Il silenzio è stato il mio primo compagno di giochi
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Una storia vera
«Il grande silenzio è stato il mio primo compagno di giochi. Un abbraccio affettuoso e terribile che non mi ha mai abbandonato. Nemmeno ora. E che non mi lascerà mai. Quando la gente mi guarda, pensa che io sia come tutti gli altri, perché la sordità non ha segni evidenti, è un handicap invisibile. Così, spesso, una persona sorda viene scambiata per un qualunque udente. Non lo è affatto, però può riuscire a raggiungere gli stessi traguardi. Come ho fatto io. Con tenacia, passione, coraggio, lottando contro un mondo che a volte non mi è stato amico, contro nemici che avevo perfino in casa e cercavano di opporsi alle mie scelte e di impedirmi di inseguire i miei sogni. Ma io ce l’ho fatta. Questa è la mia storia».
Roberto Wirth – proprietario dell’Hassler, l’hotel di Roma dove alloggiano celebrities di ogni parte del mondo – ci racconta in prima persona la sua straordinaria parabola esistenziale, la vita complessa di un uomo nato sordo profondo e costretto a misurarsi con i pregiudizi degli altri, a partire da quelli della sua stessa famiglia.
L’autobiografia di uno dei più famosi albergatori del mondo: il proprietario del prestigioso Hotel Hassler di Roma
«La favola del bambino sordo che aiuta gli altri a sentire.»
Paolo Conti, Corriere della Sera
I diritti d’autore del libro saranno devoluti a CABSS Onlus (Centro Assistenza per Bambini Sordi e Sordociechi), associazione di cui Roberto Wirth è fondatore e presidente e che si dedica al supporto dei bambini sordi
Roberto Wirth
Nato a Roma nel 1950, è sordo profondo. Con un impegno costante e una ferrea forza di volontà, lottando anche contro le resistenze della famiglia, è riuscito a diventare il primo e unico manager sordo di un hotel di lusso nel mondo, l’Hassler di Roma, di cui è anche proprietario. Ha tre lauree, parla correntemente italiano e inglese e, meno bene, il tedesco. Si esprime con la lingua dei segni in italiano e americano. Ha due gemelli, Robertino e Veruschka.
Corrado Ruggeri
Nato a Roma nel 1957, laureato in Giurisprudenza, giornalista, ha lavorato per trentacinque anni al «Corriere della Sera», e dal 2009 al 2012 ha diretto la cronaca di Roma per la stessa testata. È uno dei volti televisivi del canale «Marcopolo», dove conduce diversi programmi di viaggio. È autore di vari libri.
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Anteprima del libro
Il silenzio è stato il mio primo compagno di giochi - Corrado Ruggeri
900
Foto 22, 23 e 27 dell’inserto fotografico ©Ettore Polizzi.
Le altre immagini sono di proprietà di Roberto Wirth e dell’Hotel Hassler.
Prima edizione ebook: aprile 2015
© 2015 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-7687-4
www.newtoncompton.com
Roberto Wirth
con Corrado Ruggeri
Il silenzio è stato
il mio primo compagno
di giochi
Newton Compton editori
«Roberto, scusami, non ho saputo amarti…
Hai raggiunto il successo con le tue sole forze,
promettimi che un giorno racconterai la tua vita:
scrivila».
Carmen Bucher Wirth
Mia madre Carmen fu con me coraggiosa e sincera:
questo libro è dedicato a lei.
INTRODUZIONE
Il grande silenzio è stato il mio primo compagno di giochi. Un abbraccio affettuoso e terribile che non mi ha mai abbandonato. Nemmeno ora. E che non mi lascerà mai. Al cinema non vado, dovrei guardare il film leggendo i sottotitoli o le labbra degli attori, e sarebbe troppo complicato. Assistere a un concerto è impensabile, così come a una rappresentazione teatrale. Frequento volentieri i musei e adoro lo spettacolo entusiasmante della natura: mi suscitano emozioni che non hanno bisogno di commenti. Ma ogni invito a cena è un tormento e preferisco rinunciare: seguire una conversazione intorno a un tavolo è impossibile.
Quando la gente mi guarda, pensa che io sia come tutti gli altri, perché la sordità non ha segni evidenti, è un handicap invisibile. Così, spesso, una persona sorda viene scambiata per un qualunque udente. Non lo è affatto, però può riuscire a raggiungere gli stessi traguardi. Come ho fatto io. Con tenacia, passione, coraggio, lottando contro un mondo che a volte non mi è stato amico, contro nemici che avevo perfino in casa e cercavano di opporsi alle mie scelte e di impedirmi di inseguire i miei sogni.
Ma io ce l’ho fatta. Questa è la mia storia.
CAPITOLO 1
DUE AEREI, PRESAGI
DI UN DESTINO
All’origine di tutto – successi e sofferenze – c’è lui. Perché papà, l’austero Oscar Wirth, è stato al contempo il mio modello e la mia principale fonte di disperazione. Anche oggi lo vedo, tutti i giorni, in quel ritratto che troneggia nel mio albergo, appeso e ben illuminato nella parete grande della reception: è lì che vigila, quasi fosse una presenza ammonitrice. Quando gli passo davanti per raggiungere il mio ufficio lo osservo sempre e incrocio i suoi occhi attenti, faro di quel portamento fiero così ben rappresentato nel quadro. E mi viene da sorridere. Perché i ricordi sono tanti, ma mica tutti felici.
Il rapporto tra un padre e un figlio maschio – per di più il primogenito avuto in tarda età (quando sono nato, lui aveva già 57 anni) – non è mai facile. Figuriamoci come può essere stato fra un padre autoritario e un figlio sordo profondo.
La mia famiglia è di origini svizzere, siamo gente abituata alla precisione. Di più, alla perfezione. E io ero l’incarnazione del difetto, un bambino sbagliato.
Da quanto mi hanno raccontato, se ne accorsero proprio in Svizzera, nella bella casa del mio nonno materno Otto Bucher, un omone massiccio e severo. Ero il suo primo nipotino, adorava giocare con me. A un anno o poco più, avevo smesso di gattonare e dunque mi muovevo con maggiore facilità, cominciavo a camminare per casa, gironzolavo in un nuovo mondo tutto da esplorare. Nonno Otto mi chiamava in continuazione: «Roberto, Robertino», e si arrabbiava perché non gli rispondevo mai.
Non sentivo, ma nessuno ancora lo sapeva, nessuno l’aveva capito. Fu lui ad avere i primi sospetti: «Bisogna far controllare Roberto da un medico» – disse un giorno a mia madre – «ho idea che abbia problemi di udito».
Mamma sorrise: sdrammatizzare era una sua grande dote. Eppure al nonno sembrò stesse sottovalutando il problema, come se anche lei avesse un dubbio ma tentasse di respingerlo, allontanarlo, come se cercasse di non affrontare il problema di una possibile sordità del suo adorato figlio. Nonno Otto, del resto, le aveva già fatto notare alcune mie stranezze, a suo dire, nel modo di muovermi, di camminare, perfino di piangere: considerava i miei comportamenti diversi da quelli degli altri bambini.
«Credo proprio che Roberto non senta», insistette in un’altra occasione il nonno. «Anche se…», aggiunse.
E raccontò di quel giorno a casa sua, a Ginevra, quando un aereo era passato a bassa quota. Eravamo all’inizio degli anni Cinquanta, spesso gli aerei erano ancora a elica, e facevano un gran rumore.
«Roberto si è voltato» – spiegò a mia madre – «quando l’aereo è passato sulla casa, ha girato la testa per vedere da dove arrivava quel rumore. Eravamo in giardino, guardava in alto, osservava: dunque qualcosa deve avere sentito…».
In realtà, come avrebbero provato gli esami clinici successivi, non avevo sentito proprio niente. Da quanto ricordo, avevo avvertito soltanto una forte vibrazione attraverso tutto il corpo che mi aveva spinto a guardarmi intorno per cercare la causa di quella strana sensazione. In quegli stessi istanti, il nonno mi chiamava e naturalmente non rispondevo. C’erano dunque due comportamenti in apparente contraddizione: lo sguardo che cercava l’origine di quelle vibrazioni e la mancata risposta a chi mi chiamava con insistenza. Tutto questo confuse ancor di più mia madre, ma alla fine si convinse a sottopormi a degli accertamenti. Le parole del medico non lasciarono alcun dubbio e i timori vennero confermati: avevo un grave problema di udito. Ero sordo. Non c’erano apparecchiature sofisticate come oggi, ma il dottore confermò che non sentivo assolutamente niente.
In famiglia il colpo non venne assorbito facilmente. Mi hanno raccontato di silenzi interminabili, discussioni accese, qualche pianto. Allora la sordità rappresentava un grosso problema, significava, in prospettiva, rischiare di restare ai margini della vita produttiva e dei rapporti sociali. E soprattutto, non c’erano ancora strutture e organizzazioni alle quali i genitori potessero rivolgersi per avere suggerimenti e indicazioni su come comportarsi. Tutto, almeno in Italia, era lasciato all’improvvisazione e alla buona volontà. Papà era nato a Lucerna, era il prodotto di una rigorosa mentalità svizzero-tedesca, tutto ordine e disciplina. E la nascita di quel primogenito con una grave menomazione lo ferì profondamente: fui per lui un’enorme delusione, alla quale si accompagnò – credo – anche un robusto senso di colpa. Papà era un perfezionista, e sono certo che in qualche modo si sentisse responsabile della mia sordità, come se davvero quel difetto del figlio fosse colpa sua e non una casualità assoluta della natura che aveva deciso per tutti noi. Si tratta, peraltro, di un atteggiamento abbastanza tipico di molti genitori di bambini sordi.
La reazione di mia madre fu diversa. C’era una grande differenza culturale tra i miei genitori, come se provenissero da due mondi paralleli, e questo ha avuto conseguenze importanti nella mia educazione, oltre che nel rapporto fra me e ciascuno di loro. Anche mamma era per metà di origine svizzera e per l’altra cubana, per di più di cultura americana, decisa a guardare sempre avanti e in modo positivo. E così si comportò anche nell’affrontare il mio problema.
Una sua cara amica, la figlia del primo ambasciatore statunitense in Cina, aveva una sorella sorda. Mia madre le chiese consiglio su come comportarsi, sulla cosa migliore da fare. Le suggerì di portarmi negli Stati Uniti e affidarmi a una cosiddetta scuola oralista
, dove ai sordi insegnavano a parlare, senza usare la lingua dei segni: era un istituto nel Massachusetts, la Clarke School, a due ore di macchina da Boston. Mamma prese un appuntamento con il preside e insieme partimmo per New York.
A 4 anni mi ritrovai su un gigantesco aereo della Pan Am a due piani. Ricordo le hostess, gentilissime, vestite di celeste, con un grazioso cappellino sulla testa. È forse il primo ricordo davvero nitido che ho: facevo un sacco di capricci e mamma non sapeva come gestirmi. Le assistenti di volo erano quasi tutte intorno a me, cercavano con molta cortesia di distrarmi, di non farmi piangere e di convincermi a stare zitto perché urlavo come un’aquila. Una guerra proseguita anche nel piano superiore, dove c’erano dei letti e davo fastidio a chi cercava di dormire. Riuscirono a farmi placare un po’ soltanto quando mangiammo, in una specie di sala da pranzo che mi sembrava gigantesca. Io ero piccolo, l’aereo enorme, tutto era così insolito, straordinario. Anche il tormento che provavo era una novità: sentivo un dolore profondo e non riuscivo – da bambino qual ero – a darmi alcuna spiegazione: la sensazione della partenza, anche se accompagnati dalla propria madre, non è mai piacevole per un bambino piccolo. In più, non sapevo né dove stavamo andando, né perché. E ovviamente non sapevo neppure di essere sordo. Pensavo che tutti fossero come me, che vivere in quel grande silenzio fosse la condizione normale.
Arrivammo a New York – a miei occhi una strana città con i palazzi altissimi – dove restammo per qualche giorno. Mamma aveva molti amici lì, li incontrammo, e finii in una serie continua di pranzi, cene, sorrisi, carezze. Non mi piaceva. Alla fine raggiungemmo la scuola, mia madre parlò a lungo con il preside, che fu molto onesto e pragmatico: «Roberto è sordo profondo» – ribadì – «Non sente nulla. Ma onestamente devo dire che non sarebbe una buona idea lasciarlo qui da noi, negli Stati Uniti, se la famiglia resta a Roma. La lontananza non gli farebbe bene».
Il concetto era chiaro. Dalla sordità non si guarisce ma si può contrastare, con la tecnica e l’affetto. E se alla tecnica ci possono pensare gli istituti specializzati, per l’affetto serve la famiglia. A me venne tolta anche quello. E ciò che accadde in quei mesi ha segnato per sempre la mia vita. Evidentemente i miei genitori erano convinti che servisse soprattutto la tecnica per provare a redimermi dal mio peccato originale, la sordità. E per questo cercarono una soluzione, appunto, tecnica, senza tenere affatto conto delle necessità affettive di un bambino.
«Vai a vedere l’Istituto Silvestri di via Nomentana», qualcuno suggerì a mia madre. Era la più antica scuola d’Italia per sordi, aveva un’ottima fama. Lei vi si recò senza portarmi con sé, ma qualcosa non la convinse. O almeno, si lasciò impressionare dai consigli di qualcuno che la spinse a visitare anche la Scuola Tarra di Milano. Andò, anche questa volta senza di me, e l’impressione che ne ebbe fu positiva. Non so quale dibattito seguì in famiglia, se furono tutti d’accordo o litigarono, ma alla fine la decisione fu quella di spedirmi a Milano. A cinque anni, come un pacco. Non ho mai capito il senso di quella scelta. Da adulto, un giorno lo chiesi a mia madre: «Ma perché mi avete mandato a Milano? Ti rendi conto della sofferenza che mi avete provocato?».
Eravamo in un momento di tranquillità, lei seduta sulla sua poltrona preferita. Ricordo che mi guardò e abbassò gli occhi: «L’istituto di Roma non era valido come la scuola Tarra di Milano».
Capii che forse non era davvero così, ma lasciai che un silenzio carico di sensi di colpa cancellasse quella conversazione imbarazzata. Lei non aveva voglia di parlarne, io non me la sentivo di