Dove dormono le fate
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Info su questo ebook
Narrativa - racconto lungo (37 pagine) - “Io mi adatto, ovunque mi mettano. Aiuto la mamma con Alex. Non ho problemi. Però, la notte sogno spesso il nostro letto berbero, dove stavamo io, la mamma e Eugenio. Prima che papà tornasse a scombussolare le carte; che una pandemia ci mettesse in ginocchio. Prima delle nostre scelte sbagliate”.
La psicoterapia è per chi ha dei soldi. Per tutti gli altri, un buon metodo è il cosiddetto "scazzo", ovvero mettere nero su bianco le ragioni della propria acredine. Così fa Chiara, vent'anni, arrabbiata da quando ne aveva due, con quel padre irresponsabile che l’ha abbandonata per poi tornare sui suoi passi e cercare di rimediare. Le vicissitudini, le difficoltà ad aprirsi a un mondo che sembra sempre sull’orlo della disintegrazione, trovano un proprio baricentro, per quanto precario, in quel luogo che è stato talmente intimo da contenerla tutta. Un monolocale con un letto berbero, dove per un periodo lei è stata fata.
Cristina Biolcati è ferrarese, ma padovana d’adozione. Laureata in lettere, ama molto leggere. Scrive poesie e racconti brevi. Fra le sue passioni: gli animali, l’arte e la filosofia.
Collabora con alcune riviste digitali, dove scrive recensioni di libri e articoli letterari.
Opere pubblicate: Se Robin Hood sapesse (Delos Digital, 2017), vincitore del concorso Mondadori Oscar Allenamente 2017, Categoria Rosa; Ciclamini al re (Delos Digital, 2018), vincitore del Books for Peace 2020, tema bullismo; L’uomo di marmellata (Delos Digital, 2019); Le congetture di Bonelli (Delos Digital, 2020).
Partecipa spesso a concorsi, ed è presente coi suoi racconti e poesie in molte antologie collettive.
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Anteprima del libro
Dove dormono le fate - Cristina Biolcati
9788825411669
I. L’antefatto
Mi chiamo Chiara, ho vent’anni e vivo incazzata da quando ne avevo due. Sembra impossibile, lo so, eppure. Credo sia stato in quel periodo che ho imparato che la mia famiglia non era un posto felice; che ho iniziato a odiare mio padre.
Mia mamma Cristina è sempre stata l’amore della vita di papà, e lui lo stesso per lei. Avrebbe dovuto essere facile; bastava amarsi anziché complicarsi l’esistenza e renderla invivibile ai figli.
Papà e mamma si sono messi insieme giovanissimi: neanche diciotto anni lei, ventuno lui. All’inizio un amore contrastato dai genitori di entrambi, che poi ha superato ogni ostacolo con l’arrivo di mio fratello Eugenio, nato il 6 novembre 1992. Erano gli anni novanta, magici, è vero, ma anche difficili. I miei genitori sono andati a vivere a Ferrara, mia città del cuore, in un piccolo monolocale che mio nonno aveva preso alla mamma, quando lei studiava all’università. La casa dove sono nata e cresciuta, dove avrei voluto restare per sempre, se non fossero successe tante di quelle vicissitudini da pensare di avere una sfiga stratosferica.
Ebbene, dicevo, papà e mamma vivevano con Eugenio in quel monolocale che poi lei non ha lasciato più, perché i soldi erano sempre pochi.
Papà ha trovato lavoro presso una ditta di trasporti, come padroncino. Mamma aveva noi da seguire, ma ugualmente lavorava part time presso un centro medico, come osteopata, un’occupazione che le ha sempre dato tante soddisfazioni.
I primi anni sono stati idilliaci, a sua detta: finalmente poteva stare con papà liberamente, avevano anche un figlio. Papà però è sempre stato un po’ farfallone, e non venitemi a dire cazzate, tipo che la carne è debole o cose simili. Perché papà ha fatto solo casini.
Il 5 dicembre 1999 sono nata io, che fisicamente sono la sua fotocopia. Eugenio somiglia alla mamma, io sono papà, netto e sputato. Lui da giovane era robusto, io grazie al cielo lo sono un po’ meno, ma il viso, il taglio degli occhi, il colore dei capelli, insomma, non è facile convivere allo specchio col nemico.
E lì le cose hanno iniziato un po’ a incrinarsi. Papà è rimasto con noi nel monolocale di Ferrara fino ai miei due anni, poi è tornato al paese, da dove era venuto. Non ricordo niente di quel periodo, soltanto i giochi che facevo con lui sul letto; che mi faceva volare come fossi un piccolo aeroplano.
Però, in teoria, avremmo potuto averlo fatto anche dopo. Nemmeno le lacrime di mamma, ricordo. Eppure Eugenio, che era più grande, me ne ha parlato spesso. Perché papà era l’amore suo grande e tutto d’un tratto l’ha mollata (ci ha mollati) per tornarsene al paesello, in provincia.
In principio deve avere trovato quella scusa, oltre al fatto che avevano iniziato a litigare di brutto e Eugenio dice che è stato meglio così. Poi si è scoperto che aveva un’altra donna, una del paese, di cui mamma non sapeva niente. Una rossa di una volgarità infinita, che quando l’ho sentito mi sono dispiaciuta, per l’umiliazione. Avesse scelto bene, almeno! Ma mio padre è un coglione, si sa.
E insomma, noi tre siamo rimasti a vivere nel monolocale in centro a Ferrara. Mamma col suo lavoro; noi due piccoli, alle prese con la scuola. L’unica stanza è stata adibita per metà a salotto e per metà a camera da letto. La mamma ha avuto l’idea di mettere una grande tenda di broccato, leggera, tutto attorno al letto matrimoniale, così da potere dormire comodamente ed eclissarsi al momento del bisogno. Un binario ad anelli, tipo tenda della doccia. Ci ritiravamo in camera, aprivamo un pochino e vedevamo la televisione direttamente dal letto. Eugenio dormiva dalla parte del muro, mentre io e la mamma in due, vicinissime, nella stessa metà di materasso. In tanti, in seguito, hanno criticato questo nostro modo di vivere,