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Io ti riconosco
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E-book76 pagine1 ora

Io ti riconosco

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Info su questo ebook

“La malattia ha messo al suo posto tante cose nella mia vita, ha riordinato, distruggendo.

Quando smetti di essere come vogliono gli altri, cambia tutto. Ti senti dire che le cose possono funzionare solo se rientri nel recinto. Ribellarsi non serve, da sola non ce la puoi fare perché vali solo se è qualcun altro a misurare e a darti quel merito.

Le parole ti possono accartocciare come carta velina, arrivi a pensare che non sarai più la stessa, vacilli e pensi che forse la ragione sta dall’altra parte, forse se torni indietro quelle parole non rimbomberanno più nelle tue orecchie. Forse, se torni indietro, non piangerai più. Forse sarai di nuovo una brava mamma. Forse sarai di nuovo una donna da corteggiare e da amare, ma forse se torni indietro non sarai più in grado di salvarti.

Quando smettiamo di sorridere, dobbiamo andarcene”.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2024
ISBN9791220149211
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    Anteprima del libro

    Io ti riconosco - Karin Franceschini

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    Karin Franceschini

    Io ti riconosco

    © 2024 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-4658-6

    I edizione gennaio 2024

    Finito di stampare nel mese di gennaio 2024

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Io ti riconosco

    Alle mie figlie,

    a mia madre,

    a mio fratello

    Prefazione

    Perché ho il desiderio di scrivere un libro?

    Questo desiderio nasce molti anni fa. Fin da bambina scrivevo ovunque, riempivo agende vecchie che trovavo in giro per casa, scrivevo racconti, storie fantasiose popolate soprattutto da eroi, da personaggi forti che ne salvavano altri più fragili.

    Poi, pochi mesi fa, sulla riva di un lago, una persona mi ha detto: non sempre la resilienza è positiva, ma non si può non sognare in grande. E questo è il mio sognare in grande.

    Alda Merini disse: chi non sogna è disperato, e lo penso anch’io.

    Questo mio racconto non ha la presunzione di salvare nessuno, ma il desiderio di condividere la gioia di chi si rialza non una volta, ma dieci, cento, mille…

    "Quando trovi il coraggio di raccontarla, la tua storia,

    tutto cambia.

    Perché nel momento stesso in cui la vita si fa racconto,

    il buio si fa luce e la luce ti indica la strada" – Ferzan Ozpetek

    Ho capito che tutti noi abbiamo delle risorse, delle risorse incredibili, ma che talvolta passiamo la vita a non credere assolutamente a questa cosa. Fino a che non succede qualcosa alla quale non possiamo sfuggire, qualcosa che dobbiamo affrontare senza abbassare lo sguardo, tenendolo fisso avanti anche quando vorremmo solo chiudere gli occhi e far finta di nulla.

    Ho letto da qualche parte che, quando ci sentiamo dentro un tunnel buio e non vediamo via d’uscita, dovremmo fermarci e pensare a come arredarlo.

    All’inizio dovremmo usare tutte le lampadine a nostra disposizione, fino al giorno in cui, inconsapevolmente, non accenderemo nessun interruttore perché non ce ne sarà più bisogno, la luce naturale sarà entrata mentre eravamo occupati a rendere quel tunnel più confortevole.

    Capitolo 1 – IL GIGANTE

    Ho cinquant’anni e sono nata da una mamma bambina e un padre che, nonostante vivesse nella mia stessa casa, è rimasto uno sconosciuto per quasi tutta la vita. Mi incuriosiva questo uomo gigante con i capelli lunghi, i baffi, gli occhi piccoli e azzurrissimi. Aveva la passione per le Alfa Romeo e ne cambiava in continuazione scegliendo le più vecchie, dai colori più improponibili e talmente rumorose che speravo di incrociare sempre semafori verdi per non essere costretta a nascondermi sotto il sedile quando lui, orgoglioso, toglieva la marcia e schiacciava l’acceleratore.

    Non ho molti ricordi di lui nella mia infanzia, ed è incredibile come, più scarsi siano i ricordi, più riescano a cristallizzarsi nei pensieri.

    Lui amava Nel sole di Albano e la amo anch’io, perché è una canzone meravigliosa e perché la cantava mentre cucinava. E giuro, dopo mia figlia, era la persona più stonata dell’universo.

    Tutt’ora, se mi capita di ascoltarla e se con me ci sono le mie figlie, loro lo sanno e mi dicono: mamma, ti prego, resisti, puoi farcela: non piangere!. Ed io non ce la faccio, mai. Alle volte quando ho le lacrime chiuse in gola - quelle lacrime che fanno male perché non escono -, mi nascondo, metto le cuffie, mi sintonizzo e le libero. Non me ne voglia Albano, ma è stato per me spesso terapeutico.

    Parlava poco mio padre. Non ho mai saputo cosa pensasse, ma ho sempre avuto la certezza che dovesse imparare ad essere mio padre quanto io ad essere sua figlia. La differenza era che io ogni giorno mi preparavo ad imparare qualcosa di nuovo che non arrivava mai, mentre lui non si è mai soffermato ad ascoltare né le mie parole né i miei silenzi.

    Non c’erano domeniche, non c’erano gite, non c’erano racconti, non c’erano carezze.

    Allora aspettavo ogni anno il 15 giugno perché finalmente iniziava un periodo dove sembravamo una famiglia vera. Ogni anno, per 10 anni consecutivi, si partiva per il campeggio. Lui amava il campeggio. Lì lo vedevo felice ed ero felice anch’io.

    Lì ho cominciato ad amare i bomboloni alla crema, lì ho imparato a nuotare, lì ho custodito nel cuore la mia prima cotta. Lui un ragazzino bellissimo e gentile che sembrava uscire da un romanzo di Jane Austin, galante, educato. Quante lettere mai spedite ho scritto per lui durante l’inverno!

    Ho avuto la fortuna di risentirlo di recente. È rimasto tale e quale, un uomo gentile e generoso con una famiglia meravigliosa.

    Poi, all’improvviso, non c’è stato più neanche quello. Avevo circa 11 anni quando i miei genitori si sono separati. La decisione più saggia che abbia preso mia madre, una ragazza di 26 anni che aveva deciso di non voler vivere una vita senza amore.

    Me lo ricordo ancora quel giorno. Mi ha portato a fare una passeggiata, mi ha comprato un gelato e mi ha detto che ce ne saremmo andate da quella casa. Ricordo che pensai solamente che era giusto così e basta, non ho pensato a nient’altro. E in quel momento ho capito per la prima volta qual è il sesto senso femminile di cui si parla tanto: il senso di colpa.

    Vedevo mio padre soffrire. Soffrire di solitudine, soffrire perché non aveva mai imparato a stare da solo, Aveva un bisogno viscerale di

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