce bianco azzurra apparve dal nulla innanzi a lui. L’intera stanza ne fu avvolta, pian piano, un po’ alla volta, quella luce intensa e magica cominciò a rimpicciolirsi, a concretizzarsi in un punto fisso della stanza. Con un effetto prodigioso, quel fascio di luce abbagliante cominciò a metamorfizzarsi in tante sfumature delicate di mezze tinte fino a quando si concretizzò l’intervento divino: la figura di un volto a Ciccio molto caro, il volto dell’amata madre da tempo defunta. Ovviamente il giovane Ciccio, incredulo per quella visione onirica, avvertì nel cuore un’emozione forte. Gli occhi del biondo si chiusero di scatto e cominciarono a grondare lacrime di sangue che sapevano di tanto, tanto dolore. Per alcuni istanti Ciccio non ebbe il coraggio, né la volontà, di credere in quella visione e per un po’ gattonò nel buio, nell’incertezza e nel turbamento mentale. Con il cuore irrequieto, per quella baraonda di grande agitazione affettiva, il biondo, molto lentamente, tentò, con un solo bulbo oculare, a sbirciare innanzi a se. L’immagine sacra di quel volto tanto caro al giovane Ciccio che, ormai da tempo, ne aveva immortalato i dolci lineamenti nell’anima, in modo imperituro, era vicino a lui, di fronte ai suoi occhi. Il giovane, ipnotizzato per quella visione inaspettata, sentì nel profondo il bisogno di porre delle domande:

    -Madre siete proprio voi?

    -Si, figlio mio adorato.

    -Perché, madre, mi apparite solo adesso? Sapete quanto ho sofferto; quante volte vi ho cercato nel sonno; Madre, sapete il bene che vi ho voluto e che vi voglio.

    -Figlio mio, io ti sono stata sempre vicino con i miei insegnamenti, con il mio amore, con il soffio della mia stessa anima.

    -Madre, questo lo so! Ma la vostra mancanza non riesco a colmarla in alcun modo. Mi avete donato la vita, la gioia di respirare, ma la vostra morte mi ha castigato con il dolore più grande.

    -Figlio mio, non disperarti per me, io sono nella pace; quello che invece mi preoccupa e mi addolora è tuo padre.

    -Madre perché vi addolora proprio lui? L’uomo più ipocrita e vigliacco che conosco?

    -figlio mio non parlare così di tuo padre; in realtà lui sta soffrendo molto, ha smarrito la strada e tocca a te riportarlo sulla retta via.

    -Madre, io sono solo un ragazzo, non saprei da dove iniziare con lui!

    -Figlio mio tu sei venuto al mondo per compiere grandi cose; ma il percorso di vita di un uomo grande è sempre pieno di insidie e di prove ardue da superare. Impara ad

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