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La pietra
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E-book156 pagine2 ore

La pietra

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Info su questo ebook

“Mi ero dimenticato di quella scatolina. Ora l’avevo di nuovo tra le mani e la scuotevo per ascoltare quel suono familiare anche se lontano.

C’erano dentro venti sassolini, lo sapevo senza bisogno di contarli.

Venti sassolini grigi, di comune ghiaia ... ed anche una pietra, una grande pietra.”

Ti porto con me in un viaggio che voglio condividere. In Patagonia o magari semplicemente rovistando nella soffitta, tra i miei sentimenti. A volte con fuochi artificiali, quasi sempre con emozioni vitali e profonde. Conoscerai una pietra, una panchina, un oceano, persino una mosca, poi, forse, ci comprenderemo un po’ di più e sapremo di aver costruito tra noi, uno spazio di fiducia e speranza nuovi.
LinguaItaliano
Data di uscita22 gen 2019
ISBN9788827868362
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    Anteprima del libro

    La pietra - Bernardino Proietti Vantaggi

    2016

    Equinozio di primavera

    Come dimenticare?

    Era l’equinozio di primavera. Solo una fragile tela mi separava dall’immenso patagonico.

    Ero arrivato con il buio, guidato dal rombo delle onde che, già diversi chilometri prima, mi aveva improvvisamente raggiunto.

    Giacevo su quella spiaggia con l’aria ancora impregnata di deserto, leggendo in me la tensione del troppo e l’abbandono alla speranza.

    A momenti mi coglieva l’idea di un immane tsunami e immediatamente dopo il suono dolce, la nenia di culla di quelle onde mi ammaliava. Ero davanti all’oceano, percepivo l’infinito di fronte a me, ma l’oscurità m’impediva di distinguere quel moto perpetuo.

    Il barrito di una balena mi destò da quel dormiveglia impalpabile; la salsedine, l’aroma acre delle alghe... i miei pori avevano assorbito con avidità quel sapore familiare ma ora infinitamente sconosciuto.

    Uscii dalla tenda e sedetti sulla sabbia composta da minuscole pietre arrotondate e fissai lo sguardo verso l’orizzonte immaginario.

    Il sacchetto di juta che mi aveva dato il curandero era accanto a me. Attendevo il sorgere della luna per donare quel feticcio alle onde del mare.

    Avevo passato gli ultimi mesi in quelle terre ed era già passato un anno dalla morte di mio padre.

    Lo stesso nodo mi stringeva la gola nel ricordo di quel perdono non concesso, dell’incontro rifiutatogli nonostante la sua morte vicina, finché il mio rifiuto aveva oltrepassato l’abisso del non ritorno ed avevo perso tutti, anche me stesso.

    Sicuramente questo mi aveva portato fin laggiù, nella terra della fine del mondo, ma forse inconsciamente, quelle parole lette a suo tempo su di un opuscolo, Patagonia, la tierra del fin del mundo proprio quelle parole, mi permisero di identificarmi con qualcosa.

    Il vuoto in cui navigavo era totale e non trovavo scampo a me stesso.

    Ed ero partito.

    Avevo tardato un mese per capire cosa cercavo in quella città sconosciuta, piena di modernità e miseria, in cui ero arrivato; avevo camminato tra grattacieli e baracche, tra supermercati e documentari sulla miseria senza capire né comunicare, poi mi resi conto che tutt’intorno, per centinaia di chilometri avevo il deserto, l’infinito deserto patagonico.

    Era lì il mio destino, nel cuore della fine del mondo.

    Sono salito su un colectivo, una specie di autobus sbilenco e traballante e sono penetrato in quel sogno atavico.

    Dodici ore dopo sono atterrato a Gan Gan: un po’ di baracche, qualche modesta casetta ed un vento terribile con il quale il deserto mi accoglieva imponendomi il suo predominio.

    Una baracca con un letto e nient’altro era diventata il mio rifugio in questo tempo, el alojamiento come mi dicevano, ed il deserto, che iniziai a scoprire pieno di vita nascosta, accompagnava il mio pellegrinare giornaliero, mentre con i suoi venti sussurrati o gridati, con l’arena sollevata che mi lustrava la pelle e la speranza, cercava di comunicarmi qualcosa.

    Poi passando accanto ad una baracca un po’ isolata dalle altre, un vecchio dalla faccia da indio, come quasi tutti gli abitanti di quel villaggio, mi chiamò e m’invitò in casa.

    Iniziavo a capire lo spagnolo e intuivo le sue parole.

    E’ da tempo che vedo girare la tua anima che cerca il deserto. Il suo parlare era lento e pieno di lunghe pause in cui penetrava il sibilo del vento.

    Vedi, io sono indio, faccio parte di questo popolo di ubriaconi, ignoranti e fannulloni, come ti avranno già raccontato, come troppi ormai ci considerano. Effettivamente più d’uno in città mi aveva detto queste cose.

    Ormai spariremo; anzi siamo già scomparsi. Sussurrò, "La rassegnazione ha preso da tempo il posto dell’orizzonte infinito del deserto.

    La miseria è la nostra regina ed ha sostituito la nostra cultura. Vino e pane in cambio di anime.

    Siamo invisibili come las matas, gli infiniti cespugli del deserto.

    Anche se a volte nel profondo del nostro sangue palpita con rabbia l’orgoglio di un popolo che avrebbe dovuto essere, questa indignazione si trasforma ormai in effimere nubi senza pioggia.

    Ecco chi ti parla.

    Ma tu non devi ascoltare me, tu non devi tendere l’orecchio a chi parla, devi ascoltare chi ascolta".

    Il vento tacque ed il silenzio s’impossessò di me.

    Poi, dopo il vuoto, iniziai a parlare, a raccontare, a vuotarmi, non so per quanto tempo. Ricordo che mi sono fermato e sono uscito perché avevo necessità di svuotare anche lo stomaco e far posto al deserto che premeva.

    Bevvi qualcosa che el curandero, lo stregone-medico del villaggio come scoprii poi, mi diede e continuai a parlare senza voce.

    Quando mi svegliai lui, era lì e mi osservava.

    Prese una bottiglia di vetro chiaro piena di un liquido trasparente e la agitò davanti ai miei occhi. Dal fondo si rimestò una fanghiglia che rese torbido il liquido.

    Era il tramonto, uno di quei tramonti sconvolgenti che solo il deserto sa donare.

    Mi mise davanti il contenitore.

    Guarda la bottiglia. Mi disse fissandomi negli occhi.

    Se vuoi capire, devi fare quello che vedi.

    Mi lasciò lì da solo, immobile.

    Poco a poco la melma iniziò a depositarsi e apparve di nuovo l'acqua limpida.

    Allora capii.

    Il giorno dopo il curandero filtrò l’acqua dalla poltiglia del fondo e mi ordinò di berla nel mio viaggio verso l’oceano; mise il deposito in un sacchetto e mi disse di gettarlo nell’oceano quando Quillèn, la luna piena, mi osservasse attraverso il mare.

    Di lì a poco passò una specie di fuoristrada e lui me lo indicò.

    Vai con lui ti lascerà a pochi chilometri dalla spiaggia.

    Ora osservavo quel sacchetto accanto a me e aspettavo ansioso il sorgere della luna-Quillèn per gettare quel fagotto pesante... e Quillèn arrivò e mi osservò attento mentre gettavo quella piccola borsa vuotandomi di quello che ancora avevo riservato per me; il pianto mi colse di sorpresa ma il barrito della balena tornò a destarmi, osservai e la vidi sul riflesso di Quillèn, mentre si tuffava e poi mostrandomi la sua coda ondeggiante mi salutava. Un gruppo di delfini saltò non lontano dalla riva. I cormorani gridavano qualcosa. Ero mare anch’io.

    Come dimenticare?

    Era l’equinozio di primavera.

    Consueto virtuale

    Che ore sono? Si girò verso la sveglia e lesse il quadrante Le nove. Bene! concluse con un sospiro mentre fissava il suo punto sul soffitto, una macchiolina nera che l’aiutava a concentrarsi o a selezionare con più rapidità i pensieri a cui voleva dedicarsi.

    Allora... tra poco mi alzo, mi vesto...che indosso oggi? continuò a fissare la macchiolina aspettando la risposta. Il jeans nero e la camicia arancione andranno benissimo, oggi non ho l’allenamento di basket. Ma la prima cosa che ho da fare è una cosa seria, dovrò andare al bagno. Rise tra sé.

    Dunque, poi...poi...prendo la bici e me ne vado a far un giro al centro, vediamo se almeno una delle esche che ho seminato durante la settimana ha fatto abboccare qualche preda. Certo la mattina non è l’ideale ma non si sa mai...poi se l’aria è proprio grigia vado al campetto a fare due tiri, o magari, una seduta al bar, così programmiamo per questa notte. Sabato da sballo...da sballo!

    La macchiolina sul soffitto si era espansa e ormai racchiudeva tutto il mondo.

    "Ore tredici, sosta da rancio. Che palle, oggi comincerà di nuovo la storia che non mi si vede mai. Che casa non è un albergo, che non studio mai e vedremo i risultati, che non collaboro per niente, che...che...che palle?

    Fortuna che dura poco. Il pomeriggio una birretta da Spuma e lì vedremo che merce gira. Qualcosa combino, basta che la Rosy non continui a starmi addosso. Ma che non capisce? Più la maltratto più mi sta addosso! Brutta racchia. Bella figura mi fai fare! Io, il boss dei boss dovrebbe uscire con la racchia delle racchie? ! Ma non scherziamo! Che centra, prima o poi, con tutta l’attenzione, una sbattuta segreta gliela posso anche dare, ma occhio pinocchio, ci mancherebbe che rimango attaccato. Brrr..." chiuse gli occhi un attimo e la macchiolina tornò alle sue dimensioni normali.

    Più tardi magari vado a fare un giretto ai giardini; la ronda sotto gli alberi con qualcuno della banda è uno spasso e ci prepara psicologicamente alla gran notte. Quanti giri, quanti chilometri abbiamo macinato nel parco! Rimase come estasiato a quel ricordo. Ecco, dopo viene la buona dormita prima di cena e quella è imprensc...come si dice ? Imprescindibile, vale l’alba di domani mattina. La macchiolina sembrò prendere colore con il suo pensiero che a mano a mano si entusiasmava.

    Dopo cena. Se sopravvivo alle raccomandazioni senza fine dei miei cari genitori ed alla recita da bravo ragazzo, inizia lo sballo. La notte. I am a king of the night. Yeeees. Alle nove appuntamento da... il suo girovagare fu interrotto da un richiamo lontano. Sua madre.

    Dado, hai bisogno di qualcosa?

    No, grazie mamma! rispose.

    Torno subito, vado a prendere i biscotti per la colazione e torno.

    Gli occhi non si erano mossi dal suo punto.

    Dado, quante volte gli avrò detto di non chiamarmi così. Meno male che quando c’è gente non lo fa. Rewind.

    A quelle parole i suoi pensieri, ribobinati, tornarono al principio della giornata.

    Dunque tra un po’ mi alzo. Mi siedo sul bordo del letto, sollevo il piede destro e m’infilo il calzino, poi il sinistro e faccio lo stesso. Mi dà sempre una bella sensazione infilarmi i calzini. Sarò normale? Poi prendo la camicia, la apro bene e me la infilo, mi abbottono dall’alto in basso altrimenti corro il rischio che i bottoni non coincidano. Poi prendo i pantaloni e con quel bell’equilibrismo da trampoliere m’infilo una alla volta le due gambe. Tutte e due insieme stando in piedi non ci riesco ancora. Scherzò tra sé.

    Mancano le scarpe. Dove sono le scarpe? Forse sotto il letto. Mi abbasso con una flessione ma non sono lì. Forse sono in... fu interrotto dalla voce della mamma che tornava.

    Dado, tutto bene? Adesso ti porto la colazione, un attimo di pazienza.

    Dado vide sparire la macchiolina tra veli e nebbie apparse improvvisamente.

    Erano lacrime.

    Dapprima pianse sommessamente, poi fu sopraffatto.

    La mamma arrivò rapidamente a quel suono familiare, si sedette al suo lato e pianse con lui.

    Non ci abitueremo proprio mai Dado. Mai. Gli accarezzava la testa. Su, non fare così. E’ passato quasi un anno ormai. Forza, coraggio.

    Mamma sospirò profondamente Il fatto è che oggi è sabato...e poi mi piaceva così tanto infilarmi i calzini, la camicia...e poi è sabato mamma.

    La mamma asciugò le lacrime di entrambi con le sue mani.. Vado a prendere la sedia a rotelle così vieni a fare colazione. Disse la mamma allontanandosi.

    Tornò a fissare il punto sul soffitto.

    Quasi un anno da quel sabato, da quell’alba oscura. Mi abituerò prima o poi? sentì il rumore soave della sedia a rotelle che arrivava.

    Mamma, bisognerebbe pitturare il soffitto sussurrò continuando a fissare quel punto quasi invisibile.

    La panchina d’autunno.

    Era senz’altro la miglior panchina del parco per quella stagione ormai quasi fresca.

    Il sole la

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