Lo stato dei miei capelli in Oriente
Di Tita Canta
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Cosa le ha mosse a partire? Il desiderio di essere due Leonarde. Cioè vivere un’avventura come quella di Leonardo di Caprio in The Beach, il famoso film in cui il protagonista parte con lo zaino per un viaggio improvvisato, drammatico e trasformativo, nella pericolosissima Thailandia. Ma le due protagoniste si rendono conto ben presto di essere molto lontane da quel modello di donna avventurosa e indipendente, che vive con quello che c’è e non teme di abbandonarsi alla sorte. Una vera Leonarda non porterebbe tutto quel carico con sé. Vestiti, saponi, trucchi, parrucchi, sensi di colpa, condizionamenti e salviettine intime. Una vera Leonarda ha uno zaino contenuto, non si preoccupa dei capelli e sa sempre dove andare e cosa mangiare…
La storia di Tita, voce narrante, e di Luisa è come un granellino di sabbia, che inceppa gli ingranaggi dei pensieri troppo pensati che spesso allontanano dalla vera essenza della vita e illudono che sia più importante avere un’identità sociale che essere semplicemente delle Leonarde, adattabili, libere e selvagge.
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Anteprima del libro
Lo stato dei miei capelli in Oriente - Tita Canta
All’amicizia.
1
Pratica
Click. L’ho capito guardando un film che si intitola così che se potessi rivivere tutti i momenti della mia vita, tornando indietro con un click, ne sceglierei soltanto uno.
Era estate. Una notte. Il telefonino acceso sul cuscino del letto. Rimane sempre acceso il mio cellulare. Una cosa da matti. Da gente che non si sa rilassare, non sa stare sola e si aspetta sempre che qualcosa accada o qualcuno abbia bisogno. Bisogno di me. All’una, alle tre, alle cinque.
Facevo l’amore e la notizia arrivò.
E se partissimo io e te, a fine agosto e andassimo in India?
S ì ! Quanto costerà il biglietto aereo? Io posso rimanere un mese e non di più però.
Ottocento euro circa, poi là non si spende niente.
Appena mi sveglio lo cerco su internet. Dobbiamo incontrarci. Mercoledì? Così decidiamo tutto.
Mercoledì mattina sono da te.
E mercoledì sarebbe arrivata Luisa da me.
Quando Lu mi promette qualcosa, questa cosa si avvera. Quindi, anche se non è nella mia natura essere affidabile, con lei cerco di essere impeccabile.
Eccoci allora, mercoledì, sul tavolo del soggiorno di casa mia e dei miei genitori a guardare l’atlante che non esisteva più dalle elementari e che mi ha sempre così terrorizzata. Io ero una di quelle bambine che imparano la lezione a memoria e vanno in panico il giorno in cui la maestra decide che l’interrogazione da orale diventerà bidimensionale, con l’introduzione di una cartina. E adesso la geografia si preparava a cambiare ancora, per diventare la mappa del nostro viaggio.
Luisa non la conoscevo tanto bene. C’eravamo incontrate un anno prima in Puglia, al mare, accompagnate da due fidanzati, che entrambe non amavamo, ma per motivi diversi. Era così bella quando la vidi la prima volta che immediatamente e per tutta la vacanza mi sentii brutta e goffa. Lei è gracile, con tette straordinarie, la bocca carnosa e i capelli lunghi e setosi, castani con riflessi più chiari. Non aveva bisogno di asciugarli col phon. Era subito perfetta così, senza dover far niente. Io invece sempre a tirarli, questi capelli da attivista afroamericana.
Sentii la sua voce prima di vederla. Stavo dormendo in tenda, era da poco sorto il sole sul campeggio, di fronte al Mar Ionio, le sue parole mi svegliarono e dissi: Devono essere arrivati degli spagnoli, stanno montando la tenda qui a fianco, però secondo me lei è italiana perché ha detto Mulino Bianco
. E lo era italiana, fidanzata con uno spagnolo. Subisce il fascino dello straniero. Solo fidanzati stranieri nella sua vita. Preferibilmente con la pelle scura. Io invece tutti paesani come me, che vengo dalla bassa parmense.
I primi giorni con Luisa e Josè furono uno stress. Condividere una piazzola comporta certi doveri e un impegno relazionale notevolmente al di sopra della riserva di energia sociale sia mia che di Lu. Oggi lo so. Volevo essere simpatica e intelligente, volevo piacere, più a lei che a lui. Chiacchieravamo in mare, sulla spiaggia, a tavola. Ci studiavamo. Io mi chiedevo se fosse stupida come amo che siano le persone che amo. Non riuscivo a capirlo. Ma nemmeno lei ci riusciva con me.
Ero inebetita da quel finto pacioccone buonista del mio fidanzato e lei stordita dall’eunuco spagnolo. Scherzavamo, sì, ma in modo trattenuto, nello stesso modo in cui poi ci salutammo alla fine della vacanza.
Non l’ho mai detto a Luisa, ma dal momento in cui se ne andarono, caddi in uno stato di profonda depressione. Gli ultimi giorni spesi col buonista, ah si chiamava Vito, furono silenziosi, faticosi e senza fiato.
Tornata dalle vacanze, l’inverno trascorse molto triste. Il più triste. Lasciai Vito. Luisa venne qualche volta a trovarmi a Parma, perché studiava a Parma, che coincidenza. Le mancava solo di completare la sua lunga e interminabile tesi di laurea, per questo non frequentava più tanto la città. Ero così meravigliata che mi cercasse e mantenesse ogni volta l’impegno di venire da me che quando la vedevo non ci potevo credere. E la spontaneità andava a farsi friggere.
Così arrivò l’estate di nuovo. Lei lasciò Josè e pensò a me per andarcene. Ancora una volta, non ci potevo credere che volesse proprio me.
Allora possiamo tornare lì, sul tavolo del mio soggiorno, tra il salotto e il corridoio d’entrata, che è come essere in braccio ai miei genitori.
Bene, dove andate di bello?
Andiamo in India o in Thailandia mamma.
Ma non potete andare in un posto più vicino? Proprio dai cinesi? Sono posti così sporchi.
Va bene mamma, allora andiamo in Grecia...
Oh bene!
Dopo dieci giorni partimmo per Bangkok. Luisa me lo ricorda ancora lo stupore di fronte alla consapevole ottusità di mia madre. Alla mia famiglia piaceva credere che io andassi in Europa e allora che Europa fosse. D’altra parte anche i baci da partenza senza ritorno che il padre di Lu ci distribuì davanti all’aeroporto non facevano pensare a niente di più acuto. Addirittura a lui avevamo mentito perché io sarei tornata dalla vacanza dieci giorni prima della sua adorata e santa figlia che invece, a sua insaputa, avrebbe vagato sola e indifesa al confine con la pericolosissima Cambogia!
Ormai era tutto fatto, saluti fatti, i baci del vecchio dalle lunghe sopracciglia scoccati. Poche bugie. E l’aereo decollava. Avevamo appena deciso di partire e in un balzo quantico ci ritrovavamo davanti alle hostess che insegnavano come salvarsi in caso di ammaraggio e al capitano dai capelli bianchi, immortalati nel mio cellulare a vita, che ci dava il benvenuto. Per giungere al primo scalo ci volle meno di un giro di orologio.
Arrivate a Zurigo, al primo scalo, non ancora amiche, mangiavamo e ci preparavamo alla terra in cui il sole sorge prima, con una birra e con una nuova tariffa telefonica, attivata all’ultimo secondo in coda per il check-in. Una birra. Il primo vero passo verso l’avvicinamento dei nostri cuori. A Zurigo era tutto verde, bianco, di legno e vetro. Le persone coloniali, grigie e nere e i bar cominciavano a cavalcare quell’onda che ben presto avrebbe preso il nome di hipster style. Lampadine che emettevano la stessa calda e fioca luce delle candele sopra ai banconi contornati da sgabelli di ogni genere. E la parola bio, suffisso e prefisso in ogni dove.
Eravamo immerse in chiacchiere sociali e cordiali, nel cibo e nella birra, ma eravamo anche così leggere ed euforiche che stavamo per dimenticare la coincidenza per Bangkok. Udimmo i nostri nomi, pronunciati ai microfoni, come gli ultrasuoni dei fischietti che chiamano i cani e in un balzo, forse due, ci ritrovammo, mi ritrovai, sulle scale mobili.
Luisa faceva tutte le scale con le sue gambe. E anche quando si trattava di salire su quei tappeti rollanti lunghissimi che velocizzano la camminata, io mi abbandonavo immobile su di essi e lei mi camminava di fianco, sul pavimento, quello vero, continuando a parlare. Credo di aver cominciato ad amarla in quei momenti. Perché, come sarebbe poi stato per tutto, lo avremmo affrontato sempre insieme, sempre vicine, col pensiero o col corpo, ma in modi completamente diversi, apparentemente inconciliabili.
I film in aereo sono il massimo della vita. E poi li vedi prima di tutti quelli che restano a casa. Così alla loro uscita in Italia, puoi dire ah, quello l’ho visto quest’estate in aereo, ma lo posso rivedere, perché sai, l’ho visto in lingua originale io. Fa molto figo. E il cibo? Quando sono su un aereo mi piace tutto. Anche il pane ancora mezzo surgelato, con margarina e surrogato di marmellata. Poi quelle belle scatoline, plastica, alluminio e cartoncini mezzi unti che fanno da coperchio alle vivande... Noi passeggeri siamo come Barbie e Ken e gli assistenti di volo ci pettinano, ci puliscono, ci nutrono. Non sono mai stata una buongustaia, non riesco davvero a capire se qualcosa sia di qualità o meno, poi per quanto riguarda la cucina straniera sono totalmente parziale, potrei mangiare merda che troverei il modo di sentirci il gusto del cioccolato al curry. Ricordo ancora lo squisito cioccolatino assaporato da Milano a Zurigo e i tre pasti nell’interminabile volo verso la Thailandia che diventavano sempre più estiani man mano che l’aereo disegnato sui piccoli schermi a cristalli liquidi davanti a noi slittava sul percorso indicato dalla mappa verso l’oriente.
Non chiusi occhio per tutto il tragitto. Non sapevo se a Luisa avrebbe fatto piacere qualche chiacchiera in più