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Solleone Anni '60
Solleone Anni '60
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E-book226 pagine3 ore

Solleone Anni '60

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Info su questo ebook

Anni mitici, racconti drammatici
LinguaItaliano
Data di uscita2 feb 2017
ISBN9788826014203
Solleone Anni '60

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    Anteprima del libro

    Solleone Anni '60 - Mario Marzano

    Ringraziamenti

    PARTE PRIMA

    L’ORFANOTROFIO

    Mio padre morì all’età di quarantatre anni a causa di un grave errore operatorio, in un giorno torrido d’agosto, lasciando nel dolore e nella miseria mia madre, mio fratello handicappato e chi vi scrive.

    Da quel giorno la mia vita cambiò radicalmente il suo presumibile percorso; anche il mio carattere in formazione cambiò; infatti, se prima della morte di mio padre ero un bambino dal carattere ludico e socievole, divenni insofferente a ogni ordine e taciturno. Forse, tutto questo accadde perché non ci fu l’ausilio di uno psicologo infantile; ma a quell’epoca, era il 1959, non vi erano possibilità che si ottenesse un valido sostegno psicologico per un bambino nelle mie condizioni socio economiche.

    Infatti, a questo proposito, ricordo nitidamente che l’ultima volta che esternai tutte le mie potenzialità di bambino, che da grande poteva intraprendere anche la carriera di attore comico, fu la notte successiva alla morte di papà. Mia madre ritenne opportuno che io e mio fratello Angelo, almeno per quella notte fossimo ospitati nell’abitazione di zia Annina e zio Giacomo. Per quasi tutta la notte non feci altro che cantare canzoni comiche e tristi, recitare tutte le poesie che mi avevano insegnato a scuola e raccontare favole inventate per l’occasione a mio fratello e ai miei cugini.

    Invece, nei pochi mesi trascorsi in famiglia dopo quella notte assurdamente spensierata, prima del ricovero nell’orfanotrofio, combinai tante di quelle marachelle, che in seguito a una veramente grossa, mia madre si vide costretta a punirmi legandomi mani e piedi in prossimità di un pozzo, per spaventarmi e darmi una lezione a dir poco esemplare.

    Mia madre Emma, donna bassa di statura, aveva un viso leggermente irregolare, i capelli lisci e neri erano quasi sempre legati alla nuca con delle forcine, aveva gli occhi castano scuro, le sopracciglia ben disegnate, il naso un po’ piatto e lungo, le labbra larghe e carnose. Era una donna credente e timorata di Dio. Dal giorno della morte di mio padre vestì di nero in pubblico, ma conservò il vezzo di portare ai piedi scarpe dagli alti tacchi a spillo, molto eleganti. Erano l’unico lusso che si poteva permettere in quanto il mestiere di mio padre era il calzolaio e quelli erano gli unici regali che le faceva.

    Del giorno di novembre in cui entrai per la prima volta nell’orfanotrofio di un piccolo paesino in provincia di Bari, non ricordo molto. Ricordo però molto bene, il rumore metallico del cancello mentre valicavo la soglia con la mano stretta a quella materna, e ci apprestavamo a raggiungere l’edificio in pietra all’estremità di un gran cortile rettangolare. Ricordo bene anche il rumore dei suoi tacchi sulla pavimentazione di pietra. Il piazzale era diviso longitudinalmente da un porticato formato da sei colonne in pietra sulla cui sommità vi erano archi,a sostegno di un terrazzo rettangolare. A sinistra, guardando il porticato dall’entrata del cortile, c’era una piccola fontana con una vasca in cemento.

    Attraversato per intero il cortile, entrammo nell’edificio. Ad accoglierci c’era una suorina dal viso incantevole, che si presentò dicendo di chiamarsi Suor Rosaria, assistente sociale dell’orfanotrofio. Era vestita con una tunica nera e una bavaglina molto larga, a coste, di colore bianco abbagliante, e in testa indossava il consueto copricapo nero.

    Suor Rosaria muovendosi in modo felpato, in pratica senza fare alcun rumore, ci fece entrare in un ufficio a forma quadrata, che si trovava all’inizio di un piccolo corridoio molto buio. Era arredato con due grandi divani di pelle marrone e tre solide sedie in stile ottocentesco,e quasi al centro della stanza c’era una grande scrivania in noce massiccio.

    Sopra di essa, accatastati con ordine, c’erano molti libri, a un angolo faceva bella mostra di sé una foto in cornice d’argento, dove erano ritratti una signora molto bella e tre bambini.

    Alle pareti della stanza c’erano quadri raffiguranti l’epopea garibaldina, dietro la scrivania una targa ricordo attestante che nel referendum per la scelta tra monarchia e repubblica, la maggior parte delle persone che votarono in quel luogo scelsero la monarchia. A destra c’era una grande vetrata che dava in un bel giardino ed era contornata da un tendaggio color rosa antico, a sinistra un’altra porta.

    Notai che la vetrata illuminava la stanza molto bene, nonostante il pomeriggio uggioso d’autunno inoltrato.

    Ci venne incontro un uomo vestito in doppiopetto grigio, con una camicia celeste e una cravatta a righe trasversali chiare. Poteva avere circa quarant’anni, portati bene e non era molto alto. Quella presenza, devo confessare, mi procurò un patema d’animo che non avevo provato prima; evidentemente ero suggestionato dal momento, che rappresentava il distacco traumatico da mia madre. Il signore che mi stava di fronte aveva i capelli nerissimi e lucidi divisi da una riga a sinistra della testa, le sopracciglia ben disegnate, gli occhi scuri dall’espressione vigile e acuta, la pelle olivastra, il naso lungo e appuntito all’insù, le labbra sottili che quando serrava la bocca formavano una linea quasi retta.

    Si presentò come il censore, cioè il vice direttore, Rodolfo Vallicella. Parlò dapprima con mia madre, rivolgendole parole di circostanza, poi si rivolse a me e scrutandomi con attenzione, mi disse in maniera confidenziale, troppo confidenziale per tranquillizzarmi: «Dunque ti chiami Giuliano Giuliani, hai nove anni e fai la quarta elementare. Ma dimmi, di dove sei? Dove e quando sei nato?».

    Risposi senza esitazione, quasi come un automa: «Signore, sono nato a Bari il 27 ottobre del 1950, risiedo a Castellana Grotte, in via Plebiscito 51».

    «Ah ah! Abiti a Castellana, la città famosa per le sue bellissime grotte. Ma dimmi, le hai mai visitate?».

    «Sì, signore, una sola volta».

    «Anche io; è una bellissima esperienza da ripetere più volte nella vita».

    Dopo aver udito queste parole, all’improvviso, mi ritornarono nella mente molti particolari sulla conformazione geologica delle nostre grotte. Infatti ricordavo molto bene alcune loro caratteristiche perché dopo averle visitate insieme ai compagni della mia classe, la maestra ci aveva fatto svolgere un tema su cosa avevamo osservato visitando le grotte di Castellana; per questo motivo, ad esempio ricordavo molto bene come erano fatte: la caverna della lupa, il cavernone dei monumenti, il corridoio dell’angelo, la caverna della civetta, la cavernetta del serpente, quella del presepe, la caverna del precipizio e infine la famosissima grotta bianca. Mentre ero intento a spremermi le meningi per ricordare altri particolari delle nostre bellissime grotte, un’operazione che forse in quel momento mi serviva per estraniarmi dalla brutta realtà che mi toccava vivere in quel momento, anzi per meglio dire, la terribile realtà, notai che il mio interlocutore mi stava osservando come si fa con un oggetto raro, e a un tratto riprese col dire: «Vedo che sei un po’ piccolo e gracilino, ma se resterai molto tempo con noi ti faremo crescere alto e robusto».

    Questa affermazione desta in me ancora stupore, visto che sono rimasto basso e magro.

    Poi si rivolse, ancora una volta verso mia madre, sorridendo e porgendole la mano destra ben curata: «Bene, signora Giuliani noi ci salutiamo, non si preoccupi, suo figlio è in buone mani e visto che è già un ometto, si comporterà, sono certo, molto bene».

    Mia madre mi abbracciò forte, e con un bacio sulla guancia mi raccomandò di comportarmi bene. E mentre lo diceva, piangeva. Mi guardò ancora una volta, e con un fazzoletto in mano, che aveva preso dalla sua borsa, uscì dalla stanza seguita come un’ombra da suor Rosaria.

    Quando le due donne furono uscite dall’ufficio, entrò dalla porta laterale, una donna molto giovane, alta e magra, con un portamento elegante. Aveva i capelli lunghi e neri sciolti sulle spalle, il viso di forma ovale, alcuni brufoli sulle gote rosee, gli occhi neri come carbone, il naso regolare e leggermente all’insù, la bocca piccola ma ben disegnata. Indossava un camice azzurrino, che le stringeva il seno prosperoso.

    Il censore mi affidò a lei, rivolgendole un sorriso d’intesa. La bella sconosciuta prese la mia valigia, portata lì da mia madre, e prendendomi per mano mi accompagnò fuori dall’ufficio, salutò il censore con un: «Ciao, ci vediamo più tardi.».

    Usciti dall’edificio, attraversammo metà cortile per entrare in un altro edificio con un lungo corridoio immerso nella penombra. Solo in seguito avrei capito che quel corridoio rappresentava la divisione tra i due unici reparti dell’Istituto. Uno ospitava i bambini che frequentavano le classi della scuola elementare, l’altro, molto più grande, era adibito a ospitare i ragazzi che frequentavano le scuole dell’avviamento professionale e quelle di arte e mestiere.

    A quell’epoca la scuola Media e le scuole superiori classiche erano riservate per la maggior parte ai ragazzi delle famiglie agiate, che erano poi destinati a diventare la classe dirigente del Paese. Era evidente che questo non era il nostro caso, infatti, proprio l’impossibilità di frequentare la scuola media, faceva sì, che in ogni caso, a prescindere dalle nostre reali attitudini, dovevamo formare la classe subalterna, che doveva servire a svolgere mansioni umili nella società, perché per frequentare alcune scuole superiori, dopo aver conseguito il diploma di avviamento professionale, bisognava fare esami molto severi di ammissione per accedere a frequentarle, e non sempre questa operazione era consentita. Naturalmente vi potevano essere casi eccezionali che però confermavano la regola. Ad esempio a questo proposito, dopo pochi anni che entrai nell’orfanotrofio, tramite l’amicizia con l’assistente spirituale, scoprii che per ovviare a questo handicap iniziale, bastava entrare in un seminario per preti, frequentare le scuole superiori e poi dichiarare che non si possedeva più la vocazione per intraprendere la missione religiosa. A questo punto della formazione culturale, se si possedevano le attitudini si era pronti a intraprendere gli studi universitari; ma la famiglia del ragazzo che aveva scelto questa strada insincera, da quel momento in poi, se era veramente povera, doveva essere pronta ad affrontare sacrifici inenarrabili per far sì che il loro congiunto potesse giungere a laurearsi.

    Lungo tutto il percorso che feci in compagnia della bella ragazza non incontrai anima viva. Eppure il tragitto fu abbastanza lungo, infatti attraversammo tutto il corridoio in penombra, fino a giungere in un altro cortile, molto più piccolo del primo, quadrato e con il pavimento di mattoni rossi. Il complesso architettonico era simile a un chiostro di convento, con il classico porticato che circondava il cortile in modo perfetto. L’oltrepassammo longitudinalmente per raggiungere una scala di pietra, che si trovava in uno dei quattro angoli del porticato, alla fine di un piccolo corridoio. Fui introdotto in una camera rettangolare, dove c’erano venti letti, uno accanto all’altro, con altrettanti comodini verniciati di un azzurro pallido uguale a quello delle coperte dei letti. In fondo alla stanza c’era una gran separé color rosa pallido, e di fronte ai lettini quattro finestre che illuminavano a malapena l’ambiente, contornate da tende color panna. Ci fermammo accanto al letto numero uno, su cui la ragazza posò la valigia. Poi si volse verso di me e mi disse: «Mi chiamo Carmen, so come ti chiami e di dove sei, d’ora in poi sarò la tua assistente, starò con te quando non andrai a scuola e quasi tutte le notti».

    A quel punto, evidentemente, si era accorta della mia preoccupazione e del disagio che provavo nel nuovo ambiente, anche perché non mi aveva rivolto fino ad allora la parola. Mi disse ancora sorridendo: «Giuliano, non ti preoccupare, vedrai che diventeremo presto ottimi amici e ci confideremo molte cose, perché mi sei molto simpatico».

    Aprì la valigia dove in cima c’erano i miei indumenti intimi, ma subito sotto di essi mi accorsi della presenza di ogni ben di dio da mangiare.

    Carmen, sempre sorridente, mi disse: «Queste cose non le puoi tenere nel comodino assieme alle tue robe e alle pantofole, le devi consegnare a Suor Giuditta, che tra poco ti presenterò assieme a tutti i tuoi nuovi compagni».

    Osservò ancora una volta il mio volto preoccupato, scandendo le parole per apparire più convincente possibile e disse: «Stai tranquillo, te le darà Suor Giuditta tutti i giorni all’ora di merenda».

    Così feci, ma si rivelò un errore, perché sicuramente di tutte quelle robe buonissime riuscii a mangiarne appena la metà, l’altra, fu sequestrata senza preavviso dall’ineffabile suor Giuditta.

    Mettemmo nel comodino la roba intima e riscendemmo con la valigia le scale, facemmo pochi passi nel porticato ed entrammo in un locale a forma rettangolare, molto più piccolo però della camera da letto, ma di uguale larghezza. Al lato sinistro della porta a vetri si trovava la cattedra con accanto una lavagna, sopra la cattedra c’erano pochi libri e al centro spiccava una solida riga di legno. Seduta a una sedia vi era un’anziana suora, vestita con la solita tunica nera, però la bavaglina era girata dal lato più corto, ed era quasi di color grigio, tanto era sporca. Aveva un viso tondo, con occhiali cerchiati con le stanghette dorate, gli occhi cerulei, il naso piatto e grosso, sotto il mento aveva una rada barbetta. Di fronte alla cattedra c’erano quattro file di banchi, dove sedevano i miei nuovi compagni di sventura.

    Le cose che mi rimasero più impresse in quel momento, furono il silenzio e l’ordine che regnavano nell’aula. Allora non capii, ma in seguito mi sarebbe stato chiaro anche questo.

    La religiosa si alzò, era grassa e flaccida, mi fece un sorriso mostrando una dentiera nuova di zecca e disse: «Benvenuto tra noi, Giuliano Giuliani». Poi si voltò verso i banchi ed esclamò: «Ragazzi salutate».

    S’alzò un coro di ciao a cui risposi semplicemente: «Buon giorno a tutti».

    La suora disse allora: «Vai a sederti lì» indicando con il dito indice della mano sinistra l’unico posto libero che si trovava in prima fila, dalla parte dell’entrata. Poi si rivolse a Carmen e disse: «Lasciami la valigia e quando finiremo il doposcuola, accompagnerai questo bel giovanotto in lavanderia, gli devono dare la divisa». Infine sorrise soddisfatta, come colei che donava chissà cosa.

    La divisa dei piccoli consisteva in un maglione di lana grezza blu e un paio di pantaloncini corti di colore grigio scuro, che ci facevano soffrire il freddo pungente alle gambe durante le giornate invernali.

    Di quel periodo abbastanza tormentato, che durò poco meno di due anni, il tempo di frequentare la quarta e la quinta elementare, ricordo molto poco; ma non ho dimenticato ancora oggi il sapore salmastro delle lacrime versate durante le lunghi notte insonni. Di giorno non piangevo, perché temevo di subire punizioni di ogni tipo inflitte da Suor Giuditta e la derisione dei compagni.

    Ricordo anche il tintinnio di una campanella che scandiva il tempo della mia vita: il risveglio al mattino, le ore di preghiera, l’inizio e la fine della colazione, del pranzo e della cena, l’inizio del riposo notturno. Anche i nostri giochi erano segnati dal suono energico della scampanellata.

    C’è da rilevare un fatto molto importante, che avrebbe avuto conseguenze sulla mia formazione. Per tutto il tempo che restai con suor Giuditta e Carmen non ebbi modo di avere contatti con persone esterne, e nemmeno con i ragazzi e gli istruttori del reparto grandi. Solo mia madre veniva a trovarmi quasi tutte le settimane e mi portava le solite cose buone che servivano a integrare il magro pasto che ci veniva servito nell’istituto. A volte andavo a trovare nella biblioteca dell’orfanotrofio Don Giovanni, il responsabile spirituale dell’istituto. Con lui facevo lunghe discussioni sul perché mi trovavo lì nel luogo meno adatto per me, lontano dalla mia famiglia, e se Dio voleva che mio fratello Angelo vivesse con mia madre. Altro discorso era chiedere al religioso, il significato profondo e il fine ultimo della morte prematura del mio povero babbo. Ci fosse stata una sola volta che il sacerdote trovasse le parole giuste, non dico per convincermi, ma almeno per consolarmi. Mi diceva sempre parole banali, che mi avrebbe detto una persona qualsiasi, oppure mi invitava a recitare per bene le preghiere, mattina, mezzogiorno e sera, e a chiedere al Signore di proteggere tutte le persone che amavo, perché solo Lui aveva il potere di provvedere a tutto, noi dovevamo accettare la Sua volontà.

    Poi, quando finiva di invitarmi a pregare, io testardo non facevo altro che domandare e chiedere mille spiegazioni che non arrivavano mai. Dovevo capire dopo pochi anni, a mie spese, che le persone che lavoravano nell’orfanotrofio, erano disposte a dare poche spiegazioni; naturalmente c’erano istitutori che non si comportavano così, ma erano le eccezioni che confermavano la regola. Insomma loro erano abituati a comandare e a farsi obbedire con le buone o meglio ancora con le cattive.

    In compenso facevo lunghe passeggiate pomeridiane e serali con la mano sotto il braccio di Carmen, lungo il porticato della piazzetta quadrata. L’occasione di mettere sistematicamente una mano sotto l’ascella del mio angelo custode, si rivelò a lungo andare l’inizio dei miei primi pruriti sessuali. Perché quando stavo per finire la quinta elementare, Carmen con molta malizia trovò modo di creare un pertugio nel camice, quasi sotto l’ascella, che mi permise di raggiungere con la mano il grande seno e palparlo per bene. Però, a dire la verità, non mi resi conto del perché alcune volte l’ascella della Carmen era sudaticcia, altre volte tersa, ed emanava un ottimo odore. Scoprii molto tempo dopo che la mia assistente odorava, quando aveva un appuntamento in qualche bagno del reparto grandi, con due bei fusti, e durante i loro incontri furtivi succedeva di tutto. Oppure quando trascorreva il suo tempo libero nell’ufficio del Censore, che era un grande amatore. Infine, scoprii che molte volte a notte fonda c’era un istitutore che la raggiungeva dietro l’unico separè della nostra camerata.

    Le cose che ricordo con dispiacere sono molte e molto dolorose. Le punizioni che ricevevamo a turno, o tutti insieme, da Suor Giuditta, ogni qualvolta disobbedivamo a qualche suo ordine, in verità bastava anche un nonnulla per esser puniti e le pene inflitteci erano

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