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Della mia guerra, della mia pace
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E-book467 pagine7 ore

Della mia guerra, della mia pace

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Info su questo ebook

Ci sono vite che per loro natura sono fatte di percorsi imprevedibili, di sconfitte dolorose a cui seguono vittorie sorprendenti, di inattese battute d’arresto e di ripartenze costanti. La forma di queste vite, costellate di colpi di scena, le rende simili a romanzi appassionanti e indimenticabili.

Ed è così la vita di Anna Prouse. Cresciuta in una buona famiglia milanese, da una madre feroce e un padre gentile, ha sedici anni ed è felice solo sul campo da tennis, dove le viene pronosticato un futuro da campionessa. Ma, per rincorrere l’ultima palla di una partita quasi vinta, il suo ginocchio si spezza, e, assieme al ginocchio, il sogno.

In fuga dal dolore, fisico e dell’anima, decide di partire, verso est. Nel viaggio troverà la sua vocazione: conoscere luoghi lontani e le persone che li abitano, comprenderle, aiutarle. Così, nell’arco di un’esistenza che sembra contenerne moltissime, Anna si trova a fare la reporter e ad assistere all’11 settembre dall’Iran, un punto di osservazione alieno alle logiche di pensiero occidentali; a dirigere un ospedale da campo a Baghdad – per la Croce Rossa – durante la Seconda guerra del Golfo; a essere scelta dal generale americano David Petraeus come capo della ricostruzione di una provincia nel sud dell’Iraq, uno dei luoghi più pericolosi al mondo. A sopravvivere alla durezza materna. A un attentato che è costato la vita a molti membri della sua squadra. A un tumore.

Della mia guerra, della mia pace è un’autobiografia e al tempo stesso un grande romanzo, pieno di ardore, di dolore e di gioia, che, tra eroismi e fragilità, compongono la storia e il ritratto di una straordinaria figura femminile dei nostri giorni.

LinguaItaliano
Data di uscita14 nov 2023
ISBN9788830593008
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    Anteprima del libro

    Della mia guerra, della mia pace - Anna Prouse

    PARTE 1

    FIGLIA MIA, SE SOLO AVESSI UN’ALTRA FACCIA

    1970-2003

    1.

    UNA BAMBINA IRREQUIETA

    Ero brutta. Tutti sembrano concordare su questo. Ero talmente brutta che quando un’amica di famiglia osò affermare il contrario e, soprattutto, notare una somiglianza con mio padre, lui si offese. Ancora oggi sorrido al pensiero.

    Non solo ero brutta, ma ero arrabbiata. E chi non lo sarebbe stato dopo un parto che, dai racconti di mia madre, Paulette, fu interminabile, gestito da medici incompetenti e segnato da una serie di intoppi?

    Ero nata prematuramente alla Clinica Columbus. Avevo chiaramente fretta di venire al mondo. Decisi che era ora di movimentare le cose una mattina di inizio luglio, mentre la mamma stava facendo la sua nuotata giornaliera nella piscina del Tennis Club Milano. Nulla lasciava presagire che quel maschietto che portava in grembo si sarebbe scatenato. La mamma aveva la classica pancia da maschio, per cui tutti erano in attesa di Giorgio. Nessuno, comunque, sembrava avere dubbi sul fatto che quel bebè sarebbe stato impegnativo. Già nella pancia ero piuttosto irrequieta.

    Quando fu chiaro che non ero più un candidato per il nome Giorgio, il dibattito si aprì. Elisabetta, il nome che mamma e papà avrebbero preferito, fu bocciato. Ne serviva uno corto e incisivo per una bambina vivace, per evitare che commettessi danni prima ancora che i miei genitori avessero finito di pronunciarlo. Fu così che divenni Anna Laura. Laura per accontentare la nonna.

    La mamma ha sempre raccontato poco di me neonata, ma è sempre stato chiaro che quel periodo, legato all’esperienza dell’allattamento, fosse stata per lei scioccante.

    Dormivo poco o nulla. Era tra le braccia di papà che mi addormentavo, cullata, per poi ricominciare a urlare, appena smetteva. Nei suoi racconti, quello era uno dei ricordi preferiti. Ero tenera. Rompiscatole, ma molto tenera. Amavo farmi coccolare. Era papà, in quei primi mesi, a prendersi cura di me. E la cosa non mi stupisce, data la scarsa pazienza di mia madre. Di giorno avevo tate e governanti, la sera iniziava il turno di Johnny. Un turno lungo e faticoso, ma di cui lui ha sempre conservato ricordi amorevoli. E infatti una delle mie primissime frasi fu papa ramasse, ossia papà raccogli, in francese, che pronunciavo quando mi cadeva qualcosa dal seggiolone e Johnny doveva rimediare. Quelle parole lo resero l’uomo più felice del mondo. La sua Annie gli aveva parlato, e poco importava che si trattasse di un ordine. Papà ne era onorato!

    Paulette aveva deciso di parlare francese con me, sin dalla nascita, mentre Johnny alternava l’italiano all’inglese. E siccome mischiare le lingue era inaccettabile, la regola era che in macchina parlava sempre inglese e a tavola italiano.

    Sin da bambina ero smaniosa di provare tutto e subito, con il risultato di rendermi spesso buffa. Storpiavo le parole pur di comunicare e sbattevo la faccia pur di camminare. Nonostante i lividi, non desistevo. Testardaggine e incuranza del dolore fisico: due tratti caratteriali evidenti sin dalla più tenera età.

    Mio fratello Giorgio nacque tre anni dopo di me. Eravamo in vacanza a Crans-Montana, in Svizzera, quando mia madre andò all’ospedale di Sion per cercare di far nascere un bimbo che, a differenza mia, non sembrava avere una gran voglia di venire al mondo. Il parto, nonostante la mamma fosse terrorizzata, si rivelò una passeggiata. E Giorgio era bello, tranquillo, buono. Insomma, il neonato perfetto. Dormiva a comando, mangiava agli orari prestabiliti, sorrideva. Se vi erano dubbi sul fatto che dagli stessi genitori potessero nascere i figli più diversi, Giorgio e io ne eravamo l’esempio più eclatante.

    Georgie, così cominciai a un certo punto a chiamarlo, iniziò a parlare e a camminare tardi. Quando però si rassegnò al fatto di dover fare entrambe le cose, fu praticamente impeccabile. Al contrario di me, non ebbe bisogno di infiniti tentativi e fallimenti. Parlava senza dire strafalcioni, camminava senza dover compiere prodezze da equilibrista. Ma ciò che mi sorprendeva più di ogni altra cosa era che Georgie non lasciasse che il mondo gli mettesse fretta. Era di una lentezza esasperante.

    Anche nell’amore per le fiabe eravamo diversissimi: mentre io ne ero affascinata, lui era del tutto indifferente. Tutte le sere, prima di andare a letto, papà mi leggeva una fiaba dei fratelli Grimm in inglese. Appena finiva, gli chiedevo di ricominciare, e tutte le sere Johnny doveva discutere per convincermi a dormire. Capitolavo solo se mi grattava la schiena, ma appena smetteva doveva far fronte alle mie lamentele. Andare a dormire significava perdermi un pezzo di vita. Stavo in piedi fino allo stremo delle forze. La curiosità e la smania di partecipare a tutto, a ogni costo, fecero la loro comparsa nella mia vita molto presto.

    2.

    UN’EDUCAZIONE FERREA

    A scuola non brillavo particolarmente. Odiavo la scuola svizzera a cui i miei mi avevano iscritto, al punto che mi venivano crampi allo stomaco ogni mattina all’altezza dell’ospedale Fatebenefratelli, che si trovava a pochi minuti dalla scuola.

    Il giorno della pagella non era mai un momento glorioso anche se tentavo di distogliere l’attenzione da voti non strabilianti, soprattutto nelle materie scientifiche, facendo notare il sei in educazione fisica. Sei era il massimo dei voti in quella scuola.

    «Preferirei il contrario» mi diceva papà, anche se non era lui a essere ossessionato dai miei risultati. Stranamente, nonostante fosse lui il cervellone in famiglia, era la mamma ad avere una vera e propria fissazione per il mio rendimento.

    So poco di lei. Non ha mai raccontato nulla della propria vita, ma dubito avesse frequentato oltre la quinta elementare. L’unica storia che ha raccontato di sé è che scappò di casa a quattordici anni, prendendo in prestito la bicicletta del fratello Marcel, per sottrarsi a una madre violenta. Quel che fece tra i quattordici anni fino ai trentuno, quando sposò papà, è un segreto che custodiva in maniera quasi morbosa. Rifiutandosi categoricamente di parlarmene. Mai una volta ha preso la mia curiosità di bambina per semplice desiderio di conoscerla meglio.

    Nonostante non amassi andare a scuola, adoravo leggere e divoravo libri alla velocità della luce. Libri su cui mi confrontavo poi con Gigi. Luigi Amerio era il mio padrino e aveva preso il suo ruolo molto sul serio. Ingegnere e matematico come papà, era stato il suo professore al Politecnico. Lo aveva bocciato all’esame di matematica, ma quella bocciatura aveva spronato papà ad approfondire una materia che poi si era trasformata nella sua passione, al punto da diventare famoso per i suoi studi sulle equazioni differenziali alle derivate parziali. L’idea che papà fosse stato bocciato mi divertiva. Significava che c’era speranza anche per me.

    Incontravo Gigi tutti i martedì sera alla Società del Quartetto, fondata nel 1863 da Arrigo Boito, Tito Ricordi e altri protagonisti della vita culturale milanese, che contribuì e scrivere la storia della musica in Italia, e di cui i miei erano membri. Fu così che, concerto dopo concerto, mi appassionai, con grande gioia di papà, alla musica classica. Il mio amore per Wagner, che ascoltai per la prima volta alla Scala, lasciava tutti sbigottiti. Potevo stare inchiodata per ore su una sedia ad ascoltare Il crepuscolo degli dei o il Parsifal. La mia passione era tale che papà decise, quando avevo tredici anni, di portarmi a Vienna a sentire I maestri cantori di Norimberga con il baritono Hermann Prey. Fece di me la bambina più felice del mondo.

    A sei anni iniziai a suonare il pianoforte. Mi esercitavo dal nonno, che aveva un pianoforte a coda, su cui nonna Rosetta era solita suonare. Papà mi seguiva passo dopo passo mentre il nonno ascoltava dal divano e lo sgridava se osava perdere la pazienza con me. Andavo a lezione da Anna Cohen, anche lei amica di vecchia data della famiglia. Era una signora anziana e severa, ma io non sono mai stata intimidita dalle persone severe. Quando urlava minacciando di buttarmi dalla finestra, non sortiva mai l’effetto desiderato. «Come mai non piangi? Gli altri piangono quando mi arrabbio» mi disse un giorno. Non potevo rivelarle che le sue minacce di defenestramento erano nulla in confronto a quelle di mia madre.

    Tentò dunque con le buone. Una volta in cui mi bloccai più volte su un passaggio spinoso di Czerny, che odiavo, decise di offrirmi del tè con biscotti per farmi riguadagnare la concentrazione persa. Accettai il tè, con latte, come lo beveva il nonno, ma rifiutai i biscotti. Quando mi chiese come mai, le risposi che i biscotti facevano ingrassare. La mia risposta la turbò profondamente. Non avevo detto nulla di particolare, dal mio punto di vista, eppure Anna Cohen era visibilmente sconcertata. «Sei magra come un chiodo, Annie» mi disse. «Hai delle gambette talmente magre che le calze non ti stanno su. Chi ti mette in testa stupidaggini del genere?» Confessai che era la mamma, ma le chiesi di non dirle nulla. Anna insistette perché prendessi un biscotto, promettendomi di non dire nulla a Paulette. Ma fui irremovibile, talmente ero certa che il biscotto mi avrebbe fatta ingrassare. O forse terrorizzata che Paulette scoprisse il misfatto. Ero convinta che mia madre avesse dei poteri soprannaturali perché ogni volta che ignoravo uno dei suoi diktat, puntualmente mi scopriva. E le conseguenze non erano piacevoli.

    Alla morte di mio nonno, la mamma decise che era ora di traslocare in un appartamento più grande. Lasciammo così la casa arancione di piazzale Segesta.

    George Stanley era un uomo buono. Stavo bene con lui. Spesso, prima di cena, mi sedevo accanto a lui e mi facevo raccontare la storia di come era fuggito insieme a sua moglie Rosetta e al piccolo Johnny in Svizzera, durante la Seconda guerra mondiale. Il racconto di questa fuga rocambolesca mi affascinava. Accusato di essere una spia britannica, era stato arrestato, ma era riuscito a scappare prima di essere spedito in un campo di concentramento. Ci era riuscito grazie a un escamotage messo a punto da un medico che ben conosceva la famiglia di Rosetta. George venne ricoverato d’urgenza, seppure stesse bene, e dall’ospedale iniziò la fuga che li portò prima a Bellagio e poi in Svizzera. Si fermarono a Crans-Montana dove rimasero fino alla fine della guerra. Papà aveva appena nove anni.

    Mio nonno era sbarcato (nel vero senso della parola) in Italia dalla lontana Nuova Zelanda per venire a studiare il bel canto. Suo padre era un famoso baritono e la musica scorreva nelle vene della famiglia. Tennista di ottimo livello, incontrò Rosetta e si innamorò di questa donna all’avanguardia che non aveva voluto sposarsi sino ad allora. Rosetta Gagliardi aveva trentasei anni e lui ne aveva quarantotto. Mi piaceva il fatto che la nonna non si fosse lasciata convincere ad accasarsi con un qualche buon partito della Milano bene. Doveva aver combattuto duramente per rimanere single fino a quell’età!

    George divenne un affermato uomo d’affari. Aveva fondato la Maxima, che produceva la racchetta da tennis che per mezzo secolo fu la più venduta in Italia. Quasi tutti lo ricordano per quella racchetta di legno che fece storia: la Maxima Torneo, adottata dai grandi del tennis italiano tra cui Panatta, Pietrangeli, Merlo, Barazzutti, Lea Pericoli e molti altri. Da San Siro, dove abitavamo, noi al terzo piano, lui al secondo piano della stessa palazzina, andava a Quinto de’ Stampi tutti i giorni, in tram. Sulla via del ritorno si fermava a un supermercato per prendere un po’ di focaccia per la sua nipotina. Focaccia che nascondeva in un cassetto, essendosi accorto che non mi era consentito mangiare quanto gli altri. Andò al lavoro fino a una settimana prima di morire, all’età di novantasette anni. Una sera, a cena, si sentì particolarmente stanco, andò a coricarsi e si spense una settimana dopo. Avevo dieci anni. I miei non vollero che mio fratello e io lo vedessimo in quella fase. Volevano che lo ricordassimo in forma e pieno di vita. Una scelta saggia che ha fatto sì che, ancora oggi, io abbia un’immagine del nonno proprio come lui avrebbe desiderato. La sua perdita fu un dramma per me: il mio primo incontro con la morte.

    La Dina, la donna che si era sempre presa cura della casa del nonno, venne a vivere con noi.

    La nuova casa divenne il regno di Paulette, all’interno del quale lei assunse un vero e proprio atteggiamento da dittatore. Se prima doveva fare i conti con il nonno che era capace di influenzare le decisioni di papà, ora era la dominatrice incontestata.

    Da sempre stravedevo per mia madre. La trovavo bellissima con quegli occhi azzurri e quei capelli biondi lisci. Assomigliava a Grace Kelly ed era senza ombra di dubbio la più bella mamma che si potesse avere. Era sempre elegante e quando usciva la sera con papà era un vero e proprio schianto, fasciata in quei vestiti di Yves Saint Laurent, il suo stilista preferito.

    Pur non essendo una donna colta, parlava quattro lingue e aveva deciso di insegnarmi il francese sin da piccola. Anche se non ne ho ricordo, dovevo aver a mia volta deciso che non le avrei dato la soddisfazione di sentirmi parlare in una lingua che solo lei e pochi altri usavano.

    «Capivi tutto, ma ti rifiutavi di rispondermi in francese» mi raccontava. «Finché, un bel giorno, non ti sei resa conto che anche altri lo parlavano.» A quanto pare, mentre la mamma prendeva il sole sul balcone della nostra casa a Crans-Montana, nella Svizzera francofona, sentì la voce della sua bambina che parlava allegramente in francese con altri coetanei nel giardino condominiale. Incredula si affacciò e, in effetti, la sua monella sfoggiava un francese impeccabile. «Eri fiera come non mai e mi dicesti: Ora mi insegni quell’altra lingua, mamma?.» L’altra lingua era il tedesco.

    Non furono altrettanto felici i suoi tentativi a fare di me una ballerina provetta. Con il senno di poi mi chiedo come Paulette potesse pensare che sarei stata a mio agio indossando un tutù rosa. Ricordo le scene disperate in tram, con la tata di turno: mi aggrappavo alle maniglie pur di non scendere. Ho sempre avuto il passo pesante. Piroettare in punta di piedi non era nel mio DNA e non cambiai atteggiamento neppure quando fecero uno strappo alla regola lasciandomi indossare un tutù azzurro per il saggio di fine anno.

    Altrettanto disastrosi furono i suoi sforzi per impormi la dormitina pomeridiana. Lei non poteva farne a meno, ma io non riuscivo proprio a staccare la spina nel bel mezzo della giornata. Faticavo ad andare a letto la sera, figuriamoci quando il mondo intorno a me era in piena attività. Mi portava con sé nel lettone per accertarsi che dormissi. Una scelta infelice che finiva quasi sempre in scossoni e sberle. Per lei dormire era una questione di vita o di morte, e rovinarle il pisolino pomeridiano veniva considerato un oltraggio inaccettabile. Esasperata, decise di tentare con un’altra tattica: farmi dormire nel mio letto. La pacchia durò poco perché ben presto si accorse che facevo tutt’altro, e che fingevo di dormire solo quando sentivo il rumore della sua porta che si apriva e del suo passo pesante. «Sei una bugiarda nata. Non so da chi tu abbia preso perché in famiglia le bugie non le diciamo. Ma tu vivi di bugie.» Essere accusata di dire bugie mi feriva, anche se, tecnicamente, avevo mentito. Francamente non capivo perché non riposare il pomeriggio fosse considerato un atto criminale. Papà non lo faceva durante il fine settimana o in vacanza. Perché non potevo venire esonerata anch’io?

    Se piroettare con un tutù non mi si addiceva proprio, quel che invece mi eccitava come nient’altro era correre dietro a una palla da tennis. Fu a Monticello che iniziai a giocare con una certa regolarità. I miei avevano preso una casa in questo golf club a quindici minuti da Como. Prima di allora mi ero esercitata sul campo da tennis nel giardino della casa di Crans-Montana. Avevo all’incirca quattro anni quando papà iniziò a lanciarmi la palla dopo aver finito di giocare con mamma. Johnny era un ottimo giocatore, all’età di diciassette anni aveva vinto Wimbledon juniores. Abbandonò l’agonismo per dedicarsi agli studi di Ingegneria, ma non smise mai di giocare a tennis e, vedendo la foga con cui già in tenera età rincorrevo la palla, decise di insegnarmi a giocare. A Monticello potevamo allenarci tutti i fine settimana e molto in fretta imparai a colpire la palla molto più forte di ogni mia coetanea. Avevo un rovescio a due mani, un dritto piatto e una compostezza a cui papà teneva particolarmente. Ma fu solo quando ci raggiunse in montagna, alla fine dell’estate del 1982, che capì che ero più forte della media delle giocatrici della mia età. Papà aveva assistito alla finale della Coppa Lambertenghi, il campionato italiano under 12 che si svolgeva al Tennis Club Milano. E, nonostante non fosse propenso a farmi complimenti, ammise che avrei vinto su ambedue le finaliste. «L’unica cosa che dobbiamo migliorare è il servizio» aggiunse, usando il plurale. «Perché per il resto sei una spanna superiore.»

    Il mio primo torneo fu un doppio misto con papà. Perdemmo in finale dopo aver vinto il primo set facilmente. Ma non ero abituata a stare in campo più di un’ora e le mie batterie si scaricarono anzitempo. Perdere fu una vera e propria tragedia. Mi rinchiusi nella mia stanza dove piansi a dirotto. Era una sensazione nuova, un misto di rabbia e disperazione unito a una smania di voler migliorare il mio gioco e scendere in campo al più presto per allenarmi. Non ero facile al pianto, eppure quella sconfitta mi colpì più di quanto chiunque si aspettasse. Il giorno seguente ero in campo con papà e giocammo per un paio d’ore. Era chiaro che un’oretta ogni tanto non mi bastava più.

    Vinsi il primo singolare femminile a cui mi iscrissi. Nessuna avversaria era riuscita a portarmi via più di due game. All’indomani della vittoria un giornale locale titolava: Anna, prendi la racchetta. E così decisi di fare.

    3.

    LA VIOLENZA CHE NON SI VUOL VEDERE

    Paulette era sempre stata una donna dura e intransigente e, a oggi, non ricordo mi abbia mai abbracciata o coccolata. Era incapace di affetto. Ma fu dopo essere stata conquistata da alcuni scritti di Rudolf Steiner che si trasformò da madre severa e fredda in madre offensiva e violenta. Steiner era un filosofo austriaco, fondatore dell’antroposofia, una visione della realtà che concepisce ogni cosa come una manifestazione della divinità in continua evoluzione. Nella prospettiva antroposofica gli uomini sono inseriti in un processo di reincarnazioni, nelle quali si realizza il costante sforzo di elevazione del proprio spirito.

    Dal mio punto di vista, Steiner mi aveva rovinato la vita. Non solo a casa si parlava solo di lui e della sua Filosofia della Libertà, ma ogni frase iniziava con: Steiner ha detto, Steiner ha fatto. Era incredibile quante opinioni Steiner avesse praticamente su tutti gli aspetti della vita, anche quelli più banali.

    Il mio aspetto fisico era sempre stato un problema per Paulette. Dai capelli ricci, chiaro segno di ribellione, alla mia faccia paffuta. Prima di coricarmi, mi metteva una retina in testa nel tentativo di tenere a bada quei capelli indomabili. Ma senza ottenere il risultato sperato: rimossa la retina, tornavano della loro forma naturale. E allora erano sberle e urla, come se fossi io a ordinare ai miei capelli di tenere testa al volere del Comandante in Capo, Paulette Vogelsberger. Alsaziana di origine, Paulette era più tedesca che francese. Così come papà, aveva vissuto la Seconda guerra mondiale, anche se da una zona del mondo ben diversa, una zona che era direttamente nelle mani di Hitler. Il nonno materno, Georges, aveva combattuto nella Linea Maginot e la madre, Matilde, aveva più volte tenuto testa alle SS quando irrompevano nella loro, a Drachenbronn, alla ricerca del marito.

    Drachenbronn, ossia la sorgente dei draghi: non vi potrebbe essere nome più azzeccato per un luogo che vide Paulette muovere i suoi primi passi. Non conobbi mai il nonno materno. Morì ben prima della mia nascita. Conobbi invece mia nonna, Matilde, anche se andavamo a trovarla poco, nonostante si fosse apparentemente addolcita con gli anni e si fosse riappacificata con mamma. Che fosse una donna feroce, e che questa ferocia si fosse riversata su Paulette, fu una delle poche cose del passato di mia madre che lei condivise con me. Insieme al racconto appena accennato di abusi subiti nelle famiglie che l’avevano assunta per accudire i propri figli, quando era scappata di casa. Ma, fatta eccezione per questi episodi, la mamma mi tenne sempre all’oscuro del proprio passato. Quelle pochissime volte in cui abbassò la guardia per raccontare qualcosa di sé, furono seguite da attacchi improvvisi nei miei confronti. Ero troppo piccola per vederlo, ma era la fotocopia di sua madre. Credo che Paulette si vergognasse del suo passato e non riuscisse a perdonarsi di essere dovuta scendere a compromessi per sopravvivere. Pensava che tutti, me compresa, la giudicassero.

    Oltre ai miei capelli, ciò che la indisponeva era la mia faccia. «Dobbiamo fare qualcosa con quelle guanciotte» mi diceva. «Se non spariscono vediamo se un chirurgo ci può dare una mano.» E fu così che all’età di tredici anni mi portò da un chirurgo estetico. Ricordo lo sconforto quando il medico si rifiutò di usare il bisturi per accontentarla.

    «Non c’è ombra di grasso, signora» le disse. «Sua figlia ha gli zigomi alti e metà della popolazione femminile vorrebbe avere la faccia di questa ragazzina meravigliosa.»

    Se da un lato ero colpita e lusingata dal fatto che il chirurgo estetico pensasse io fossi bella, dall’altra avrei voluto accontentasse Paulette. Notando il mio sconforto, convinse la mamma a lasciarci soli per un paio di minuti e mi chiese che cosa volessi, io, Anna Prouse.

    «La prego, la faccia contenta» lo supplicai. Tutto ciò che volevo era vedere mia madre felice e, nell’ingenuità che contraddistingueva la mia giovane età, pensavo che la mia faccia fosse alla base di tutti i nostri problemi.

    Ma le umiliazioni quotidiane cui Paulette mi sottoponeva non si limitavano ai miei capelli e alla mia faccia. Il mio intero corpo era sempre al vaglio, e il giudizio aveva luogo tutti i giorni con la prova della bilancia. Mi spogliavo e, sotto il suo sguardo crudele, salivo su quello strumento, causa di così tanti drammi e ansie nella mia vita. Ero alla mercé di un tiranno che provava soddisfazione a offendermi e schiacciarmi. Ancora oggi non riesco a pensare a nulla di più umiliante che essere insultata mentre ero nuda. Ancora oggi non sono riuscita a superare il trauma di quegli anni, e ho dovuto eliminare la bilancia dalla mia vita.

    Fare shopping era una delle attività che invece ci univa. A Paulette piaceva vedermi vestita bene e non badava certo a spese nel farlo. Il mio guardaroba era pieno di abiti eleganti delle migliori firme. Ma anche l’acquisto di vestiti comportava una buona dose di stress e raramente le cose finivano bene. Alla domanda delle commesse circa la mia taglia, io rispondevo che ero una quaranta. Ma Paulette non sembrava accettare che io non fossi una quarantaquattro come lei e allora si inseriva, contraddicendomi violentemente.

    «Ma quale quaranta! È una quarantaquattro, se non di più.» E quando la quarantaquattro risultava visibilmente troppo grande, non poteva che essere colpa della griffe che doveva aver adottato un sistema di taglie diverso.

    La sua fissazione per il mio peso peggiorò negli anni. Mentre mio padre e mio fratello potevano mangiare più o meno liberamente, io venivo apostrofata con ferocia inaudita se soltanto provavo a tagliarmi una fetta di Grana. Sedermi a tavola sotto lo sguardo impietoso di Paulette era una tortura a cui dovevo sottostare quotidianamente.

    Fu così che il tennis divenne sempre di più la mia valvola di sfogo. Proprio come Martina Navrátilová, Ivan Lendl e molti altri che, a quel tempo, vedevano in questo sport la loro unica speranza di fuga da regimi oppressivi, anch’io vedevo in quello sport l’unica speranza di evasione dal mio dittatore personale, mia madre.

    «Quando ti guardo giocare, i tuoi occhi mi spaventano» mi disse un giorno Paulette. Aveva ragione. Avevo sviluppato quel killer instinct così necessario per vincere e, senza accorgersene, la mamma aveva contribuito affinché ciò avvenisse. In poco tempo ero passata dal vincere tornei in Italia a essere un nome da seguire a livello internazionale. Il salto di qualità avvenne anche grazie a Beppe Merlo, l’ex campione italiano che, dopo avermi vista in azione all’Avvenire, un importante torneo internazionale, chiese a papà di potermi allenare. Prima di lui era stato Patricio Apey, allenatore e manager della mia coetanea argentina, Gabriela Sabatini, a mostrare interesse. Ma avrei dovuto trasferirmi in Argentina, cosa che era fuori discussione. Nonostante fosse scontato che avrei proseguito con la carriera tennistica, papà mise bene in chiaro che la scuola doveva rimanere il mio obiettivo principale e che avrei potuto diventare professionista solo dopo aver conseguito la maturità.

    Papà era un mio fan incondizionato, e il nostro rapporto idilliaco era forse anche una delle cause dell’accanimento di mia madre nei miei confronti. La nostra sintonia intellettuale era fuori dal comune. Parlavamo di musica, di letteratura, di sport, di religione, di politica, di viaggi e, soprattutto, di sogni. Fin da piccola era a lui che confidavo le mie aspirazioni più segrete e, seppure spesso non riuscisse a comprendere l’origine di molti dei miei sogni, c’era sempre, da parte sua, una sorta di ammirazione nei miei confronti. Con papà non mi sentivo mai giudicata, anche quando non la pensava come me. Era un ottimo ascoltatore, una qualità che ero intenzionata a coltivare. Era calmo, riflessivo, con un senso dell’umorismo tipicamente inglese. Riusciva a fare battute senza alterare la sua espressione, il che lo rendeva ancora più spiritoso, anche se non tutti coglievano questo suo lato.

    Era un bell’uomo, con i suoi folti capelli scuri, occhi intelligenti e buoni, e fitte sopracciglia. «Lasciale stare!» urlava, quando Paulette gli si avvicinava con le forbicine per tagliargliele. Era raffinato ed elegante, e ricordo che indossava la cravatta anche durante il fine settimana. Era alto e molto magro. Talmente magro che gioiva ogni qualvolta riusciva a ingrassare di mezzo chilo. A tale scopo, la cura migliore erano le vacanze estive a Crans, mentre quelle invernali avevano l’effetto opposto. Tra la fatica dello sci, tennis e altre attività in cui lo trascinavo non poteva che perdere peso.

    In famiglia era lo sciatore meno esperto anche se la maggior parte delle sue cadute erano dovute al suo spirito da esploratore. Mentre Paulette adorava le piste battute, Johnny preferiva il fuoripista, la neve fresca e persino nevi bagnate e pesanti che tutti evitavano, ma non lui. Fu in seguito a una delle sue cadute in una freddissima giornata di febbraio che si trovò costretto a subire le personalissime cure di Paulette. Arrivato a casa, Paulette andò a raccogliere neve fresca che gli strofinò sul sedere. A nulla servirono le proteste di Johnny a cui quel trattamento barbarico sembrava andare contro ogni logica. Ma lo strofinamento della neve sulla parte su cui si è formato un gelone era il rimedio a cui Paulette ci sottoponeva: il mio orecchio destro ne sapeva qualcosa. Rimase inascoltato il consiglio di una vicina di casa, farmacista, che ci suggeriva di adottare metodi più tradizionali, quali creme al cortisone. Mamma era una fanatica delle cure alternative e noi dovevamo adeguarci all’ultima diavoleria che aveva inventato. Detto ciò, il gelone sul sedere e la conseguente tortura convinse papà a capitolare e ad acquistare un paio di pantaloni da sci.

    Il coraggio di papà aveva modo di mostrarsi fuori dalle mura di casa. Lì dentro era succube di Paulette. Gli voglio troppo bene per definirlo uno zerbino, ma era incapace di tenere testa alla moglie. Ciò che più contava, per papà, era salvare le apparenze, anche all’interno del nucleo familiare. A tavola dovevamo essere la copia perfetta della famiglia del Mulino Bianco. Anche se Paulette mi tiranneggiava, obbligandomi a mangiare crusca con latte scremato o, peggio ancora, acqua calda, Johnny fingeva che tutto fosse a posto. Io avevo imparato a seguire gli ordini, piuttosto che ribellarmi. Perché le proteste finivano sempre male per me. E, soprattutto, andavano a intaccare la quiete familiare a cui papà tanto teneva. Le pochissime volte che osò reagire gli vennero emicranie lancinanti.

    Papà era incapace di litigare. Non ho tenuto il conto delle volte che mi supplicò di chiedere scusa alla mamma, pur sapendo che avevo ragione. Ci misi poco a capire che non potevo aspettarmi che mi proteggesse. Avrebbe significato discutere con mamma e la cosa era impensabile. «Lo so che hai ragione, Annie» mi diceva. «Ma sai quanto le fa piacere quando le chiedi scusa.» Fare piacere a Paulette era la sua missione, anche quando si trattò di seguirla in una ricerca spirituale ossessiva e dai presupposti malsani.

    Se si era inizialmente rifiutato di accompagnarla tutti i giovedì sera agli incontri presso la Società Antroposofica di via Vasto, alla fine capitolò. Non ce la faceva proprio a opporsi e trovò più facile seguire gli ordini e stare zitto. Decisi di fare lo stesso e anziché godermi la lettura dei Dostoevskij di questo mondo, cercai di avvicinarmi a Dio e a mia madre leggendo libri sui due bambini Gesù, su Arimane, sull’essenza dei colori, sui Rosacroce, sui vari Vangeli e, ovviamente, sull’Apocalisse. Al posto delle foto di famiglia, ecco che imperversava dentro casa l’immagine in bianco e nero di Rudolf Steiner. Più che avercela con il filosofo stesso, ce l’avevo con mia madre che applicava la sua versione di antroposofia a tutti gli aspetti della vita cominciando, ovviamente, dal cibo. Se leggeva che mangiare solo ananas curava il raffreddore da fieno, ecco che la scoperta veniva attribuita a Steiner anche se, ovviamente, Steiner non aveva detto nulla sull’ananas. E siccome ero l’unica in famiglia a soffrire di raffreddore da fieno, a colazione, pranzo e cena mi veniva propinato l’ananas.

    Altra fissazione di mia madre era la doccia fredda e, per fortuna, quello non era un trattamento speciale riservato esclusivamente a me. Steiner doveva aver detto o scritto che le docce fredde avvicinano lo spirito a Dio perché, persino in pieno inverno a Mosca, dove eravamo andati seguendo papà in una delle sue numerose conferenze di matematica in quella parte del mondo, la mattina iniziava con una doccia gelida. Papà urlava come un’aquila quando Paulette si impossessava del flessibile della doccia. «No, non sulla pancia!» si lamentava. «Tutto ma non la pancia.» Era magro come un chiodo e odiava il freddo ma, come un bravo soldato, seguiva gli ordini del feldmaresciallo.

    Bere la prima pipì del mattino fu un altro consiglio medico attribuito a Steiner. Dall’oggi al domani, ingerire la propria pipì curava tutti i mali. «Ma sto bene» le dicevo. «Che bisogno c’è di bere la pipì?» Nel mio caso specifico la terapia pipì andava ben oltre l’ingerimento: visto che rafforzava i capelli, versarmene un po’ in testa era un toccasana per la mia chioma. Che i miei capelli naturalmente folti non avessero bisogno di cure rinforzanti era del tutto irrilevante.

    Il modus operandi all’interno del nostro nucleo familiare era causa di forte confusione per me. Sin da piccola, la demarcazione tra bene e male, giusto e sbagliato era stata poco chiara. Chiedere scusa pur avendo ragione, prendere botte senza alcun motivo, venire punita quando nessuna azione giustificava il castigo provocavano molte delle mie riflessioni notturne. Se non piangevo mai davanti a Paulette, appena mi ritrovavo tra le quattro mura della mia stanzetta mi lasciavo andare. Ma più che piangere, pensavo. Cercavo, usando la logica, di spiegare a me stessa come mai non piacessi alla mamma, come mai non riuscissi a farne una giusta. La convinzione, poi, che gli adulti avessero sempre ragione, soprattutto i genitori, era quel che creava maggiori problemi. Perché a volte non vedevo proprio come la ragione potesse essere dalla sua parte. Era una matassa davvero difficile da sbrogliare per una bambina piccola. Non mi saltò mai in mente che, forse, c’era qualcosa di sbagliato in Paulette. Mi colpevolizzavo per qualsiasi cosa succedesse. Se la mamma diceva che ero grassa, importava poco che la bilancia non confermasse le sue parole: la mamma aveva sempre ragione, per cui io ero grassa. Se avevo una faccia sgradevole, non c’era dubbio che fosse tale e, se la chirurgia plastica non mi poteva aiutare, allora dovevo trovare un altro rimedio. Concentravo tutti i miei sforzi nel tentativo di cambiare me stessa, sia a livello fisico sia a livello comportamentale.

    Fu così che decisi di smettere di ridere perché questo gesto, per me tanto spontaneo, metteva in risalto le mie orribili guanciotte. Ero per natura esuberante e la gente sembrava apprezzare questo mio aspetto caratteriale. Paulette, invece, ne era irritata. Si arrabbiava visibilmente se catalizzavo l’attenzione, tanto che io mi sforzavo di stare dietro le quinte.

    Con il passare degli anni diventai due persone diametralmente opposte: l’Anna in presenza di mamma e l’Anna in sua assenza.

    Tra le mura di casa, poi, ero quanto di più lontano dalla vera Anna. Suonavo il campanello e consapevolmente smettevo di sorridere, assumendo un’espressione seria. Respiravo a fondo facendomi coraggio quando sentivo la chiave girare nella toppa, e dall’espressione della Dina sapevo se il pomeriggio sarebbe stato all’insegna di botte e insulti o relativamente pacifico. Meno male che c’era lei, la mia àncora di salvezza. Evelina Daminato aveva iniziato a lavorare per la famiglia Prouse quando aveva dodici anni. Suo padre l’aveva consegnata a mia nonna Rosetta e da quel giorno la Dina si era trasferita da Castelfranco Veneto a Milano. Dai suoi racconti, Rosetta l’aveva trattata sempre come una figlia, nonostante fosse a tutti gli effetti la donna delle pulizie. Tornava a casa, in Veneto, solo durante il periodo estivo. Lo stipendio andava direttamente al padre. Era la seconda di cinque figli, quella prescelta per essere mandata a lavorare in città presso una famiglia benestante. Era alta e magra. Le sue grosse mani da lavoratrice mi avevano sempre affascinata. Aveva le unghie lunghe e perfettamente curate e smaltate di rosso. Cucinava, puliva, stirava, serviva a tavola ma, più di ogni altra cosa, mi proteggeva.

    Ricordo ancora il giorno in cui osò mettersi tra me e mia madre. Dovevo avere tredici anni. Paulette era in preda a uno dei suoi attacchi di ira. La mattina al risveglio e il pomeriggio, dopo la sua dormitina, erano i momenti peggiori. Dalla mia stanza origliavo con terrore, e da come apriva la sua porta e marciava verso la mia camera sapevo come sarebbero andate le cose. Non so se Paulette dormisse o rimuginasse, perché era proprio quando si alzava dal letto che la cattiveria e l’accanimento nei miei confronti raggiungevano l’apice. La volta in cui Dina decise di intervenire era stata particolarmente aggressiva. «Io ci sto provando a cambiarti!» urlava. «Ma tu resisti. Non ti rendi conto di quanto tu sia fortunata ad avere me che ti guido verso la salvezza.» Paulette aveva deciso di farsi carico del mio processo d’iniziazione. Un’iniziazione ispirata da Rudolf Steiner, anche se era poco chiaro in che cosa realmente consistesse se non obbedire a Paulette, che era spirituale solo a parole.

    Ma io, per lei, ero un’ingrata: a differenza della stragrande maggioranza della gente, io avevo avuto la fortuna di avere una madre che poteva mostrarmi la retta via. Mentre gli altri dovevano trovare la luce da soli, io avevo la strada spianata grazie a una guida spirituale, lei. Se però continuavo a oppormi al volere di Dio, la sua ira nei miei confronti sarebbe stata ben superiore rispetto a chi non era stato favorito dalla sorte da poter incontrare una Paulette. Lei era, a tutti gli effetti, il tramite tra l’Onnipotente e me. Mia madre non risparmiava botte, nei momenti in cui la mia ingratitudine le sembrava così evidente. Il lancio libero era il suo forte. Afferrava l’oggetto a lei più vicino e lo scagliava contro di me.

    Dina, che di pomeriggio stirava nella stanza accanto,

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