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Melodia fatale
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E-book560 pagine7 ore

Melodia fatale

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Info su questo ebook

Diritti di traduzione venduti in Spagna, Argentina, Messico, Cile /Translation rights sold for Spain, Argentina, Mexico, Chile Homo homini lupus. Pedetemptim vestigia ac signa. Uno strano messaggio in latino, accompagnato da un CD contenente poche note di una irriconoscibile melodia, accoglie l’ispettore dell’Europol Tobia Allievi al suo arrivo a Ginevra. La notte stessa uno spietato serial killer gioca la prima mossa di un’avvincente partita a scacchi nella quale le regole del gioco sono dettate da frasi latine, da frammenti di fotografie e da lettere dell’alfabeto riportate sul retro delle fotografie stesse. Affiancato nelle indagini dall’ispettore Philippe Lacroix della polizia cantonale, Allievi integra nella sua squadra una giovane esperta di terminologia, Domitilla Di Mauro, per affrontare l’assassino ad armi pari. Un’aspra rivalità tra i due ispettori accompagna la caccia al killer. Per avere la meglio in questa competizione, Allievi dovrà giocare tra falsità e verità, come lo stesso assassino. Melodia Fatale ha conseguito i seguenti premi: - Menzione d'onore al XVI Premio letterario internazionale "Firenze Capitale d'Europa" - Diploma d'onore al Premio letterario "Il Golfo" di La Spezia 2014 - Premio Emotion al Concorso letterario internazionale di Cattolica 2014 Pegasus Literary Awards VI Edizione
LinguaItaliano
Data di uscita22 dic 2017
ISBN9788863937855

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    Anteprima del libro

    Melodia fatale - Alberto Ripa

    MISTÉRIA

    frontespizio_selotenga

    Alberto Ripa – Giorgio Ripa

    Melodia fatale

    ISBN 978-88-6393-785-5

    © 2013 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    A papà. Al maestro di vita.

    Tu sai perché.

    Alla tua sposa.

    All’allieva.

    A una persona sensibile, che regalò una penna

    PROLOGO

    La prima parola.

    Una debole luce nel cielo.

    Una seconda parola. Vicina, oppure lontana.

    Una nuova vittoria contro l’oscurità.

    Aveva sempre paragonato la traduzione di un testo dal latino o dal greco antico al dover navigare su un mare sconosciuto e procelloso, nel buio completo, sotto una volta celeste priva di stelle, senza nemmeno il chiarore lunare. Individuare da soli la rotta giusta tra le onde impetuose era impossibile. L’unica bussola per orientarsi era stato, e continuava a esserlo, un vecchio e consunto dizionario dalle pagine stropicciate e in parte staccate, che rivelavano e confermavano quanto fosse stato prodigo d’aiuto.

    La tecnica adottata, elaborata e affinata nel tempo, prevedeva una rapida lettura dell’intero brano dal principio alla fine, per trovare in alcune parole, ben note e dal significato inequivocabile, punti di riferimento essenziali per poter governare il timone nel modo corretto. Queste parole facevano apparire, infatti, le prime stelle.

    Una successiva lettura, più approfondita, implicava un esame meticoloso del brano, in compagnia del fido dizionario. Ogni singolo termine era soppesato ed esplorato nei suoi più svariati e insoliti significati, tra i quali era alla fine scelto quello più indicato e in armonia con il contesto che si stava delineando. Nuovi astri sconfiggevano progressivamente l’oscurità e formavano intere costellazioni.

    Un’attenta rilettura della traduzione faceva infine da verifica che il messaggio dell’autore, celato tra le tante regole e le immancabili eccezioni sintattiche, non fosse stato travisato o male interpretato, e avesse quindi ricevuto la fedele versione in una lingua moderna. Quest’ultimo controllo serviva per avere la conferma che, tra le molteplici possibili rotte, era stata scelta l’unica corretta.

    Erano stati amici inseparabili. Una simbiosi perfetta.

    Nel dizionario aveva trovato un tesoro dal valore inestimabile, una collezione unica di espressioni idiomatiche, di citazioni di celebri oratori, poeti e storici, che riprendevano vita a distanza di secoli e acquisivano il dono dell’immortalità.

    Aveva deciso.

    Era giunta l’ora di ricorrere ancora al suo aiuto, questa volta, tuttavia, con uno scopo diverso dal ridare voce al pensiero di morti: i ruoli si sarebbero invertiti.

    Altri avrebbero dovuto solcare il suo oceano tenebroso e lasciarsi guidare dalle giuste stelle, quelle che si sarebbero accese solo a condizione che le sue parole, scritte in una lingua morta, fossero state correttamente interpretate. Frasi ermetiche ed enigmatiche di un vivo che annunciavano, questa l’unica certezza, che qualcuno, in un preciso luogo, sarebbe andato incontro alla morte.

    1

    Domenica, 2 giugno 2002

    Era solo un bambino.

    Giocherellone, allegro, sorridente, bramoso di apprendere, ma ancora ingenuo e ignaro delle sorprese della vita. Pronto a emozionarsi quando, col nasino incollato al vetro della finestra, quel pomeriggio di dicembre aveva visto cadere per la prima volta fiocchi di neve dal cielo grigio sopra Milano. Impaziente che arrivasse Natale, era curioso di scoprire, giorno dopo giorno, cosa si nascondesse dietro le finestrelle numerate del calendario dell’Avvento: una slitta trainata da una renna, una candela colorata, un pupazzo di neve. Fantasioso nell’immaginare quali regali, nascosti in grossi pacchi dalla carta lucida e brillante, Babbo Natale avrebbe depositato, di notte, ai piedi del grande abete finto, decorato amorevolmente da sua madre con sfere multicolori, luci intermittenti e angioletti dalle ali dorate.

    Già allora chiudeva gli occhi e sognava: il trenino visto dentro la vetrina del negozio di giocattoli dietro l’angolo, la pista con le macchinine, l’automobile rossa a pedali.

    Era un bambino.

    Convinto che la vita fosse prodiga soltanto di gioia e di felicità, che l’unica fonte di dolore fossero le sculacciate di sua madre dopo una marachella. Non ricordava che suo padre avesse mai alzato un dito contro di lui. Lo sguardo severo e silenzioso del genitore era sempre stato più efficace di qualunque strigliata, di ogni parola di rimprovero, di qualsivoglia gesto violento.

    Di suo padre aveva ereditato il sorriso.

    Un sorriso radioso, unico, che riscaldava il cuore a chi lo riceveva, facendogli comprendere quanto buona fosse, in fondo all’animo, la persona che lo stava dispensando.

    L’ora del rientro a casa, la sera, era una specie d’esame per entrambi. Per suo padre, che avrebbe dovuto dimostrare di saper rimuovere la tensione che la sua professione di guardia giurata inevitabilmente gli procurava. E per il bambino.

    Il breve conciliabolo tra i suoi genitori nel tinello, come se quella stanza fosse stata la camera di consiglio di un tribunale, avrebbe prodotto la sentenza quotidiana, che non veniva scandita ad alta voce, ma che appariva leggibile, inappellabile, sul volto di suo padre.

    Certi giorni il bambino sapeva di essere stato disobbediente, ma non era ancora in grado di giudicare quanto e se questo si sarebbe tradotto in un sorriso tirato o nella temuta, torva occhiata di biasimo. Non erano molti, per sua fortuna, quei giorni.

    Mancava una settimana a Natale. Il bambino non poteva non essersi comportato da bravo ometto. Quella sera attendeva che suo padre rincasasse, salutasse sua madre con un bacio, ascoltasse il resoconto della giornata e, prima ancora di abbandonare l’uniforme, gli sorridesse anche con gli occhi.

    Era solo un bambino.

    Ingenuo e sognatore.

    Il telefono aveva squillato. Sua madre aveva alzato il ricevitore, aveva ascoltato in silenzio e aveva barcollato, prima di chiamare a sé il figlio e abbracciarlo, stringendolo forte al petto, ammutolita.

    Non era più un bambino. Aveva scoperto la vita.

    Era diventato un piccolo uomo, senza ancora saperlo.

    Suo padre non c’era più, ammazzato come un cane da un balordo durante un tentativo di rapina. Aveva appreso la verità alcuni mesi dopo, quando sua madre aveva trovato il coraggio di confessargliela: papà non era partito per un lungo viaggio.

    Il bambino, quel giorno, si era precipitato alla finestra della sua stanzetta. Come in tutti i serramenti dell’appartamento, anche i vetri di quella finestra erano fissati alla parte in legno con dello stucco rosso, un materiale molto malleabile. Dal giorno della strana telefonata e del conseguente abbraccio da parte di sua madre, il bambino aveva preso l’abitudine, ogni sera, di creare nello stucco una piccola incisione con la sua minuscola unghia: una tacca per ogni giornata del lungo viaggio di suo padre, una tacca più grossa per ogni settimana. Frequentava già la prima elementare, un anno in anticipo rispetto ai suoi coetanei, e aveva imparato a contare fino a cento. Le piccole tacche erano molte di più. Purtroppo, non avrebbe più avuto alcun senso arricchirne la collezione.

    Suo padre era morto. Il suo sorriso, oppure il suo sguardo severo, sarebbe stato comunque presente, la sera, al termine di ogni giornata di quel bambino.

    Come ebbe aperto la busta, Tobia Allievi avvertì subito il ragno dentro il suo animo. Una creatura in letargo, che si destava per tormentare il bambino divenuto adulto, producendo una fitta ragnatela che gli attanagliava il cuore. Il risveglio del mostro coincideva con un senso di nausea, con una premonizione di morte, e faceva affiorare tristi ricordi d’infanzia che l’ispettore capo dell’Europol di Londra non riusciva a dimenticare.

    Tobia rilesse una seconda volta il testo della lettera.

    Intuì tutto, ma si augurò di essere in errore. Si rammaricò di non aver aperto subito quella busta senza mittente, consegnatagli al suo arrivo alla reception dell’hotel Warwick di Ginevra. Trovò una labile scusa nell’assillante pensiero per la conferenza che avrebbe dovuto tenere il giorno successivo. Un’immotivata preoccupazione di parlare davanti al folto pubblico dell’HTITC, il congresso di tecniche investigative high tech. Una stupida fobia, che non gli aveva quasi fatto prestare attenzione alle parole della bionda e attraente signorina che, in un inglese perfetto, gli aveva anche accennato a un problema con i collegamenti di posta elettronica e Internet. Quelle parole erano scivolate silenziose nella sua mente come su una superficie ricoperta d’olio, priva di attrito.

    Per sfuggire alle sue paure aveva preferito concedersi subito una passeggiata in centro, per immergersi nella tavolozza di colori e respirare i profumi di una città a lui sconosciuta.

    Con la lettera in mano gli passarono di nuovo davanti agli occhi le immagini del ponte sul Rodano, della cattedrale di Saint Pierre circondata dai palazzi della Vieille Ville, del celebre jet d’eau, alto un centinaio di metri, situato nel mezzo della fontana della Rade. Sentì di nuovo il fastidioso sferragliare di un tram blu, sulle cui fiancate spiccava la pubblicità della regata Bol d’Or e di un’edizione straordinaria del Salone dell’automobile di Ginevra. Rivide l’animata discussione attorno a tre grandi scacchiere nei giardini di Place Neuve. Si ricordò di aver subito pensato a Vladimir Ripchenko, un genio dell’informatica, appassionato di scacchi come la maggior parte dei russi, che assieme a Ronggang Xu, un chimico cinese, e a Charanjit Anand, un patologo di Bombay, costituiva la London Team, detta anche LT: la sua squadra investigativa.

    Rilesse ancora una volta la lettera con il messaggio in latino a lui indirizzato. Le lunghe zampe del ragno non gli diedero tregua.

    L’incubo si era ripetuto la notte precedente. Il buio pesto. La paura. L’angoscia attanagliante. L’attesa della morte. Poi, improvviso, un bagliore di luce accecante, le lingue di fuoco spietate, l’urlo straziante. Il ritorno alla realtà e alla vita, i battiti del cuore che riprendevano il ritmo normale, le membra madide di sudore, la sensazione di freddo. Ma questa volta il risveglio era stato diverso. Era venuto il grande momento.

    Aveva dato inizio al suo piano con precisione maniacale, in compagnia del fido dizionario. Il primo messaggio era già stato spedito. Aveva avviato la stampante laser e atteso che da questa uscisse il foglio in formato A4 con la seconda frase. L’operazione con il paio di forbici era stata molto semplice. Gli strumenti di morte erano pronti. C’era stato solo un imprevisto. Al momento aveva temuto che la cosa potesse sconvolgere il suo programma. Dopo una breve riflessione aveva invece concluso che l’improvviso cambiamento avrebbe solo aumentato l’eccitazione.

    Controllò di avere preso tutto l’occorrente. Gli era stato facile procurarsi gli strumenti di morte, scelti oculatamente per dare inizio al suo piano. Diede uno sguardo, carico di disprezzo e rancore, al prigioniero, che stava ancora dormendo sotto l’effetto di un potente sonnifero, rannicchiato in posizione quasi fetale. Si eccitò al pensiero che il sorriso accennato sulle labbra della sua ignara preda si sarebbe presto trasformato in una smorfia di sgomento e dolore.

    Il risveglio per Kurt Warter fu improvviso e angosciante. Le oniriche sensazioni di piacere si erano tramutate in fitte lancinanti alle caviglie e ai polsi, immobilizzati da una corda spietata che era penetrata quasi nella carne. Pur impedito nei movimenti, vide il suo corpo procedere a ritroso, trainato da due braccia robuste che lo avevano afferrato sotto le ascelle. Tentò di urlare, invano. La sua voce non riuscì a perforare la spessa barriera di nastro adesivo incollato sulla sua bocca. Si sforzò di ricordare gli ultimi istanti di libertà. Era mattina. Il sole splendeva nel cielo azzurro. Ora, invece, tutto attorno a lui era avvolto nella più cupa oscurità.

    Due occhi fissarono il condannato a morte. Vi lessero un’espressione disperata di terrore intriso di curiosità.

    «Perché io?» sembrava domandarsi Kurt, la sua prima preda.

    La figura nel buio gli sussurrò all’orecchio una breve frase, la spiegazione di tutto.

    Infine agì.

    2

    Lunedì 3 giugno 2002

    Il ragno continuava a far avvertire la sua presenza.

    Allievi informò subito Vladimir con una dettagliata mail. Dopo un’abbondante colazione indossò, quasi senza accorgersene, un elegante completo blu su una camicia azzurra con cravatta regimental, e calzò un paio di scarpe in cuoio nero di marca Church. Per un’ultima volta controllò che tutti i file delle diapositive fossero presenti nella cartella GEN salvata in una jumpdrive. Diede una rapida occhiata nello specchio a muro all’immagine di un uomo prossimo alla quarantina, alto circa un metro e ottanta, dai capelli folti e castani, e dagli occhi verdi che comunicavano una profonda malinconia. Si infilò l’impermeabile e lasciò la sua stanza.

    L’aria mattutina di Ginevra era pungente. Occorreva qualche ora perché il sole primaverile riscaldasse l’atmosfera sino a una temperatura gradevole. La brezza che spirava dal lago aveva un effetto quasi tonificante.

    Mentre raggiungeva l’hotel Nagoia, Allievi pensò come sarebbe stato motivo di soddisfazione e orgoglio per il suo genitore assistere alla conferenza odierna.

    Allunga il passo, papà, altrimenti arriveremo tardi.

    Il bambino aveva ricominciato a sognare.

    Razionalità e irrazionalità, realtà e sogno, coscienza e subconscio: Tobia era sempre stato capace di domare e assecondare le due sfere che in ogni essere umano convivono in stridente dualismo.

    Nei momenti difficili era solito appellarsi alla propria razionalità, creando una gabbia protettiva dentro la quale rinchiudere, quasi fossero stati animali inferociti, i pensieri causati da sfiducia, depressione, apatia e rassegnazione. La forza della ragione era stata la sua frusta con cui difendersi dalle avversità e far indietreggiare, impaurite e ormai docili, fiere pronte fino a pochi attimi prima ad assalirlo.

    Tante volte aveva ripensato al triste giorno che aveva segnato la sua vita. Altrettante si era sentito sperduto in un deserto arido, senza una guida, privato di un amico fidato che ogni bambino, ragazzo o adulto conta di trovare nel padre.

    Tobia, per fortuna, non difettava della capacità di sognare, di immaginarsi una realtà diversa nella quale tuffarsi per sfuggire a quella vera. La sconfinata distesa di sabbia svelava allora, dietro l’ennesima duna, una piccola oasi ove il bambino, il ragazzo e l’uomo avevano imparato a rifocillare il proprio animo, sfinito da scottanti tormenti.

    Il sogno illusorio che suo padre fosse ancora in vita era una di queste oasi, che Tobia aveva saputo raggiungere fin da piccolo. Nei primi tempi, prima di addormentarsi, immaginava che il genitore scomparso fosse seduto sul bordo del letto, per ascoltare i racconti della giornata appena trascorsa. In seguito, col tempo, questo rituale era stato sostituito da Tobia con brevi e silenziosi colloqui creati dalla sua mente, ogni volta che aveva bisogno di una guida. Nessuno era mai stato in grado di cogliere queste fughe dalla realtà, che avvenivano anche durante conversazioni vere con persone esistenti, tale era l’abilità del bambino diventato uomo di mascherare in viso le sua fantasie.

    Un altro sogno era sempre stato quello di combattere il male. Questo sogno era diventato realtà. Ma aveva generato nel suo animo il ragno malefico.

    Quando varcò l’ingresso della sede del congresso, dirigendosi verso il punto d’accoglienza dei partecipanti, Allievi avvertì una stretta al cuore, che si aggiunse a quella che lo stava prendendo, come al solito, allo stomaco.

    «Ispettore, benvenuto a Ginevra!»

    Allievi riconobbe dalla frase pronunciata in inglese, con marcato accento francese, la voce dell’ispettore Lacroix della polizia cantonale di Ginevra, uno degli organizzatori locali.

    Philippe Lacroix era un uomo di media statura, sulla cinquantina, con i capelli neri chiaramente tinti, un paio di baffetti grigi, un volto affusolato e un naso piuttosto pronunciato sul quale poggiavano, un po’ abbassati, dei curiosi occhiali con le lenti tonde. I due poliziotti si erano conosciuti in occasione della precedente edizione del congresso, tenutasi l’anno prima a Londra. Durante la cerimonia conclusiva, Allievi aveva passato il testimone a Lacroix, come in un’immaginaria staffetta.

    «Piacere di rivederla» rispose Allievi allungando la mano destra per una cordiale stretta di mano.

    «Venga, l’accompagno al check-in e le mostro la sala delle conferenze. Quest’anno i partecipanti saranno quasi un migliaio, provenienti da più di cento paesi del mondo. Già questo dato è un grande successo. Per evitare troppe code abbiamo creato cinque sportelli per la registrazione. Il suo, per i partecipanti con cognomi che iniziano con lettere dalla A alla E, è il primo.»

    Allievi si accodò dietro una giovane donna dal fisico longilineo e dai lunghi capelli castani ondulati, che indossava un elegante tailleur rosa.

    «Domitilla Di Mauro» disse la donna all’addetto seduto dietro lo sportello. «ETI di Ginevra, École de traduction et d’interprétation» aggiunse in perfetto francese.

    «Ecco il vostro badge, signorina Di Mauro. Lo porti sempre con sé» rispose l’uomo, porgendo il tesserino di riconoscimento.

    Allievi apprezzò il delicato profumo con sottofondo di vaniglia che la giovane donna aveva scelto. Attese con curiosità che si voltasse e sfoggiò il suo sorriso, rimanendo colpito dal dolce viso e dai penetranti occhi verdi.

    Lustrati pure gli occhi, papà. Valeva proprio la pena partecipare a questo congresso, considerò mentre la dea Venere si allontanava.

    «Ispettore Tobia Allievi, Europol, Londra» disse all’addetto alle iscrizioni.

    Ricevette il badge e raggiunse Lacroix, memorizzando il cognome Di Mauro e l’informazione ETI.

    I due uomini percorsero un breve corridoio che sulla sinistra presentava una serie di porte.

    «Stiamo per entrare nel grande auditorio, non si lasci impressionare» disse Lacroix, aprendo una delle porte.

    La visione di un immenso teatro greco apparve davanti ai loro occhi. Una platea discendente semicircolare, che poteva contenere più di un migliaio di persone, suddivisa in tre settori separati da due ampie scalinate. In basso, al centro dell’attenzione di tutti, c’era il palcoscenico dove sarebbe avvenuta la rappresentazione.

    «Il nostro attore si sente pronto a recitare? Venga, l’accompagno da Claude, il nostro tecnico informatico e responsabile della proiezione delle diapositive.»

    Un ragazzone con la faccia piena di brufoli era intento a dare le ultime disposizioni a un collega: «È tutto a posto, Lucien?».

    «I collegamenti sono stati ultimati. Sarà possibile assistere alla conferenza al sito www.htitc.ge e scrivere domande via e-mail da ogni parte del mondo» rispose Lucien, un trentenne che esibiva una maglietta con la scritta Swisscom.

    «Ehm… Claude hai un istante da dedicarci?» domandò Lacroix, avvicinandosi ai due tecnici assieme ad Allievi.

    «Certo, ispettore. Mi stavo giusto sincerando che anche gli ultimi dettagli fossero stati sistemati. Lucien ha svolto un eccellente lavoro. È grazie a lui se questa sarà davvero una conferenza high tech!» disse Claude, dando una pacca amichevole sulle spalle del collaboratore.

    «Allora, come segno di gratitudine, concederò a entrambi l’onore di conoscere personalmente il celebre ispettore Allievi di Londra» rispose Lacroix, presentando il collega dell’Europol.

    «Claude Wiss, lieto di conoscerla.»

    «Lucien Grandeville, enchanté

    Dopo una serie di strette di mano, Lacroix pregò Claude di occuparsi delle diapositive di Allievi.

    «Sarà subito fatto, non si preoccupi.»

    «Mi raccomando, si faccia trovare tra quindici minuti, alle nove, ora d’inizio della cerimonia inaugurale. Lei è il primo a parlare» ricordò Lacroix ad Allievi. «Ora la lascio ambientarsi» aggiunse prima di allontanarsi.

    «Lucien, qui è tutto a posto. Puoi dedicarti ad altre emergenze. Ti chiamerò se avrò bisogno ancora del tuo aiuto» disse Claude.

    «Puoi contarci! Sai come rintracciarmi. Ispettore Allievi, è stato un onore conoscerla» rispose Lucien, prima di accomiatarsi.

    Allievi consegnò una jumpdrive, che Claude inserì in una porta USB del suo PC per poter copiare il contenuto della cartella GEN.

    «È tutto a posto» disse «non ci sono problemi, può prepararsi per la conferenza. In bocca al lupo!»

    Allievi assunse per un istante una strana espressione, che cercò di mascherare.

    «Ho detto qualcosa che non va?» chiese Claude.

    «Assolutamente no. Sono solo un po’ teso, mi capita sempre quando sto per parlare in pubblico» rispose l’ispettore con un certo imbarazzo. «Grazie per l’aiuto e buon lavoro anche a lei.»

    Allievi si soffermò a guardare l’immenso anfiteatro. Notò che l’arancione delle sedie pieghevoli imbottite era ormai stato sostituito dagli svariati colori degli abiti dei partecipanti. Raggiunse la scalinata sulla destra e si diresse verso il «palcoscenico». Lo spettacolo stava per avere inizio.

    La cerimonia d’apertura del congresso fu prevedibile e noiosa quanto l’ennesima replica di una telenovela. Lacroix tentò di ravvivarla con qualche battuta umoristica, suscitando una contenuta e forzata ilarità nei presenti. Quando presentò Allievi, le luci si fecero soffuse, ma si accese in molti la speranza di ascoltare qualcosa di avvincente.

    Allievi guardò in direzione di Claude e fu subito investito dal fascio di luce gialla del proiettore, rimanendone accecato. Il pubblico davanti a lui scomparve come d’incanto. Quando la luce divenne azzurra, l’ispettore intuì che il titolo della sua presentazione era apparso sul grande schermo alle sue spalle.

    Buona fortuna, figliolo.

    Grazie, papà.

    Impugnò il puntatore, una specie di penna che proiettava un puntino luminoso rosso sullo schermo e che aveva da tempo sostituito le tradizionali bacchette. Si era esercitato a muovere con calma l’oggetto, per evitare che anche piccoli cambiamenti di posizione delle mani si tramutassero nel passaggio di una stella cadente rossa nel cielo della schermata.

    Recitò alla perfezione, rammentandosi di tutto quanto aveva preparato meticolosamente. Sentì che la stretta allo stomaco si stava attenuando, man mano che la conclusione si avvicinava. Comprese di avere esposto con estrema chiarezza le novità sulle tecniche investigative. Dopo i ringraziamenti e i meritati applausi, si rilassò e trovò divertente rispondere ad alcune domande. Ricevuta l’ultima razione di battimani, si sedette alla postazione riservata ai conferenzieri e si sorbì una noiosa dissertazione su come ridurre i rischi di clonazione delle carte di credito grazie ai nuovi microchip elettronici.

    Un forte desiderio di caffè gli fece accogliere con sollievo la pausa annunciata da Lacroix. Subito dopo l’accensione delle luci dell’auditorio si accodò alle persone che, come un branco di salmoni sfiniti, tentavano faticosamente di risalire la corrente delle due scalinate.

    La prossima volta devo muovermi in anticipo, pensò tra sé.

    Era quasi giunto in cima alla scalinata, quando si sentì chiamare per nome da una voce femminile che gli sembrava di conoscere.

    «Ispettore, può dedicarmi cinque minuti?»

    Allievi si girò verso destra e si vide affiancare da una graziosa giovane donna, che indossava un tailleur rosa.

    La dea Venere era ricomparsa.

    «Mi chiamo…»

    La giovane non fece in tempo a terminare la frase, che prontamente Allievi aggiunse: «Domitilla Di Mauro, ETA o qualcosa del genere».

    Domitilla scoppiò a ridere e corresse l’ispettore: «ETI, École de traduction et d’interprétation. Vedo che ha buona memoria».

    «Non lavorerei per l’Europol. Un ispettore smemorato, che dimentica gli indizi, non troverebbe mai il colpevole.»

    «Desumo quindi che lei abbia risolto molti casi» rispose argutamente Domitilla.

    «Diciamo abbastanza. In che cosa posso esserle d’aiuto?»

    «Sono un’esperta di terminologia, avrei bisogno di alcune consulenze circa il corretto uso, in inglese, di termini polizieschi. Le lascio il mio biglietto da visita. Ho aggiunto il mio numero privato di cellulare.»

    «Avendo già tenuto la conferenza in programma, mi posso considerare in vacanza. Facciamo così, la chiamerò questa sera per concordare un breve incontro prima della fine del congresso, per esempio durante il pomeriggio libero di martedì» rispose Allievi, porgendole il proprio biglietto. «Nel peggiore dei casi, in futuro mi potrà contattare a questo indirizzo di posta elettronica.»

    «Molto gentile, grazie per ora» rispose Domitilla.

    Allievi non fece in tempo a chiederle se gradisse prendere con lui un caffè. La giovane donna si allontanò e scomparve, inghiottita dalla folla dei partecipanti.

    Non male come inizio, che ne dici papà?

    A pochi metri di distanza Lacroix, con il cellulare incollato all’orecchio, si scurì improvvisamente in volto. La segretaria del Golfclub di Beaumont lo stava informando che il cadavere di un uomo era stato scoperto in un boschetto, in prossimità di una delle buche del campo.

    Era stata una squadra di quattro giovani golfisti, impegnati in una gara, a trovare il corpo, in seguito a un colpo impreciso di uno di loro. Pierre si era inoltrato per primo nella fitta boscaglia. Con un ferro 7 aveva spostato rami e arbusti, in cerca della piccola sfera. Era subito sbiancato quando aveva visto il corpo inanimato di un vecchio, con le mani e i piedi legati dietro al tronco di un albero, e il busto arcuato in avanti, a esporre più facilmente il petto.

    Alain, grande appassionato di libri gialli, aveva già consigliato ai suoi amici di allontanarsi, per evitare di cancellare tracce o indizi utili all’indagine. Dopo aver avvisato la segreteria del circolo, era rimasto in attesa dell’arrivo della polizia in compagnia di Pierre, Jean-Paul e Patrick, seduto su una panchina in prossimità della partenza della buca numero 9, la Flowershole o buca dei fiori. La gara era stata subito sospesa.

    Dopo una trentina di minuti sopraggiunsero due cart elettrici, ciascuno con a bordo due uomini.

    «Tutto bene ragazzi?» fu la prima domanda posta da Lionel Saulnier, il presidente del circolo, che aveva notato il pallore in volto di tutti e quattro i giovani giocatori. «Vi presento il sergente Bertus e i suoi collaboratori, gli agenti Darses e Lomberget. Vi prego di rispondere a tutte le loro domande.»

    Alain, tra i quattro quello meno sotto shock, raccontò come avevano scoperto il cadavere e condusse i poliziotti sul luogo del delitto.

    Il sergente Bertus verbalizzò le testimonianze dei quattro giovani mentre i due agenti delimitarono con un nastro giallo la zona del delitto. Ad Alain e ai suoi amici fu infine concesso di rientrare alla club house.

    La squadra scientifica giunse un’ora più tardi, accompagnata da Lacroix e da un distinto signore che indossava, sotto un impermeabile beige, un elegante completo blu e un paio di scarpe Church in cuoio nero. Subito dopo la chiamata sul cellulare, Lacroix aveva infatti informato Allievi di un omicidio segnalato presso un campo da golf e aveva accolto con entusiasmo la proposta del collega, non proprio disinteressata, di accompagnarlo. Un’auto della polizia, prontamente accorsa, li aveva condotti, a sirene spiegate, al circolo di Beaumont.

    «Vi presento l’ispettore Allievi, dell’Europol di Londra. Siamo onorati della sua partecipazione al congresso HTITC e della sua disponibilità ad aiutarci in questo caso» furono le prime parole di Lacroix. L’ispettore ginevrino diede quindi ordine alla scientifica di procedere.

    Quattro uomini, ciascuno con indosso una tuta bianca, si inoltrarono nella zona delimitata dalle bande gialle. Allievi preferì restare in disparte, lasciando spazio al collega Lacroix.

    «Humphrey Bogart ha paura di sporcarsi le sue belle Church» disse sottovoce Lomberget a Darses. I due erano intenti ad allontanare eventuali curiosi. Non visti, entrambi cominciarono a sghignazzare.

    Papà, non sarei sorpreso se venisse trovato… pensò Allievi, mentre cercava di mascherare il tormento del ragno.

    «Ispettore Lacroix, guardi cosa abbiamo rinvenuto!» esclamò un uomo della scientifica.

    3

    Seduto su una poltrona ergonomica nel suo ufficio dell’Europol di Londra, davanti allo schermo di uno dei tanti PC, Vladimir Ripchenko lesse attentamente la mail spedita la sera prima dall’ indirizzo 704@hotelwarwick.ge.ch.

    Vladimir,

    ho ricevuto una busta anonima di benvenuto, contenente un CD avvolto in un foglio di carta in formato A4. Sul foglio compare una frase in latino, scritta con una stampante laser:

    Homo homini lupus. Pedetemptim vestigia ac signa.

    Il CD musicale riporta una breve e strana sequenza di note musicali, come se il testo originale fosse stato frammentato.

    T. A.

    Vladimir stava smaltendo i postumi di una serata con alcuni amici russi venuti a trovarlo da Mosca. Sentiva un cerchio alla testa provocato dai troppi bicchieri di vodka. Da quando si era trasferito a Londra aveva perso l’abitudine ai superalcolici, come se il suo organismo non fosse più in grado di metabolizzare in breve tempo l’etanolo.

    «Tutto bene, amico?» Un viso dai tratti asiatici fece capolino sulla porta dell’ufficio.

    «Ciao Ronggang. Mah, ho solo un po’ di mal di testa.»

    «Mal di testa? Se vuoi te lo faccio passare con una seduta di agopuntura e massaggi shiatsu.»

    «Non credo che avresti successo. Grazie comunque.»

    «Come preferisci» disse Ronggang, allontanandosi. Nel corridoio incontrò Charanjit, cui fece capire con un chiaro gesto che il russo stava smaltendo i postumi di una sbronza.

    «Non è la prima e non sarà certo l’ultima volta» commentò l’indiano, sistemandosi il tipico copricapo che portava sempre sulla testa. «A proposito, Ronggang, ho bisogno del tuo aiuto. Puoi passare da me?»

    «Anche subito» rispose il collega cinese.

    Dopo essersi bevuto l’ennesimo caffè, Vladimir decise che solo Karl avrebbe potuto aiutarlo.

    La squadra scientifica aveva svolto un eccellente lavoro, setacciando minuziosamente tutta l’area della zona intorno al punto di ritrovamento del cadavere. L’involontaria presenza dei quattro golfisti aveva di sicuro inquinato le tracce rinvenute sul terreno, costituite da impronte di cinque diverse scarpe da golf. Quattro tipi di impronte erano state lasciate senza ombra di dubbio da Alain, Patrick, Jean-Paul e Pierre, il quinto presumibilmente dall’assassino. Era stato inoltre appurato che qualcuno era entrato nel campo da golf dopo aver scavalcato una recinzione in rete metallica, poco distante dal boschetto, che correva a fianco di una strada asfaltata. Tracce di pneumatici erano state rinvenute ai bordi della strada, ma non c’era certezza che fossero state lasciate proprio dal mezzo di trasporto utilizzato dal killer. Secondo una prima e provvisoria ricostruzione dei fatti, l’assassino era giunto di notte, forse con un’automobile. Dopo avere sollevato il vecchio – e questo faceva pensare che l’autore del delitto fosse un tipo robusto – lo aveva gettato nel bosco oltre la rete, nel punto in cui erano stati rinvenuti alcuni ramoscelli spezzati, trascinato verso l’albero prescelto, e infine legato al tronco. Aveva agito indossando un paio di guanti, dal momento che non erano state riscontrate impronte digitali né sui vestiti né sul corpo della vittima. L’autopsia era in corso e avrebbe confermato la correttezza di questa ricostruzione. Le prime osservazioni del medico legale lasciavano supporre che la morte fosse avvenuta per arresto cardiocircolatorio. Non era stato possibile stabilire se il vecchio fosse stato ucciso prima o dopo essere stato legato. Nella tasca posteriore dei pantaloni erano stati ritrovati un portafoglio contenente carte di credito, alcuni contanti in franchi svizzeri, patente e permesso di soggiorno del cantone di Ginevra. La vittima si chiamava Kurt Warter, di anni ottantadue, socio onorario del Golf Club di Beaumont.

    L’assassino aveva comunque lasciato la sua firma.

    Non mi sorprenderei se venisse ritrovato un messaggio con una frase in latino, aveva pensato Allievi. Aveva fatto centro. In una delle tasche della giacca di Warter era stato rinvenuto un nuovo messaggio nella lingua di Cicerone, scritto su un foglio in formato A4 e piegato in quattro parti con precisione maniacale. In aggiunta era stato ritrovato anche un frammento di una vecchia fotografia raffigurante Warter da giovane.

    «Sequens signum par est, aliud videtur. Et Imago vobis auxilio erit

    Nello studio di Lacroix, presso la sede centrale della polizia cantonale di Ginevra, Allievi lesse ad alta voce il messaggio. Non fu in grado di capire il senso della frase, soprattutto la prima parte, poiché non conosceva bene il latino. Notò che la parola vobis non era del tutto leggibile. Si ricordò della frase «Annuntio vobis gaudium magnum. Habemus Papam» pronunciata in occasione dell’elezione di un nuovo pontefice. Interpretò quindi la seconda parte come «e l’immagine vi sarà d’aiuto».

    «Per Imago l’assassino intende forse questo frammento di fotografia» commentò Lacroix, esaminando a poca distanza dai suoi occhiali quello che poteva essere scambiato per un grosso pezzo di un puzzle. «La fotografia da cui questo frammento proviene deve essere stata scattata circa sessantacinque anni fa. La vittima, Kurt Warter, appare molto giovane, potrebbe avere avuto quindici, al massimo diciassette anni. L’auxilium, ossia l’aiuto a cui allude l’assassino, è sicuramente rappresentato dalle due lettere leggibili sul retro del frammento.»

    «Una lettera U e una lettera N, UN» lo interruppe Allievi, cercando di memorizzare tutti gli indizi e di trovare un collegamento. Aveva riferito a Lacroix della busta ricevuta la sera prima, senza però menzionare il CD. Sperava che Vladimir potesse fornire la giusta chiave di lettura e attribuire l’esatto significato alle parole scelte dall’assassino. In quel momento gli balenò un’idea che non gli dispiacque.

    Vladimir aveva smaltito in fretta la lieve sbornia. Già nel primo pomeriggio la mente del trentenne russo aveva riacquistato la sua analitica lucidità, permettendogli di lavorare con alacrità insieme a Karl. Verso sera preparò un breve riassunto, che inviò al capo all’indirizzo e-mail di Ginevra.

    Ho raccolto queste informazioni:

    1. Homo homini lupus significa letteralmente «l’uomo è per l’uomo un lupo». Questa frase latina si legge nella commedia Asinaria del commediografo latino Plauto. È il racconto delle macchinazioni di un giovane per riscattare una cortigiana, della quale si è innamorato. L’aiuto di astuti servitori, unito alla complicità del padre, consentono al giovane di raggiungere lo scopo. Ne scaturisce una rivalità amorosa tra padre e figlio che ha come conclusione la vittoria di quest’ultimo.

    2. Homo homini lupus è anche la condizione dell’uomo nello «stato di natura» descritto dal filosofo inglese Hobbes. In assenza di leggi gli uomini agiscono solo per istinto di sopravvivenza e tendono a recare danno ai propri simili e a togliere di mezzo chiunque sia d’ostacolo al conseguimento dei propri fini. È uno stato di guerra di tutti contro tutti, un bellum omnium contra omnes (vedere Hobbes, De Cive, 1, 12).

    3. Nessun dato su pedetemptim vestigia ac signa.

    Facci pure sapere se ti servono le informazioni complete che abbiamo raccolto.

    V.R.

    Si stava godendo il meritato riposo. La notte precedente aveva dormito senza che l’incubo lo tormentasse. Si era sentito onnipotente mentre praticava l’iniezione letale e guardava con occhi glaciali Kurt Warter esalare l’ultimo respiro. La sofferenza del vecchio era stata breve, così come aveva letto. Accarezzò il fido dizionario, prese un paio di forbici e avviò la stampante laser.

    Allievi compose il numero e rimase in attesa. Ascoltò invece una litania della compagnia telefonica che segnalava che il destinatario della chiamata non era raggiungibile.

    «Riproverò più tardi dall’albergo» disse, riattaccando il ricevitore del telefono posto sulla scrivania di Lacroix. «Credo che l’esito dell’autopsia potrà fornirci ulteriori indizi. Qualche risultato dall’indagine sulla vita privata di Warter?»

    Lacroix iniziò a leggere un breve rapporto appena consegnatogli dal suo fidato braccio destro Robvieux.

    Kurt Warter, nato a Markt am Inn in Baviera nel 1920, risiedeva nel cantone di Ginevra dalla fine della Seconda guerra mondiale. Non aveva famiglia, né parenti in vita. Presidente onorario della

    skw

    , società produttrice di fragranze, aromi sintetici e profumi da lui fondata nel 1955. Benestante, sempre in perfetta forma fisica, frequentatore assiduo del club di Golf di Beaumont, dove aveva organizzato e sponsorizzato gare prestigiose. Warter viveva in una lussuosa villa a due piani con ampio giardino al numero 5 di Avenue de Joli-Mont. La via è molto corta e presenta solo sei numeri civici. Al pianterreno di villa Warter abita stabilmente una coppia di svizzeri, che fanno da maggiordomo e da cuoca. Al servizio di Warter da venticinque anni, sono entrambi sotto shock dopo avere appreso della morte del loro padrone. L’hanno visto in vita per l’ultima volta domenica mattina, prima di lasciare la casa per il loro giorno libero. Il vicino del numero civico 3, Ive Chataigner, ha confermato che quando i coniugi sono usciti dal cancello, all’incirca verso le 10 del mattino, Warter stava esercitandosi col putter sul green che aveva ricavato in giardino. I Chataigner, padre, madre e due figlioletti, sono poi partiti per una gita. Gli altri vicini dei civici 1, 2, e 4 avevano lasciato Ginevra sabato pomeriggio. La villetta al numero 6 è attualmente sfitta.

    «Quindi dalle 10 di domenica mattina non si hanno più notizie della vittima. Ispettore, mi accompagnerebbe subito a visionare di persona villa Warter?» chiese Allievi.

    «Con piacere» rispose ossequiosamente Lacroix. «Ehm… visto che lavoriamo allo stesso caso, possiamo darci del tu?»

    «D’accordo. Chiamami pure Tobia.»

    «E tu chiamami Philippe. Cosa pensi di trovare a villa Warter?»

    «Spero qualche vecchia fotografia.»

    Parcheggiarono la Peugeot 406 blu in prossimità del numero civico 3 di Avenue de Joli-Mont. Suonarono il campanello posto su di una colonna di pietra, a fianco di un cancello in ferro battuto. Un anziano signore si avvicinò e come vide il distintivo esibito da Lacroix si affrettò a fare entrare i due poliziotti.

    «Buongiorno, mi chiamo Lacroix. E questo è il mio collega, l’ispettore Allievi.»

    «Buongiorno, sono Marcel Pautrat, maggiordomo di villa Warter. Prego, vi faccio strada.»

    Percorsero un vialetto in ghiaia che dal cancello conduceva a una scaletta di tre gradini in pietra. Allievi ammirò lo splendido giardino, perfettamente tenuto in ordine.

    Come se gli avesse letto nel pensiero, il maggiordomo spiegò, orgoglioso, che il giardinaggio era una delle sue tante mansioni, ma forse quella cui si dedicava con maggior passione. La cura nella composizione delle aiuole fiorite, nella scelta dei fiori e delle tonalità di colori, e il tocco artistico che si notava erano una conferma della grande dedizione di Marcel.

    «Il mio padrone amava molto i fiori.»

    Salirono i tre gradini e si trovarono all’inizio dell’ampia terrazza che circondava i tre lati del piano inferiore della casa, esposti al sole durante il giorno. Agganciate alla barriera in legno, alcune fioriere colme di primule, viole del pensiero e rose conferivano alla villa il tipico aspetto di un’abitazione delle Alpi svizzere. Allievi intuì che lo stesso tema decorativo era presente sugli altri due lati della terrazza.

    «Prego, entrate» fu il cortese invito di Marcel. La porta d’ingresso si apriva in un’elegante anticamera.

    «Silvie, prendi i vestiti dei signori della polizia.»

    Una donna minuta, sulla sessantina, coi capelli grigi tirati indietro e raccolti dietro la nuca, con indosso un vestito nero e un grembiule di pizzo bianco, uscì dalla porta della cucina in direzione degli ospiti.

    «Vi presento mia moglie. Silvie, gli ispettori…»

    «Lacroix e Allievi» aggiunse prontamente il poliziotto svizzero sfilandosi il soprabito, subito imitato dal collega.

    Silvie rimase in silenzio. Con un eloquente sguardo fece capire ai due visitatori che potevano affidarle i loro impermeabili.

    Marcel accompagnò i due ispettori in salotto, facendoli accomodare su un divano color crema, di fronte a un caminetto ricavato in una parete in mattoni rossi a vista. Su due mensole in legno spiccavano targhe e coppe con inequivocabili riferimenti al gioco del golf, intercalate a fotografie in cornici argentee che ritraevano Warter, da solo o in compagnia di celebri campioni.

    Lacroix mostrò a Marcel e Silvie il frammento della fotografia ritrovata in tasca a Warter.

    «Vi ricorda qualcosa?»

    Il maggiordomo inforcò un paio di occhiali ed esaminò con cura l’immagine di un ragazzino, riconoscendo i tratti somatici del suo datore di lavoro.

    «Ma è monsieur Warter!»

    «Aveva già visto in precedenza questa fotografia?»

    Marcel scosse la testa. «Non mi è mai capitato di avere sotto gli occhi immagini di monsieur Warter da giovane. Mi sono sempre chiesto se conservasse da qualche parte dei ricordi, per esempio le fotografie dei genitori, di parenti, di amici d’infanzia, oppure dei primi amori. Davvero, né io né mia moglie abbiamo mai visto qualcosa di simile.»

    Allievi verificò che Marcel aveva detto la verità. Stranamente nessun riferimento al passato, una fotografia dell’adolescenza o dei propri familiari, era presente nella casa di Kurt Warter.

    «Ha mai parlato con voi della sua vita?» domandò l’ispettore italobritannico.

    «Monsieur Warter era una persona molto riservata. Parlava poco di sé. La discrezione è uno dei pregi di un buon domestico. Non ci siamo mai preoccupati di chiedere informazioni sulla sua vita privata.»

    «Se io fossi proprietario di questa villa inviterei spesso a cena degli amici. Oppure organizzerei dei party. Il signor Warter aveva una vita sociale movimentata?» chiese Allievi.

    Marcel mantenne lo stesso portamento imperturbabile. «Come le ho spiegato, monsieur Warter era una persona molto riservata. No, non ha mai invitato nessuno. Questo però non significa che la sua vita fosse solo lavoro e casa. Capitava, per affari, che partecipasse a cene di lavoro. Questo sì.»

    «Ma mai in questa casa» puntualizzò Allievi.

    «Proprio così, monsieur.»

    «E la passione per il golf?»

    Era il turno di Lacroix, che iniziò a porre alcune domande sullo sport preferito da Warter.

    «Si può dire che fosse il grande amore della sua vita. Tutti i fine settimana, tempo permettendo, si recava al circolo di Beaumont. Vorrei arrivare

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