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Ballando nel silenzio
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E-book206 pagine3 ore

Ballando nel silenzio

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Info su questo ebook

Cosa spinge una persona a cercare se stessa? E cosa serve per riuscire davvero a ritrovarsi? 
Quando il mondo si è fermato, a inizio 2020, le frontiere hanno iniziato a chiudersi e gli aerei sono scomparsi dai cieli come le navi dai mari, Darinka si è trovata di fronte a un bivio: tornare a casa o trovarne una nuova. Lei ha scelto Bali. 
Per la prima volta costretta a restare ferma, inizia un’esperienza introspettiva in cui corsi di yoga e di meditazione, sedute mistiche con sciamani, guaritori e cerchi di sorellanza sono i nuovi mezzi di trasporto verso la radice dei propri tormenti interiori. Grazie alle numerose esperienze passate e a una naturale propensione per l’insolito, Darinka inizierà un viaggio incredibile, immobile. Affronterà i nodi del rapporto con i genitori, compromesso da antichi pregiudizi, della percezione distorta della propria femminilità e della consolidata tendenza ad attrarre relazioni tossiche, scoprendo in questo modo che solo lungo la strada verso noi stessi si ritrovano le mete più importanti. Fra misticismo e razionalità, Ballando nel silenzio è il curioso diario di un viaggio atteso da tanto, senza saperlo, e insieme un invito a guardarsi dentro. Perché anche quando la musica si spegne, il ballo può continuare.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ago 2021
ISBN9791280100160
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    Anteprima del libro

    Ballando nel silenzio - Darinka Montico

    AltreStrade

    Darinka Montico

    Ballando nel silenzio

    Proprietà letteraria riservata

    ©2021 AltreVoci Edizioni srls

    ISBN: 9791280100160

    Prima edizione digitale: settembre 2021

    In copertina:

    Foto fronte © Wayan Solo

    Foto retro © Ari Saäski

    Realizzazione grafica: Creativita Agency

    I fatti e i personaggi riportati in questo romanzo sono frutto dell’esperienza dell’autrice, ma utilizzati in chiave di finzione letteraria.

    Per accedere ai contenuti extra di Ballando nel silenzio, tra cui la colonna sonora suggerita dall’autrice, fai la scansione del codice o visita il seguente indirizzo:

    www.altrevociedizioni.it/qr/ballando-nel-silenzio

    A Mamma e Papà

    Ciò che è fuori è anche dentro; e ciò che non è dentro non è da nessuna parte. Per questo viaggiare non serve. Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. È inutile andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sé.

    Tiziano Terzani

    Sedie musicali

    Le coincidenze sono il metodo che Dio usa per mantenere l’anonimato.

    Anonimo

    Ho perso al gioco delle sedie: quando la musica si è fermata sono rimasta in piedi, a Bali.

    Il mio piano era passare l’inverno qui, nell’Isola degli Dèi, concentrarmi sulla scrittura di un nuovo libro e tornare in patria a primavera. Il volo di rientro è già programmato per maggio 2020 ma il panico scoppia ai primi di marzo. Virus, pandemia, voli cancellati, frontiere chiuse: non si parla d’altro. Se non partissi subito, probabilmente resterei bloccata in Indonesia e chissà per quanto. A tutti noi, italiani residenti all’estero, arriva una serie di e-mail dall’ambasciata che ci intima di rientrare subito, pena pagarne le eventuali conseguenze senza l’aiuto di nessuno. Tradotto: Fai come ti diciamo e torna a casa subito, o poi sono cazzi tuoi e non venire a lamentarti.

    Casa? Io una sedia sulla quale sedermi quando il mondo smette di girare non ce l’ho da tanto tempo. Non ce l’ho per scelta, da quando ho deciso di fare della strada la mia casa. La mia condizione però non è prevista dal sistema e ho davvero paura che questa sia la mia fine. Sarò obbligata a omologarmi? Il virus potrebbe essere un’ottima scusa per tarpare le ali a ogni anima libera e asfissiare definitivamente chiunque abbia deciso di vivere fuori dagli schemi. Se già dopo l’11 settembre, con la scusa del terrorismo islamico, i governi hanno iniziato a stringere la morsa, ora col virus non posso che immaginare un futuro di limitazioni distopiche, come se le uniche scelte possibili fossero la libertà o la salute, ma non entrambe.

    Spero di sbagliarmi, ma le velate minacce dell’ambasciata, assieme alla massa di turisti presi dal panico, non fanno che accrescere la mia ansia verso il fronte occidentale. Non ci sto: non so se sia una qualità, ma la ribellione mi è sempre venuta spontanea. Se davvero il futuro ci riserverà una distopia di controllo e soppressione delle libertà individuali, sono sicura che funzionerà meglio nell’Ovest: qui a Oriente ci saranno margini d’errore, imperfezioni, pieghe del sistema in cui infilarmi, nascondermi e continuare a vivere fuori dal Matrix.

    Non torno, ‘fanculo l’ambasciata e il loro presunto interesse verso il nostro benessere! Non ci credo comunque: a loro importa solo non dover spendere un centesimo per salvarmi in caso ne avessi bisogno e facessi notizia. L’unico vero rischio che corro, in realtà, è quello di non rivedere i miei genitori e gli amici, ma questi sono comunque sparsi per il mondo e sono abituata a non vederli spesso, e, per quanto riguarda i miei genitori, è forse più incosciente andare da loro portandomi il contagio come souvenir.

    Voglio restare. Mi fa più paura l’idea di tornare, anche se mi sembra di essere quasi l’unica a pensarla così. Conosco bene i balinesi: negli ultimi anni, tra bombe, eruzioni vulcaniche e terremoti, hanno sempre mantenuto la calma e non se la sono mai presa con noi stranieri, neanche nei momenti di più grande disperazione. Eppure, quando tutti ti dicono che rimanere è da incoscienti e nel mondo intero non si fa che parlare di morti e di paura, è difficile restare saldi nelle proprie certezze. Non è un bel momento, né per me né per nessun altro.

    Fortunatamente, prima di farmi travolgere dalla valanga di panico e correre insieme con gli altri all’aeroporto, trovo un appiglio nei miei ricordi: quando, nel 2014, stavo per cominciare il mio viaggio attraverso l’Italia, a piedi e senza un soldo in tasca (l’esperienza che racconto in Walkaboutitalia), sempre loro, i soliti tuttologi con nessuna esperienza e mille opinioni, mi dissero che era un progetto delirante. Tutti a crearmi dubbi e a intimarmi di stare attenta, senza però sapermi ben spiegare a cosa. Anche dopo la mia partenza e durante il cammino non smisero mai di ripetermi che nel loro paesello ero al sicuro ma in quello successivo sarei stata in pericolo. A ogni nuovo confine, comune, strada o ponte continuarono a ripetermi la stessa cantilena, fino a quando il loro al lupo al lupo smise di funzionare: se questo fantomatico paese pericoloso esiste in Italia, nei miei 3000 km a piedi dalla Sicilia al Piemonte non l’ho mai trovato, e non avrei vissuto una delle esperienze più significative della mia esistenza se avessi dato retta a chi credeva di sapere cosa fosse meglio per me.

    Non ho intenzione di iniziare oggi ad ascoltarli, nemmeno qui, dall’altra parte del mondo. La mia decisione è di restare, e ancora non so che tra un anno considererò anche questa una delle migliori della mia vita.

    Un lungo Nyepi

    Più taci, più sarai in grado di ascoltare.

    Ram Dass

    A Bali la fine dell’anno si celebra a marzo, con la parata degli Ogoh-Ogoh. Si tratta di mostri giganti costruiti dagli abitanti dei vari villaggi con bambù e cartapesta. I più ambiziosi richiedono mesi per la loro preparazione e la testa, che ne contiene lo spirito maligno, viene sempre montata sul corpo all’ultimo minuto. Il giorno della celebrazione i mostri vengono attivati da un sacerdote, caricati su una piattaforma di bambù, e poi trasportati per le strade dell’isola da tutti gli uomini necessari non solo per sollevarli, ma soprattutto per scuoterli e agitarli, in modo da farli apparire come se ballassero. A ogni incrocio vengono fatti girare tre volte su loro stessi, in modo da catturare tutti gli altri spiriti maligni insediati nelle case del quartiere, come fossero le trappole per ectoplasmi dei Ghostbusters. La celebrazione, accompagnata da musica e balli tradizionali, prosegue spesso fino a notte inoltrata e culmina con l’incendio dei mostri, liberando così la terra dagli spiriti malvagi che si disperdono nel cielo notturno. L’anno balinese finisce così, con una cerimonia di purificazione. Il giorno seguente, il primo dell’anno nuovo, è il Nyepi.

    Il Nyepi si festeggia stando a casa in silenzio, senza consumare nulla, inclusa l’elettricità. Tutte le attività sono chiuse e nessuno lavora, con la sola eccezione degli ospedali e del loro personale. Si tratta di un giorno introspettivo per riflettere, capire in quale punto della propria esistenza ci si trova e cosa si auspica per il futuro. Durante il silenzio e il buio del Nyepi le stelle ci rubano la scena per una notte e sembra di poter ascoltare il rumore dello spazio siderale tra l’isola e l’infinità. Vedendo le luci spente, gli spiriti degli Ogoh-Ogoh credono che a Bali non sia rimasto più nessuno da importunare e volano via, a cercare altri luoghi da infestare.

    Il Nyepi di quest’anno, poiché rispetta per natura la distanza sociale, è l’unica festività che non è stata cancellata, anzi, in qualche modo è stata celebrata in tutto il mondo. Ho preferito immaginare la situazione che l’umanità sta vivendo proprio così, come un lungo Nyepi, un periodo di rigenerazione per Madre Natura, una parentesi di tempo per fermarsi a riflettere su dove siamo e dove vorremmo andare, come individui e come collettività, e per dirottare i poteri maligni fuori dalla nostra atmosfera.

    Non è stata pura casualità trovarmi qui quando il mondo si è fermato, anzi, le probabilità erano ottime perché a Bali vengo almeno una volta l’anno a trovare mia zia Anna, una delle donne che ammiro di più al mondo, zingara come me, che ci vive da oltre vent’anni. Io e lei abbiamo un ottimo rapporto che si è solidificato in un’appagante collaborazione creativa qualche anno fa, quando ancora avevo un ristorante a Vientiane, nel Laos.

    Qualche volta, nei suoi giri d’acquisto per il Sud-est asiatico, Anna mi capitava a casa e, grazie alla totale assenza di varietà nei capi d’abbigliamento nella capitale del Paese comunista, ne approfittavo per organizzare sfilate di moda nel mio locale. Ogni volta erano un successo: espatriate in astinenza di bei capi si presentavano al mio ristorante come tossiche in cerca di una dose. Come passerella usavamo i tavoli messi in fila indiana e come modelle usavamo le clienti più spigliate. Una volta ci capitò una Naomi Campbell che, non sapendo di esserlo, lavorava come volontaria per una ong, e, un po’ per gioco un po’ per sperimentare, le proponemmo di posare per alcune foto.

    Da quel primo esperimento la zia iniziò a stampare cataloghi con i miei scatti, e da allora ogni anno questa è la mia scusa per andare a trovarla: essere la fotografa ufficiale del suo brand e passare un po’ di tempo insieme. Ogni volta, al momento del ritorno, mi soffermavo a pensare se davvero esistesse una buona ragione per mettere piede sul maledetto aereo che mi avrebbe trascinato via: Bali ha un campo magnetico irresistibile.

    Anche mia zia ci rimase intrappolata dalla prima volta in cui ci mise piede. La sua è una di quelle storie che vanno oltre l’immaginazione e che vale la pena condividere.

    Da giovane Anna lavorava a Roma come pittrice di falsi d’autore. Un giorno, cucinandosi un piatto di pasta, si accorse di aver finito il sale, scese al piano di sotto per bussare al vicino e chiederne in prestito e fu accolta da un bell’uomo che si autoinvitò a cena da lei; un figlio dopo i due non erano ancora riusciti a togliersi gli occhi di dosso. Lui era un calciatore professionista e dopo una pallonata al cranio morì sotto alla doccia, lasciando mia zia e il figlio senza parole né più lacrime da piangere.

    La medicina per lei fu il viaggio: anche questo abbiamo in comune. Se ne andò a Tenerife e qualche anno dopo, dall’amore con un pescatore locale che sembrava uscito da una canzone di Lucio Dalla, diede alla luce la sua secondogenita, Luna. Lì iniziò a disegnare abbigliamento e nel boom economico delle Canarie degli anni Ottanta per un po’ tutto sembrò andare a gonfie vele: i figli crescevano, le soddisfazioni erano tante e i soldi giravano, almeno fino a quando non iniziarono a sparire nella gola e nelle narici del compagno. Da cinque negozi di vestiti, Anna fu costretta a dichiarare bancarotta e a ricominciare ancora una volta da capo.

    Michele, il suo primogenito, ormai adolescente, venne invitato a Bali a partecipare a una competizione di surf. Con i quattro risparmi sfuggiti ai vizi del suo ex uomo Anna lo seguì e con Bingin Beach, la spiaggia dove si svolse l’evento, fu amore a prima vista. Era la Bali di vent’anni fa, il turismo di massa non era ancora esploso, la plastica non deturpava ancora il paesaggio, si poteva vivere davvero bene con poco e i balinesi erano gli stessi di oggi, tra i popoli più gentili e sorridenti della terra. Anna decise così che da quel momento in poi Bali sarebbe stata la scenografia della sua vita.

    Si presentò al proprietario di una semplice costruzione di paglia, legno e bambù sulla spiaggia. Gli offrì metà di tutti i suoi averi come deposito per viverci e gestirla come affittacamere, e gli promise il resto dei soldi entro la fine dell’anno. Investì quanto le rimaneva in grosse conchiglie che, trasformate in pendenti, rivendette sulle spiagge spagnole per venti volte il prezzo di costo. Fece avanti e indietro tra Bali e Tenerife fino a quando non ripagò come promesso il proprietario della struttura su cui aveva messo gli occhi e ora, dopo vent’anni di fruttuosa gestione, sulla spiaggia tutti la conoscono come Mammaluna, la mamma di Luna, mia cugina, che qui sta crescendo due meravigliosi bambini con il compagno, un ex calciatore argentino.

    Non mi è ben chiaro come mai in questa parte del mondo i genitori vengano soprannominati con i nomi dei figli. A casa, sul mio bel Lago Maggiore, io sono la figlia del Silvio, ma qui agli antipodi sarebbe il Silvio a essere Papa-Dari. Chissà, forse usano questo stratagemma per complicare un po’ il sistema di nomi balinesi: dopo qualche giorno ogni buleh (straniero, in indonesiano) sbarcato sull’isola non può fare a meno di accorgersi che quasi tutti qui hanno gli stessi nomi, sia uomini che donne. I Wayan, il più maturo, sono i primogeniti, Made, figlio di mezzo, i secondogeniti e Nyoman, l’ultimo, sono i terzi. Secondo la tradizione balinese non si dovrebbero avere più di tre figli, ma in caso ne nascesse un quarto il poverino si accalappierebbe il nome di Ketut, ultima banana del casco, e con il quinto si ricomincia da capo aggiungendo balik, ripetuto, Wayan balik, Made balik e così via. Per evitare troppa confusione spesso si chiamano per soprannomi.

    In ogni caso Mammaluna, con una base ormai consolidata a Bali, iniziò a disegnare linee di bigiotteria di legno e argento e a portare piccoli campionari in giro tra Asia e Europa, spostandosi come il suo budget le permetteva, ovvero spesso in barca e autobus. Un giorno finì in un villaggio turistico in Thailandia a trovare il fratello che ci lavorava, e Mary, la sveglissima manager della boutique, notò il suo stile e la obbligò con gentile ma martellante insistenza a cederle l’intero inventario, compreso quello che indossava, per allestire il negozio. Passarono la notte a preparare insieme la vetrina e il giorno dopo avevano già venduto tutto. Compreso immediatamente il potenziale di una collaborazione tra le due, Anna chiese a Mary di trasferirsi a Bali e di lavorare con lei.

    Mary è una tipa tosta, una di quelle che risponde al telefono parlando fluentemente ogni volta in una lingua diversa. Sono convinta che avrebbe saputo mettere in riga tutti i Mötley Crüe in tour nei loro anni più selvaggi. Se passasse una farfalla, lei saprebbe dirti quante volte ha sbattuto le ali, mentre mia zia sarebbe in grado di disegnarla alla perfezione.

    Le due vivono in simbiosi da allora e hanno creato Lakra, la loro marca di abbigliamento: Anna disegna capi e accessori, Mary gestisce la produzione e la vendita. Sono partite pregando il proprietario di una piccola fabbrica per produrre cinque modelli per volta, implorandolo di lasciarle lavorare di notte. Oggi quella stessa fabbrica lavora solo per loro e non riesce nemmeno a star dietro a tutti gli ordini. Hanno aperto quattro negozi, esportano in tutto il mondo, stanno costruendo un piccolo resort, una spa e un ristorante. Vivono bene, sono due donne che hanno realizzato i loro sogni e sono felici. Sono la dimostrazione vivente che, anche partendo senza spalle coperte, passione e dedizione vengono premiate. Si sono aiutate e Dio ha spianato loro la strada.

    L’Isola degli Dèi

    Non puoi misurare la profondità dei misteri universali con la rete neurologica di un primato. L’universo non è stato creato per essere capito, è stato creato per essere apprezzato.

    Terence McKenna

    Bali è un’isola unica. Natura lussureggiante, spiagge bianche e nere,

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