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Sa morte secada: Un'indagine del maresciallo Dioguardi nel cuore nero della Sardegna
Sa morte secada: Un'indagine del maresciallo Dioguardi nel cuore nero della Sardegna
Sa morte secada: Un'indagine del maresciallo Dioguardi nel cuore nero della Sardegna
E-book238 pagine3 ore

Sa morte secada: Un'indagine del maresciallo Dioguardi nel cuore nero della Sardegna

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Info su questo ebook

“Con questo romanzo d’esordio, uscito nel 2004 con Dario Flaccovio, Nicola Verde è stato semifinalista al festival noir di Courmayeur. Anni Sessanta. Il maresciallo Carmine Dioguardi, campano, sposato senza figli, viene mandato in servizio a Bonela, centro agro-pastorale di una Sardegna in piena trasformazione economica dove il nuovo, vale a dire la costruzione di una fabbrica, deve trovare il modo di convivere con una civiltà risalente ai nuraghi e che talvolta risente ancora dell’influsso di riti arcaici e panteistiche credenze. Il corpo del piccolo Cosimo ucciso a colpi di pietra, spolpato dagli animali selvatici e fatto ritrovare a Fardighei, dove già un tempo era stata lasciata a mo’ di sacrificio al fiume una testa umana, dà il senso di quanto intricate per Dioguardi si presentino le indagini. Cosimo è figlio di Natalia Frau, bella e traviata che si mantiene prostituendosi in città. Il bimbo è affidato a sua sorella Costantina, e un giorno scompare. Cosimo è figlio del peccato se è vero, come si mormora, che suo padre è niente meno che preide Bertula, il parroco di Bonela che ama il “latte d’asina”, pratica l’usura ed ha tanti nemici che però lo temono. E c’è poi il bandito Farore e
c’è l’amore giovanile di Natalia che nasconde un segreto struggente e straziante. Un bel romanzo a più voci questo di Verde, dove alle indagini di Dioguardi si sommano le visioni di Costantina e un mondo tutto da scoprire e decifrare per andare in fondo “finzas a sa morte secada”, cioè fino a tagliare la morte per capire quanto profondo è l’abisso umano. La prefazione è di Luigi Bernardi.” (Roberto Mistretta-scrittore)

Nicola Verde è nato a Succivo (CE) l’1/3/51, è sposato e ha un figlio; vive a Roma. Vincitore di alcuni prestigiosi premi dedicati al giallo, alla fantascienza e al fantastico, è presente in numerosissime antologie (Giallo Mondadori, Hobby & Work, Del Vecchio, Perdisa, Dario Flaccovio, Robin, Delos ecc.). Ha pubblicato i seguenti romanzi: Sa morte secada, (Dario Flaccovio ed. 2004; Delos Digital 2015), prefazione di Luigi Bernardi, semifinalista al premio Scerbanenco; Un’altra verità, (Dario Flaccovio ed. 2007), prefazione di Marcello Fois, vincitore del premio Qualità editori indipendenti; Le segrete vie del maestrale, (Hobby & Work 2008), prefazione di Ben Pastor, finalista al Festival Mediterraneo del giallo e del noir; La sconosciuta del lago, (Hobby & Work 2011), liberamente ispirato al caso di Antonietta Longo, la decapitata di Castelgandolfo. Il romanzo è stato vincitore della sez. romanzi storici al Festival Mediterraneo del giallo e del noir. Verità imperfette (Del Vecchio 2014), “romanzo noir a più mani a incastri multipli”; Il marchio della bestia (Parallelo 45 2017), quarto romanzo della “serie sarda”; Il vangelo del boia (Newton Compton 2017) già finalista al Tedeschi, è stato semifinalista allo Scerbanenco e finalista al premio Acqui Storia 2018, sezione romanzi storici.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2020
ISBN9788869434457
Sa morte secada: Un'indagine del maresciallo Dioguardi nel cuore nero della Sardegna

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    Anteprima del libro

    Sa morte secada - Nicola Verde

    I

    "Cheret andare a fundu, finzas a sa morte secada" aveva detto a un certo punto Costantina Frau, e Carmine Dioguardi, maresciallo dei carabinieri, s’era chiesto cosa avesse voluto dire, e, soprattutto, se l’asprezza di quel tono, che non ammetteva repliche né tentennamenti, potesse essere imputato soltanto a quel dialetto barbaro.

    Costantina Frau lo aveva guardato dal basso in alto, sollevando appena la testa e tenendola leggermente di sguincio, mentre dinanzi alla bocca s’era portata un lembo del fazzoletto che le cingeva il capo, di modo che, finalmente, Dioguardi aveva potuto vederle il volto. Costantina aveva lineamenti asciutti, ossuti; gli zigomi sporgenti; una bocca sottile, tirata, un taglio netto, con gli angoli piegati all’ingiù, rosa pallido; un naso dritto verso il basso. E poi gli occhi! Quegli occhi che fino ad allora Dioguardi aveva visto febbricitanti, adesso pareva avessero acquistato una calma glaciale, innaturale: l’avevano guardato attraversandolo come vetro.

    Lui, col berretto in mano, aveva lanciato attorno occhiate imbarazzate in cerca di un aiuto che certo non poteva venirgli da Natalia Frau, la madre di Cosimo. La donna se ne stava raggomitolata sulla sedia, neanche ci si fosse rintanata, la testa china, una mano sotto il seno, quasi a stringersi la pancia, e l’altra sulla bocca. Pareva avesse perduto quella proverbiale bellezza, per la quale, si diceva, molti facevano la fila dinanzi alla porta di un certo appartamento a Sassari; nemmeno gli occhi le si vedevano, nascosti da quelle chiome corvine che le cadevano sulla faccia, occhi che Dioguardi ricordava di una profondità immensa, grandi, vellutati, un po’ sperduti, ma che a guardarli bene avrebbero rivelato braci ardenti. Occhi arabi per i quali le donne dell’isola andavano famose.

    Natalia non sembrava neanche piangere più, dopo aver pianto tutte le lacrime del mondo. Ma poteva esserci un limite alle lacrime di una madre che piangeva un figlio morto? E poi morto a quel modo. Ammazzato e poi abbandonato agli animali, buttato su… su… cos’era quello? Un idoletto in pietra, una specie di totem, gli avevano detto, un toro acefalo risalente all’età nuragica.

    Dio, Dio, si può essere più selvaggi? E questo don Melchiorre, poveretto, ne deve possedere di spirito missionario!.

    Guardò il prete. Si ricordò che era sardo.

    Meglio si disse, gli sarà più facile.

    Sospirò. Faceva caldo là dentro, e pure fuori, in quella primavera che era un’estate primaticcia. Era sempre così, da quelle parti. Nell’aria già ronzavano gli insetti: una farfalla era entrata da una finestra e adesso svolazzava sul corpicino di Cosimo, Dioguardi si chiese vagamente se non fosse stato un segno, di che tipo non avrebbe saputo dire. Scacciò il pensiero e con esso alcune mosche fastidiose con un movimento brusco della mano. Tutto era immobile, saturo di calura, una specie di pantano scosso soltanto dagli strepiti delle tre donne che erano ai lati di quel catafalco improvvisato. Le sorelle Mulas, prefiche di Bonela, a quanto si diceva le più brave a interpretare quel dolore antico. E stando allo spettacolo che davano, Dioguardi non dubitava che lo fossero. Scarmigliate e sudate parevano invasate, possedute da una forza oscura e diabolica, capaci di stravolgere persino i lineamenti del volto; occhi sbarrati, rivoltati, sanguigni; ciondolavano e roteavano le teste buttando all’aria quelle loro chiome grigioferrose, sciolte e frustanti come criniere. C’era un puzzo rancido, là dentro, di una eccitazione ferina, malsana e pericolosa: quelle donne muggivano un dolore di pietra.

    Dioguardi tornò a osservare il sacerdote. Don Melchiorre rispose a quella muta richiesta in un modo altrettanto silenzioso e discreto: appena un cenno degli occhi, poi si avvicinò alle sorelle Frau e mormorò loro qualcosa all’orecchio, prima dell’una e poi dell’altra. Poche parole dette sottovoce, certo parole di conforto, considerò Dioguardi, alle quali Natalia aveva risposto con un cenno della testa, mentre Costantina era rimasta immobile. Anche in questo mostravano di essere diverse.

    Dioguardi mosse un passo verso di loro, ma poi si fermò. Che avrebbe potuto dire? Quale conforto gli avrebbe potuto portare? Cincischiò un poco col berretto: se lo rigirò nervosamente tra le mani: era un militare lui, per niente avvezzo a certe cerimonie. Diede qualche colpetto di tosse e fece un gesto con la testa, come per dire: Scusatemi, non fa per me. Poi, a piccoli passi silenziosi si diresse verso la porta con la speranza di non disturbare, ma, come se tutte le donne si fossero date un segnale, proprio in quel momento le sorelle Mulas cessarono quel loro mugghiare e troncarono di netto quel movimento di criniere, mentre le sorelle Frau smisero il loro lamento: tutte levarono la testa e lo guardarono piene di riprovazione. Dioguardi provò a scusarsi, ma poiché, subito, gli occhi delle donne erano tornati a piegarsi sui petti, a lui non restò altro che proseguire in punta di piedi.

    Appena fuori espirò profondamente, come se si fosse liberato di un peso intollerabile.

    – Perdonatemi padre – disse, – ma non sopportavo più.

    – Capisco – rispose don Melchiorre che, altrettanto silenziosamente, lo aveva seguito. – Le attitadore appartengono a un mondo che sparisce.

    Attitadore? Era dunque in questo modo che si chiamavano da quelle parti le Gorgoni?

    Avevano preso a camminare lentamente, uno accanto all’altro, senza sapere dove andare.

    – Non... non vorrei essere frainteso – abbozzò Dioguardi.

    – Oh, non si preoccupi – lo tranquillizzò don Melchiorre, – il pianto funebre è una pratica ormai dimenticata in Continente. Ci sono degli ottimi trattati sull’argomento, sa? – Sorrise. Come dire: È storia, protostoria, la metta un po’ come le pare!

    – Be’, forse in qualche angolo… – provò ad accennare Dioguardi. Avrebbe voluto mostrare comprensione verso una pratica che, francamente, trovava barbara, ma don Melchiorre non gliene diede modo interrompendolo con quello stesso sorriso accondiscendente:

    – In qualche angolo dimenticato da Dio, è questo che voleva dire?

    – Oh, be’... è che... insomma, non mi verrà a dire che la Chiesa tollera senza condannare?

    – Oh no, la Chiesa condanna e ha condannato, sapesse con quanta durezza in passato. Ma non per i motivi che crede lei, per altri, seppure non più nobili, Dio mi perdoni. S’è accontentata di costringere la pratica nell’ambito delle pareti domestiche.

    – Occhio non vede, cuore non duole – commentò Dioguardi con una punta di acidità nella voce di cui subito si pentì. Cercò, allora, di rimediare cambiando argomento.

    – Quella frase in dialetto...

    Ma don Melchiorre rispose al suo sarcasmo senza mostrare ombra di risentimento:

    – Eehhh – fece – ciechi di occhi e indolenti di cuore perché non sempre si può ottenere ciò che si vorrebbe. A ogni modo – proseguì, – tutte le società hanno i loro riti, anche questa nostra che chiamiamo moderna.

    Si girò verso Dioguardi e vedendolo sorpreso spiegò:

    – I necrologi redazionali a pagamento, per esempio, non li trova disumani? Prima le ho detto delle attitadore, il termine viene da attitu, il pianto funebre, che a sua volta deriva da sa tita la mammella, perché a un certo punto al defunto veniva offerta appunto una mammella affinché si nutrisse del suo latte e resuscitasse. C’è forse un’immagine più bella?

    Dioguardi non ribatté. Sì, era un’immagine bellissima, considerò.

    – È che stiamo perdendo la verginità – riprese don Melchiorre. – Oh, non si scandalizzi, in senso metaforico, ben inteso. Abbiamo mandato in orbita gli Sputnik e gli Apollo e presto, si dice, manderemo il primo uomo sulla luna, così, finalmente, ci riuscirà di soffocare per sempre il fanciullino che è dentro di noi, gli ficcheremo in gola un razzo con tanti saluti.

    Guardò verso il cielo, un cielo che si faceva scuro e recitò:

    O graziosa luna, io mi rammento che, or volge l’anno, sovra questo colle io venia pien d’angoscia a rimirarti. Ma nebuloso e tremulo dal pianto che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci il tuo volto appariva, che travagliosa. Era mia vita: ed è, né cangia stile, O mia diletta luna.

    Quando tornò a Dioguardi gli chiese:

    – Crede che sarà più la stessa cosa?

    Dioguardi sollevò la testa, ma la luna era oscurata. Avrebbe voluto rispondergli che non c’era da metterla a quel modo, che assieme alla luna si sarebbero vinte la fame, le malattie, la guerra, la fatica, che toccando la luna si sarebbe forse toccato quel Dio che sta lassù, dove sta la luna. Ma invece abbassò la testa e gli chiese ancora di quella frase. E il prete allargò le braccia; sembrava sconsolato, ma forse non lo era.

    – Che vuole – rispose, – se la semplicità e la poesia stanno nei cuori non ancora corrotti dei popoli antichi, in essi ci sta pure la superstizione. Siamo un popolo preistorico che ancora crede che dalle ossa si possa resuscitare, un detto ormai in disuso, più o meno vuol dire tagliare la morte e deriva probabilmente da un antico rito pagano. Vuol dire che bisogna andare in fondo, fino all’osso.

    – Una specie di ammonimento, insomma – tagliò Dioguardi.

    – Più o meno – ammise don Melchiorre.

    – Ah! – scappò detto a Dioguardi. Il senso un po’ lo infastidiva: c’era forse da raccomandarsi perché un maresciallo dei carabinieri facesse il suo dovere?

    II

    A Bonela, Dioguardi e sua moglie erano arrivati più o meno un anno prima. Il viaggio di trasferimento dal Continente (un paese dell’alto Lazio, dove Dioguardi aveva fatto servizio per alcuni anni) non era stato dei migliori. La navigazione un vero tormento: era sceso in cuccetta, scalino dopo scalino, come in un budello scavato direttamente nelle viscere del mare. E da lì non s’era più mosso per l’intera durata della traversata, vomitando e cercando di dormire per tutto il tempo.

    Quanto al tragitto in corriera non era stato da meno: una vecchia carretta che aveva arrancato lungo strade strette e mal catramate che parevano intrufolarsi in quei macchioni come sinuosi corpi estranei.

    – Mulattiere – aveva commentato a un certo punto asciugandosi il sudore con un largo fazzoletto.

    Tempo bellissimo, giugno appena iniziato, con un caldo che già pareva voler bruciare terra e uomini; l’aria così satura di profumi, da stordire, da star lì ad annusarla col muso rivolto verso l’alto come sorci.

    – È sempre così? – aveva chiesto a un certo punto alla persona che era seduta nell’altra fila, allungandosi un poco di fianco. Quello lo aveva guardato, imperscrutabile. Lui aveva alluso al tempo, e non ai profumi. L’uomo aveva la barba lunga di alcuni giorni, la berretta tirata leggermente all’indietro, e la fronte lucida di sudore: classica iconografia dell’uomo sardo. Dioguardi sperò di essersi spiegato bene: l’uomo lo guardava e lui puntò il dito verso il cielo. – Eh? – aveva detto, come rivolgendosi a uno straniero, la faccia piena di aspettativa, sperando che almeno il gesto fosse esplicativo.

    – In piena estate è anche peggio – aveva risposto quello in un italiano perfetto, con un leggero accento traditore. Aveva gli occhi scuri, intensi, e adesso un sorriso cordiale che gli increspava le guance ai lati della bocca.

    Lui era rimasto leggermente sorpreso, poi s’era girato verso la moglie.

    – Hai sentito, Ines? – Lei intanto si stava sventolando con un ventaglio; si faceva aria sul collo e sul petto mentre armeggiava con la scollatura. – Il signore dice che d’estate è anche peggio. – La voce gli era venuta fuori per inerzia, intento com’era a osservare quell’armeggiare della moglie che gli pareva scostumato. L’aveva toccata di gomito, sussurrandole in un orecchio: – Non si sa mai. – Quello era pur sempre un posto selvaggio, benché l’uomo che gli stava a lato avesse mostrato padronanza della madre lingua. Lei s’era sporta un poco in avanti smettendo di farsi aria, aveva guardato l’uomo e lo aveva salutato con un breve cenno del ventaglio; quello s’era tolto la berretta e molto educatamente aveva contraccambiato il saluto.

    – Buongiorno, signora, venite dal Continente?

    Ma a rispondere era stato Dioguardi:

    – Sì, veniamo dal Continente – aveva sbottato, infastidito da quella intromissione, – perché, si vede?

    E l’uomo, ignorando il tono scorbutico:

    – E dove siete diretti, se non sono indiscreto?

    Dioguardi s’era mosso sul sedile, maledicendo il momento che gli era venuto in testa di rivolgersi a quell’uomo. Dirglielo o non dirglielo che era il nuovo maresciallo di Bonela? Quell’uomo, a dispetto del suo parlare, aveva una faccia che non gli piaceva. Pastore, aveva pensato. E aveva inspirato profondamente, quasi avesse voluto tirare aria sufficiente per un lungo discorso. In realtà quell’inspirazione gli era servita per annusare l’aria. Nessun odore caprino, s’era detto. Nessun odore di formaggio. Ma questo non vuol dire, potrebbe appena essersi fatto un bagno. Ma sì, un bagno! aveva poi concluso. Effluvi di sudore pesante in verità correvano per il corridoio. Sudori acri. Quell’uomo non gli piaceva, per niente; aveva come l’aria di un latitante, appena in caserma avrebbe controllato tra i ricercati.

    – Bonela – aveva detto alla fine controvoglia, tirandosi indietro sul sedile. – Siamo diretti a Bonela.

    L’uomo era parso animarsi.

    – Ma allora lei è il nuovo maresciallo.

    E quando lui gli aveva fatto un cenno di sì svogliato, quello s’era rivolto all’autista della corriera a voce alta:

    – Compà, abbiamo il nuovo maresciallo, intesu asa?

    – Eja – aveva risposto l’altro. – Ho sentito! – Subito piantando tutti e due i piedi, per poi mollarli e ripiantarli di nuovo, così che alla corriera erano prese certe convulsioni che pareva fosse stata lì lì per sputare pistoni e tutto quanto il resto. Fin quando s’era fermata, accostata sulla strada, e l’autista, con un paio di robusti strattoni, aveva tirato il freno a mano.

    Ecco che ci siamo, aveva pensato Dioguardi, maledicendo il fatto di non essere in divisa e di non portare addosso la pistola d’ordinanza. Chissà che gli avrebbero fatto. Un rappresentante della legge è pur sempre un rappresentante della legge in qualsiasi posto dell’Italia si trovi s’era detto. Ma quella era Italia?

    Per abitudine s’era portato una mano al fianco, ma l’abito borghese non gli aveva lasciato scampo: la pistola era nella valigia nel vano portabagagli della… diligenza.

    – Non oser... – aveva provato a dire, ma la voce gli si era smorzata in gola. Era disorientato, sua moglie aveva smesso di ventilarsi e aveva preso a guardarlo come se si aspettasse chissà che da lui. Ma che? Nessuno aveva dato segni di nervosismo, anzi avevano seguitato a guardare fuori dai finestrini come se niente fosse sobbalzando a ogni colpo di freno senza protestare.

    Forse saranno abituati, aveva allora pensato Dioguardi.

    – … ete mica? – con un filo di voce rotta per giunta da una sorta di angosciata sorpresa; aveva preso a guardarsi attorno come in cerca di una possibile via di fuga, ma erano in aperta campagna e lì attorno non c’era nulla, salvo il casermone dove la corriera aveva accostato. Qualcuno aveva cominciato ad alzarsi e s’era apprestato a scendere. A quel punto s’era alzato anche lui, in fretta, ma nervoso com’era, era andato a sbattere contro la rete portaoggetti.

    – Faccia attenzione, maresciallo – aveva detto l’uomo barbuto, – altrimenti rischia di non arrivare sano a Bonela.

    Era una minaccia? Probabilmente li avrebbero costretti a scendere, a lui e alla moglie, e poi fatti allontanare per un po’, quel tanto necessario perché fossero lontani da occhi indiscreti, e poi bumm... bumm... due colpi calibro 12 alle spalle, non è così che si facevano le ammazzatine da quelle parti? I passeggeri avrebbero lasciato silenziosamente la corriera e silenziosamente si sarebbero squagliati: così nessuno avrebbe visto né sentito niente. Già immaginava cosa avrebbero detto i suoi commilitoni accorsi sul luogo dell’ammazzatina avvertiti da una telefonata rigorosamente anonima (ma da quelle parti c’erano cabine pubbliche?).

    Sì, sì, era il nuovo maresciallo.

    Ammazzato a colpi di fucile.

    Neanche il tempo di prendere possesso della caserma gli hanno dato.

    Sì, sì, quella che gli sta accanto era la moglie. Bella donna ma brutta fine.

    Povera donna, pagare soltanto perché moglie di un maresciallo dei carabinieri.

    Che roba.

    Donne votate al sacrificio, le nostre donne.

    Erano di queste parti?

    No, venuti dal Continente.

    "Sapete come si chiamava?

    Lui?

    Sì.

    – Colasberna.

    Colasberna? Lui mica si chiamava Colasberna.

    – Si scende. Tutti quanti a terra – aveva annunciato l’autista. – Offro da bere a tutti, festeggiamo il nuovo maresciallo di Bonela.

    Poi l’uomo barbuto s’era rivelato essere un professore di storia di Bonela, insegnante a Nuoro, che non disdegnava vestire al modo dei pastori: giacca e pantaloni d’orbace, berretta e gambali in cuoio, alti fin sotto al ginocchio, e tirati con dei lacci sul davanti. E quella l’ultima fermata della corriera prima di arrivare al paese.

    III

    Era arrivata a testa bassa, di fretta, con quei suoi passi piccoli e svelti, nascosti sotto la sua gonna lunga e plissettata; s’era rivolta al piantone biascicando parole in dialetto a voce così bassa che il povero carabiniere aveva dovuto farsi ripetere più volte cosa desiderasse. E lei, Costantina Frau, ogni volta aveva replicato la sua richiesta allo stesso modo, con la stessa fretta, impaziente, inciampando nelle parole, come sanno fare i timidi, quasi si vergognassero di quello che hanno da chiedere. Così ogni volta le parole le

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