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Lo scrigno delle cicale
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E-book125 pagine1 ora

Lo scrigno delle cicale

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Info su questo ebook

Volume vincitore del bando NUOVE OPERE (settore Libro e Lettura) promosso nel 2016 dalla SIAE, Società Italiana Autori ed Editori, in collaborazione con il MIBACT.
LinguaItaliano
Data di uscita30 dic 2017
ISBN9788864791913
Lo scrigno delle cicale

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    Anteprima del libro

    Lo scrigno delle cicale - Annalisa Molfetta

    21 luglio 1963,

    davanti al sole che tramontava corrusco

    «È lei la signorina che ha chiesto di parlarmi?».

    Una sagoma scura era apparsa accanto alla panchina dove sedeva Adele. La ragazza alzò lo sguardo e, davanti al sole che tramontava corrusco, poté distinguere un volto dai tratti decisi, su cui spiccavano un naso affilato e occhi mobili, vivacissimi. Il taglio sottile delle labbra dava alla sua espressione un tono determinato.

    «Sì. Lei è il signor Davide Colombo?», chiese mentre si alzava.

    «Precisamente».

    «Adele Amato, molto lieta», rispose, tendendo la mano morbida, sottile, ardita, che Davide strinse e tenne tra le sue per alcuni istanti, come se volesse estorcere delle rivelazioni da un soldato disperso, lontano dal suo esercito, ma che purtroppo si rivela fedele e ritroso.

    Davide ebbe così modo di studiarla in volto. Lei dovette accorgersi di quella lunga analisi, perché sembrò schermirsi quando fece scorrere le dita sulla fronte, per liberarla da un reticolo di capelli chiari, che vi restavano ostinatamente incollati su un’impalpabile patina di sudore, infastidendo i grandi occhi verdi. Di fronte, sul cielo del tramonto che sembrava fatto d’una uniforme carta dorata, si stagliava la sagoma familiare del Cupolone, e tutto intorno a lei, sui giganteschi corridoi che costeggiavano il Tevere, brulicava la millenaria vita quotidiana della Capitale, nel fervore della sua eterna, disillusa giovinezza, nella gaia sveltezza del sacrificio con cui si battezzava il nuovo inizio degli anni del boom. Delle campane risuonavano in lontananza.

    «Sediamoci», la invitò lui.

    Adele tornò a sedere componendosi, con una mano, la gonna color cammello sotto le cosce, mentre con l’altra teneva in grembo un cofanetto di legno. Dal modo compunto e deciso con cui lo custodiva, Davide capì che il suo contenuto aveva qualcosa a che vedere con ciò che lei doveva dirgli.

    «Allora… mi dica pure, signorina».

    Adele accarezzava sempre la scatola di legno, la forbiva con le mani come se la stesse plasmando in quel momento. Era un movimento ipnotico, Davide ne restò ghermito. A un tratto Adele si fermò, si voltò a guardarlo: il colore screziato dei suoi occhi e quella lucida intensità gli trasmisero l’eccitazione di chi sta giungendo al compimento di una missione. E Adele infatti sussurrò: «Rabbi…».

    Davide rimase attonito. Non per il titolo (tutti i giorni, in ogni occasione, i fedeli si rivolgevano a lui con quell’appellativo, con quel «maestro, signore» che lo onorava, lo inteneriva, lo faceva sentire pieno fino all’insostenibile di responsabilità e di aspettative altrui, e contemporaneamente gli scavava intorno sordamente un solco di solitudine), no, non per il titolo, ma perché per la prima volta gli veniva graffiato in faccia, gli veniva raschiato nelle orecchie da una giovane donna, una sconosciuta che sembrava essere arrivata da lui col solo scopo di dirgli «Rabbi…», di specchiarsi nel volto designato da quelle due sillabe, come un cavaliere errante si identifica nella sua meta, in ciò in cui la sua impresa trova realizzazione.

    Dopo aver sospirato quella parola, Adele infilò un dito sotto il bordo della scatola.

    «Cosa ha lì dentro?», chiese il giovane rabbino.

    Adele riuscì solo a dire un «Oh…» lungo e quasi sensuale, che Davide bevve dalle sue labbra, come da un calice colmo di vino, percependo subito una profonda nostalgia, una mestizia legata al passato, o forse un debito d’affetto allacciato a relazioni perdute nel tempo…

    «È una storia molto lunga. Potrebbe esserlo… se lei volesse sentirla».

    «Ne sarei incantato».

    «Ci potrebbe volere più tempo di quanto immagina», lo avvisò Adele.

    Spero invece che ce ne voglia tanto quanto ne desidero, avrebbe voluto rispondere l’altro, ma decise di essere più prudente e insieme di porgerle un’informazione che non sembrasse provocatoria: «Non ho famiglia che mi aspetti».

    Gli sarebbe piaciuto sorprendere, in quel momento, nei suoi occhi, il balenio di una tentazione, una malizia anche soltanto accennata e subito repressa, ma che lui sarebbe stato in grado di cogliere, eppure, niente: sugli occhi di Adele calarono con modestia le palpebre dalle folte ciglia. Lei trasse un profondo respiro; lui, impercettibilmente, cominciò a farsi più vicino.

    21 luglio 1939,

    di buon mattino

    Tra le abitudini della giovane maestra di Castelvecchio c’era quella di scendere una volta alla settimana a casa di Dina, ai piedi del paese, per comprare uova e formaggi. Allora Daniele Russo, che da qualche tempo non faceva altro che studiare le giornate della signorina, imparandone in breve tutti i metodici movimenti, in quel giorno di luglio, di buon mattino, s’era messo ad aspettarla dietro un enorme pino marittimo che spuntava da un gomito della strada.

    Questa strada sterrata abbracciava, con una certa rude sveltezza, la costa rocciosa sulla cui cima sorgeva il paesello, nel punto in cui essa, da scoscesa ch’era, cominciava ad appiattirsi, fino a quando non lasciava cadere nel mare che dei piccoli scogli isolati; sicché, osservando la falesia dal mare – come accadeva ogni giorno ai pescatori e, qualche miglia più oltre, agli sparuti abitanti dell’isola di San Domino di Tremiti – si sarebbe detto che il promontorio, che era composto verso la cima di rocce tanto maestose da sostenere un intero paese, perdendo man mano di quota perdesse anche di gagliardia, e che quasi si intimorisse per la sempre più incombente presenza del mare, dei flutti, della spuma, e che docilmente si inginocchiasse, giungendo al loro cospetto.

    All’incirca alla metà di questa altezza, dunque, appostato strategicamente nel punto cieco di un tornante, Daniele passeggiava su e giù per un breve tratto di sassolini bianchi e aghi di pino: non poteva appoggiarsi al tronco, perché indossava una giacca che sembrava ancora nuova. Poi, alzato il cappello sulla fronte, aveva voluto accendersi una sigaretta – per darsi sicurezza. Ascoltava il tenue fermento nella macchia alle sue spalle, mentre andava ripetendosi in mente le frasi.

    Ben presto, un aggraziato scalpiccio sulla ghiaia gli diede il segnale. Precisa come un orologio, la maestrina. Schiacciò malamente la cicca a terra – uno spreco che non poteva certo permettersi sempre. Quando l’ebbe vista avvicinarsi, e si fu assicurato che fosse sola, si fece avanti e cavatosi il cappello salutò:

    «Buongiorno, Italia».

    «Buongiorno, Daniele», rispose quella, continuando a camminare per nascondere lo spavento e per dimostrare che ovunque dovesse andare, intendeva arrivarci al più presto possibile, senza perdite di tempo.

    «Posso disturbarvi?», insistette però Daniele.

    «Disturbare quante persone? Ci sono solo io», rispose la maestra, finalmente fermandosi, ma tenendosi a una buona distanza.

    «Ma no, a voi, Italia: a voi».

    «Ho capito benissimo, ma almeno quando non c’è nessuno ad ascoltare diamoci del tu come nei paesi civili, per favore. Cosa c’è? Non trattenermi a lungo: la gente chiacchiera per niente», disse facendo col capo cenno in alto, dove si artigliavano al promontorio le prime case del paese, piene d’occhi come ramarri.

    «Lo capisco, sai, il tuo disgusto per il provincialismo di queste cittadine…».

    «Daniele, l’avevo immaginato che tu cercavi la chiacchiera, però io non ho tempo, dunque ti saluto», fece la maestra con sussiego, e si voltò riprendendo il cammino.

    «No, no, fermati. Italia, insomma! Figurati se io… Per favore, fermati!» e la prese per un polso. Lei gettò uno sguardo stupito su quella stretta e stava per rispondere a tono e divincolarsi quando l’altro le fece, serissimo: «Italia, tu… hai bisogno d’aiuto?».

    A questa domanda per un attimo sul bel volto di Italia si impresse la consapevolezza che il tenore della conversazione non era quello che lei si era immaginata. Per prudenza, scelse di ostentare naturalezza e rispose: «Grazie, so badare a me stessa».

    Daniele allora le piantò meglio gli occhi in faccia: «Italia, io so che tu hai bisogno d’aiuto». Le si fece vicinissimo e le bisbigliò in un orecchio: «I tuoi nipoti. Dove sono adesso?».

    Si allontanò dal suo viso, in tempo per vedere che ancora una volta lei cambiava espressione, e questa volta dalle narici frementi, dalle labbra schiuse, dagli occhi impietriti egli comprese di essere riuscito a infonderle la paura. Dopo un momento Italia si liberò seccamente dalla sua stretta. «Qu… quali nipoti? Cosa volete che ne sappia? Voi state commettendo un errore!».

    «Voi?», ribatté Daniele, sardonico. «Gli altri sì, stanno sbagliando, ma non io. Tutti sanno che tua sorella ha sposato quell’ebreo di Roma, e tutti si immaginano che la loro posizione attuale non sia delle più comode. Ma io so anche altro: la notte dormo poco, Italia, e abito di fronte a te. Una ventina

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