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Lo strano caso di Edmond Dantes e del gatto Pablo
Lo strano caso di Edmond Dantes e del gatto Pablo
Lo strano caso di Edmond Dantes e del gatto Pablo
E-book418 pagine3 ore

Lo strano caso di Edmond Dantes e del gatto Pablo

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Info su questo ebook

Edmond Dantes Calligaris è un uomo irrisolto, ma immerso nel confortante equilibrio di una vita appartata, trascorsa in compagnia del suo gatto Pablo, comprensivo compagno di abitazione. Ma un giorno, nel bel mezzo dell’estate, è raggiunto dalla telefonata di Ennio Gherini, un facoltoso imprenditore veneziano, che lo convoca a Duino. Giunto sul posto, Edmond riceve un’offerta di lavoro: formulare un’ipotesi di paternità per una tela ritrovata durante il restauro del Castello Vecchio; e, soprattutto, conosce Iris, la giovane assistente dell’ingegnere. Solo le inattese e intense emozioni suscitate dalla ragazza spingeranno Edmond ad accettare la proposta. Egli si addentrerà così, fatalmente, negli intrighi dell’ambiguo imprenditore veneziano e sarà costretto a riaffrontare il proprio passato.
LinguaItaliano
Data di uscita22 feb 2021
ISBN9788893782180
Lo strano caso di Edmond Dantes e del gatto Pablo

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    Lo strano caso di Edmond Dantes e del gatto Pablo - Vania Russo

    Lo strano caso di

    Edmond Dantes e del

    gatto Pablo

    di Vania Russo

    Panda Edizioni

    ISBN 9788893782180

    © 2021 Panda Edizioni

    www.pandaedizioni.it

    info@pandaedizioni.it

    Illustrazione di copertina: Tommaso Brusegan

    Proprietà riservata. Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata, fotocopiata o riprodotta altrimenti senza il consenso scritto dell'editore. Nomi e marchi citati nel testo sono generalmente depositati o registrati dalle rispettive ditte produttrici o detentrici.

    I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera, nonché i nomi e i dialoghi ivi contenuti, sono unicamente frutto dell'immaginazione e della libera espressione artistica dell'Autore.

    Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.

    Chi ci ha così stravolti che qualunque

    cosa facciamo siamo dentro al gesto

    di chi va oltre? Come dalla cima

    del colle estremo che gli mostra intera

    per un’ultima volta la sua valle,

    lui si volta, si ferma, ancora indugia,

    così viviamo e ci diciamo addio.

    R. M. Rilke, Elegie Duinesi

    Capitolo 1

    Quella mattina di giugno Edmond Dantes si era accostato al davanzale di pietra bianca e consumata, davanti alla finestra spalancata. Era sveglio, ma ancora rallentato dal torpore. Aveva il caffè fumante nella mano sinistra, a scaldare le dita e a soddisfare il suo intimo bisogno di confortante ritualità giornaliera. Fuori dalla stanza c’era il mondo diviso in due: il sopra di un celeste terso, volto del cielo; il sotto di un bianco evanescente, velo di quella foschia che negli ultimi respiri di primavera si alzava fumando dai campi, dalle strade, dai tetti, dalle grondaie, dalle chiome vaporose degli alberi. Per una persona che non avesse la passione per i dipinti che aveva lui, quella sarebbe stata una levataccia mattutina e basta, ma per Edmond lo scenario stranito dalla nebbia era un disegno da ammirare nel dettaglio, mentre si lasciava lusingare dalla forza della meraviglia e del mistero che per lui spiccavano ovunque, come impressioni isolate in mezzo alle circostanze dei fatti quotidiani.

    Impressionismo.

    Comunque quella mattina la foschia era così concreta da consumare i contorni dei palazzi e imbiancare il tracciato della grande via grigia distesa dalla piazza alla sua finestra. Da quella contemplazione artistica emersero pensieri umidi di vecchie memorie. Normalmente riusciva ad accantonare i ricordi, evitando di rivangare errori e dolori; ma non sempre andava bene, non sempre ci riusciva, perché la prospettiva accesa dalla memoria faceva apparire le cose più grandi, isolandole dalle umili contingenze del tempo.

    Il profumo aleggiante della resina dei pini nel Piazzale dell’Unità, imprigionato nel vento insieme a uno schizzo pungente di menta, lo provocò. E lui lo respirò.

    Chiuse gli occhi: Dio, che potenza avevano i profumi! Rivide se stesso bambino dentro una campagna bruna, con i campi a vigneti, le stradicciole assolate, le staccionate schiodate e pericolanti, il salto dei fossi pieni di pioggia. Da quella visione prese il volo d’anima verso Vienna, lo spirito europeo, i suoi fiumi solenni e l’odore dei pini intorno alla reggia della capitale austriaca.

    E, infine, rivide un volto di donna su cui spiccavano magnifici occhi scuri: incantevoli, intensi, sofisticati. Si emozionò, indietreggiò e scappò dal ricordo di quell’amore consumato dal tempo e dalla fatica di amare, giustificandosi con la candida verità che quella fosse una strada percorsa da gran parte dell’umanità.

    Si girò verso l’interno dell’appartamento, bevendo tutto in un sorso il caffè e riponendo la tazza sul primo ripiano disponibile, tra l’altro già ingombro di altri bicchieri sudici. Sbadigliando stiracchiò le braccia nude e poi raccolse una camicia chiara dalla spalliera di una sedia, vestendosi lentamente per poter osservare senza fretta il suo coinquilino: Pablo, comodamente acciambellato e dormiente sul divano verde acido. Era il miglior amico di stanza che si potesse desiderare o, quantomeno, Edmond non ne desiderava altri, soprattutto perché Pablo era un gatto: uno splendido esemplare di certosino dal pelo grigio.

    Vivevano insieme da qualche mese in quella stanzetta, che fungeva anche da laboratorio per Edmond – restauratore di professione – ed era proprio di fronte alla Galleria d’Arte Contemporanea, lì a Gradisca di Isonzo. Il gatto, da tempo ospite della pinacoteca e dell’anziano custode Peppino, aveva notato Edmond quando questi, mesi prima, si era trasferito proprio lì di fronte, in un appartamento consumato al secondo piano, e si erano subito presi l’un l’altro. Alla prima lisciata di pelo, Pablo aveva annusato sulle mani di lui l’odore intriso del pigmento di certi quadri, di lino, di acquaragia, di cotone, di tela antica. E ne era rimasto conquistato. Dopo qualche tempo, Edmond si era accorto che quando Pablo si fermava davanti a uno dei dipinti portati in laboratorio per procedere al restauro, ne veniva rapito completamente, li sfiorava con il muso, restando assorto come fosse in contemplazione di qualcosa.

    Era come se quel micio dall’aria sorniona sapesse che ogni quadro aveva un suo preciso odore e, a ben ascoltare, anche un suono, e si era convinto di aver trovato in Pablo qualcuno in grado di condividere con lui quello che fin da piccolo si era abituato a considerare come un particolarissimo dono, una specie di settimo senso con il quale fosse possibile entrare nei dipinti e carpirne il significato più profondo. Spiegarlo non era possibile; lui non c’era mai riuscito e, forse, non ci aveva nemmeno mai provato. Comunque, da amante dei gatti, era stato felice di ritrovarsi quel certosino tra i piedi, fin da quando era entrato nel suo appartamento – e nella sua vita senza invito.

    Si avvicinò al signore dei divani, si accovacciò al suo fianco, appoggiandosi al bordo, e gli dedicò una profonda carezza. L’altro rispose con un ronzio sottile, ma non aprì gli occhi né rinunciò alla posizione di assoluto e appagato riposo.

    «Vagabondo: la notte in giro e il mattino a dormire, non è dignitoso...»

    Nessuna reazione. Edmond scosse la testa e si sollevò dalla posa piegata, ma nel farlo urtò una cornicetta troppo esposta alle cadute sul bordo di uno scaffale pieno di barattoli, latte, vernici, colle, solventi e acrilici. La foto cadde a terra dalla parte del vetro, producendo un rumore metallico e sordo. Inquieto, la sollevò e controllò subito che non si fosse danneggiata, ma il vetro si era spaccato nel centro. Osservò l’immagine oltre l’incrinatura e incontrò nuovamente il volto della giovane donna bruna che gli era tornata in mente durante le sue meditazioni mattutine, da naufrago nella nebbia.

    Rimase a fissarla in modo quasi inconsapevole, ma poi sollevò il braccio e la ripose su uno scaffale più alto e dunque più sicuro; più lontano. Avrebbe dovuto aggiustare il vetro e annotò quel dato da qualche parte nella mente, mentre continuava ad abbottonare la camicia.

    Con passo tranquillo, godendo dell’intensità crescente della luce del giorno, si avvicinò a uno sgabello posto innanzi a un treppiedi su cui era messa in opera una cornice dall’aria preziosa, stile barocco, ornata da raffinati ghirigori e gorgheggi visivi in oro. Una volta sedutosi, allungò il braccio sinistro e attirò a sé un tavolino su cui aveva appoggiato un’infinità di attrezzi da restauro. Per prima raccolse e indossò una visiera binoculare e dunque infilò dei guanti in lattice e una mascherina bianca di cotone su labbra e naso. Poi, tenendo le lenti ancora sollevate, scelse uno dei barattoli di latta, pieno di resina epossidica, dall’odore di corteccia umida, e iniziò a tastarne la consistenza con un bastoncino. Una volta pronto il preparato, abbassò le lenti d’ingrandimento sugli occhi e si sporse in avanti, cercando il punto da riparare: quello era il momento più delicato e doveva procedere con estrema cautela.

    Ovviamente, il cellulare iniziò a vibrare e squillare. Lui si bloccò. Ci pensò. Decise di ignorarlo. Le tonde orecchie di Pablo si erano immediatamente orientate verso quel suono insistente. Ma a quel punto la chiamata s’interruppe, seguì la quiete, dunque un nuovo fastidioso tentativo che fece vibrare e squillare l’apparecchio una seconda volta.

    «Va bene, ho capito», mormorò arrendendosi, ma senza malumore, con una misurata, luminosa gentilezza.

    Abbandonò il lavoro e raggiunse il cellulare che si agitava sul tavolo. Controllò il numero: non era in rubrica. Esasperato dallo squillo, cercò inutilmente di far interagire il display con le dita inguainate nella gomma. Infine, sconfitto, tolse il guanto e accettò la chiamata.

    «Pronto?», rispose più nervoso di quanto avrebbe voluto, per cui aggiunse subito un più cortese, «Chi parla?»

    «È il professor Edmond Dantes Calligaris?»

    Era un voce maschile, ruvida, scontrosa. Edmond si trattenne, incerto sul cosa replicare: c’era un qualcosa di significativo in quella richiesta, di preoccupante.

    «Parlo con il professor Calligaris?», insisté quello dall’altra parte.

    «Sì, sono io».

    Capitolo 2

    L’utilitaria nera era comicamente ricoperta di fango quasi fino al tettuccio, e avanzava su una strada che era più buche che asfalto; buche parecchio insidiose. Imprigionato nel trasportino sul sedile posteriore, Pablo sottolineava ogni sobbalzo con miagolii semi disperati, fino a quando quando l’auto frenò all’improvviso e il trasportino si ribaltò, andando a incastrarsi tra sediolino e sportello dopo almeno tre capitomboli.

    Edmond corse immediatamente a soccorrerlo: aprì lo sportello e sollevò la gabbietta, rimettendola al suo posto.

    «Scusa, Pablo», gli disse sorridendo, con gli occhi azzurri accesi di affetto.

    La risposta fu un miagolio di cortesia, poi seguì l’uscita elegante sinuosa, con aria offesa, non appena la porticina della piccola prigione fu aperta.

    «Se tu avessi mangiato un po’ meno, non avresti sofferto tanto l’auto».

    Il legame tra loro scioglieva i nodi della tensione; ogni tensione si dileguava quando si toccavano. Preso in braccio, il micio si appollaiò in una posa abituale, beandosi dell’odore familiare che colse strusciando il muso sui vestiti del suo umano, per poi mettersi comodo con tutta la sua stazza massiccia, compatta e muscolosa. Fu stando in quella posizione, altolocata e di favore, che gli occhi felini, di un liquido color rame, iniziarono a ispezionare ogni angolo di quel luogo sconosciuto.

    Edmond si inoltrò, ammirando la bellezza storica, e gustando quella sensazione di appartenenza al passato che lo coglieva davanti agli antichi castelli diroccati, suscitando in lui una potente volontà di esplorazione. Il gatto sembrava tranquillo, solo il profumo allettante di salsedine – e pesce – ogni tanto gli faceva issare la grossa coda in un ricciolo di curiosità.

    «Ti piace questo posto?», domandò, come se fosse certo della rispondenza del certosino. «Siamo a Duino, diretti al Castello Vecchio. Vedrai, lo troverai suggestivo».

    Duino era un borgo di case storiche con la sua chiesetta, quasi un presepio. Sorgeva attorno al Castello Nuovo, una dimora signorile che dominava il panorama dallo sperone più alto di roccia carsica. Poco al di sotto, su uno scoglio distaccato dalla costa, c’era un rudere, un fortilizio proteso in un affaccio maestoso e impervio oltre il ciglio dell’affascinante riviera di bianche falesie a perpendicolo sul mare che grattava dal basso la rupe grigio ferro. Tra gli scogli a strapiombo c’era una forma distinta, quasi aggrappata con disperazione alla parete carsica. Il vago e profondo tono di mistero della voce del mare sembrava suggerire che quello fosse il profilo di una donna, avvolta dal bianco e sorretta da qualcosa a un passo dalla caduta nel blu delle onde.

    Dopo aver varcato una cancellata semi divorata da arbusti e cespugli secchi, Edmond mise a terra il gatto e si avviò per una ripida discesa di erba bassa e sassi lungo un sentiero che costeggiava la vista del mare. Da lì a un certo punto si affacciò per contemplare i lineamenti di pietra dello scoglio a forma di donna.

    La leggenda della Dama Bianca gli echeggiò nella mente. La struggente storia di una bellissima fanciulla, oggetto dell’ossessiva gelosia del signore del castello suo sposo, che arrivò a gettarla dalla rupe perché morisse nei flutti. Secondo la tradizione fu Dio a tramutarla in roccia, per preservarla dalla fine orribile. Gli occhi di Edmond s’incupirono e il volto si alleggerì in un’espressione assente.

    «A volte l’amore non basta», mormorò.

    La voce, in genere corposa e gentile, suonò flebile e come raccolta intorno a parole non dette. Pablo miagolò, quasi avesse colto quel turbamento.

    «Andiamo, ci stanno aspettando», disse, riprendendo a camminare.

    Il certosino si voltò a fissare ancora un momento il muto profilo dello scoglio, e poi si rimise in marcia.

    ***

    I piedi cercavano spazi più ampi tra spuntoni, ciuffi d’erba e pietre. Edmond non smise mai di ponderare l’avanzata, soprattutto quando, superato un antico arco di porta in pietra, si ritrovò a scendere una specie di scalinata irregolare, fatta di massi di varia misura, piuttosto pericolosa. A sinistra del camminamento c’erano rocce e arbusti con rami sporgenti dalle punte simili a dita rinsecchite e annerite dall’impietosa aria di mare. Il volubile rumoreggiare delle onde inspessiva la malinconia del luogo già segnato dai resti sventrati del castello.

    Inevitabilmente, la mente andava ai velieri, alle galee, alle battaglie d’acqua e di terra, alla vita e alla morte, alla patria da difendere e allo straniero, figlio lui pure di un’altra patria, da qualche parte, su un altro mare o magari sugli appigli rupestri di una qualche lontana montagna. In luoghi come quello si finiva per ponderare il potere del tempo e la forza degli elementi.

    Edmond continuò ad avanzare, questa volta trovandosi a salire una seconda scalinata di sasso, fino ad avvicinarsi alle rovine, con sempre più suggestione in animo. Si fermò a ridosso del torrione del Castello Vecchio, messo in sicurezza per via dei lavori di restauro. Appoggiata alla parte rocciosa c’era un’anacronistica scaletta di alluminio, collegata a un’impalcatura che consentiva di salire a quello che rimaneva del secondo piano, severamente danneggiato. Alzò la testa per curiosare il più possibile all’interno di quelle mura sofferenti: dal basso s’intravedevano due finestrelle, una quadrata e una più incassata, a ogiva veneziana. Nel frattempo, Pablo se ne stava seduto sull’erba arricciata dalla salsedine, le orecchie protese in avanti, i sensi all’erta, la coda in spostamento ritmico e incuriosito.

    Edmond toccò una delle pareti: un turbamento violento lo raggiunse, facendolo quasi trasalire. Improvvisamente, gli parve di vedere uomini in arme e arcieri sulle mura, nella foga della lotta.

    «Devono aver combattuto molte battaglie, qui...». Pablo allungò la testa e allargò narici e bocca per cogliere l’odore intenso del luogo. «Lo senti anche tu?», gli chiese Edmond.

    Non era più solo salsedine, c’era un profumo strano nell’aria, simile all’odore di certi dipinti antichi, raffiguranti edifici avvolti nel mistero. Il sole era sparito di nuovo e benché fosse ormai inizio estate, un respiro freddo li sfiorò. Dall’alto un corvo nero, appollaiato e immobile come una gargouille di pietra, li stava fissando, tenendo d’occhio soprattutto il grosso gatto.

    Capitolo 3

    Edmond procedeva guardingo a causa dell’intralcio di radici e massi dismessi che ricoprivano il sentiero. Era inquieto. Non c’era un reale motivo per esserlo, ciò nonostante non si sentiva tranquillo.

    Guardò di nuovo il mare, spingendo la vista fino al golfo di Trieste, ma poi la distolse dall’immensità levigata d’azzurro brioso e la rinchiuse nello spazio esiguo di un’arcata di pietra, oltrepassata la quale vide le alzate sopravvissute di un’altra scala e, oltre queste, un ambiente quasi circolare, ma spezzato in ogni direzione, tanto che non c’era alcuna continuità tra una parete diroccata e l’altra.

    Nello spiazzo ammorbidito dall’ombra smeraldo dell’erba, da dove emergevano come isole in un lago verde degli spuntoni sbrecciati di massi staccatisi dalla struttura madre, c’erano due figure accostate. Edmond si fermò. Erano un uomo e una donna. L’uomo era drasticamente radicato al suolo con le gambe corte e massicce e puntava le mani ai fianchi; la donna dondolava tutto il corpo impercettibilmente, cullandosi in una posa morbida, con il braccio destro intorno al petto e il sinistro appena sollevato, e la punta delle dita ad accarezzare la guancia nascosta. Taceva, ascoltando quanto l’altro stava dicendo.

    Edmond si portò un poco più avanti.

    Il profilo di lei era bordato d’un alone di luce dal riverbero limpido e chiaro sulla pelle, ma dorato sui capelli lunghi e serici, dal colore indefinibile a quella distanza. Il lungo collo piegava di lato, prestando orecchio alla voce del compagno, conferendo alla posa il tormento e la passione di una donna del Modigliani. Edmond fu conquistato dalla stessa tensione di conoscenza che lo coinvolgeva innanzi a un dipinto. Non smise di guardarla, non smise. Era un’estasi artistica, che nel corpo di quella ragazza diventava di carne e sangue. Era come l’improvvisa rivelazione che si apre in un istante, rendendo il senso pieno di quel che c’è prima di quel singolo istante, e qualunque cosa ricapitola nello spazio incalcolabile di quella minuscola impressione rivelata.

    Edmond respirava a labbra schiuse. Tutta la figura di lei, nel suo perfetto disegno d’insieme, era in quel momento assorbita dalle rovine e dal loro incanto di tempo e spazio sospesi e inestimabili. La sua vitale bellezza era rinchiusa dentro gli archi spezzati, insieme agli spicchi di cielo tinto del grigio multiforme delle nubi. C’era un qualcosa di commovente in quella imperfetta perfezione.

    Lui non avrebbe mai voluto spezzare l’incantesimo, ma Pablo si esibì in un lungo e teatrale miagolio e lei si voltò, attirata immediatamente da quel richiamo. Così fissò prima il certosino e poi lui. Entrambi rimasero prigionieri di quello sguardo per un istante infinito. Forse lei sorrise.

    «Il professor Calligaris?», domandò a quel punto l’altro uomo, giratosi a sua volta.

    Così dicendo, si tolse gli occhiali da sole a specchio, mostrando occhi piccoli, scuri, strani, forse perché messi su un volto gonfio, reso ancora meno gioviale da una barba non folta ma compatta, grigia. Per il resto era quasi del tutto calvo, con l’indecisione a cadere di qualche ciuffo di capelli che spuntavano radi e tristi, accasciati come alghe unte.

    «Sono io», assicurò Edmond. «Ma non mi chiami professore per carità, mi mette a disagio».

    «E perché? Non se lo è guadagnato

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