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Iancura: Brevi racconti dall'isola di Salina
Iancura: Brevi racconti dall'isola di Salina
Iancura: Brevi racconti dall'isola di Salina
E-book199 pagine2 ore

Iancura: Brevi racconti dall'isola di Salina

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Info su questo ebook

Nel dialetto delle Eolie, iancura definisce quella speciale atmosfera in cui un mare calmo e immoto si fonde con il cielo in un biancore indistinto e talvolta perturbante. È un’esperienza immemorabile che già Ulisse sperimentò approssimandosi all’isola delle Sirene e che Goethe riscoprì nei paesaggi siciliani del suo Viaggio in Italia.
Con una scrittura volutamente “leggera” (su cui la Postfazione di Giovanni Lombardo propone preziose e suggestive riflessioni), Paolo Casuscelli rievoca alcuni episodi della sua esperienza di insegnante in una scuola media dell’isola e trasferisce alle sue pagine quell’arioso senso di libertà e di solitudine, quel ritmo esistenziale più rallentato che – spesso in bilico tra reale e onirico – dall’isola soltanto possono generarsi.
Ne sono investiti, in diversa misura, tutti i personaggi del libro: gli alunni, che condividono con il loro insegnante anche gli spazi e i tempi esterni alla scuola, e tutta una galleria di figure emblematiche, vagabondi, ormeggiatori, ristoratori, imprenditori del vino, parroci, meccanici. Sullo sfondo, sempre il mare: che l’insegnante con la passione per la pesca subacquea conosce non solo nella candescente maestà della iancura ma anche nella segreta intimità dei suoi misteriosi fondali.

Edizione ampliata e aggiornata
LinguaItaliano
Data di uscita22 apr 2020
ISBN9788870008418
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    Anteprima del libro

    Iancura - Paolo Casuscelli

    Paolo Casuscelli

    Iancura

    Brevi racconti dall’isola di Salina

    Mucchi Editore

    © STEM Mucchi Editore s.r.l.

    Via Emilia Est, 1741 - 41122 Modena

    In copertina: Iancura, 2019. Disegno a china ©Dora Casuscelli

    www.mucchieditore.it

    info@mucchieditore.it

    facebook.com/mucchieditore

    twitter.com/mucchieditore

    instagram.com/mucchi_editore

    Edizione digitale: aprile 2020

    Produzione digitale: STEM Mucchi Editore

    ISBN: 9788870008418

    Indice

    Frontespizio

    Colophon

    Postilla

    Premessa dell'autore

    1. Il travaglio del mare

    2. Fegatini di mosca

    3. La cernia perduta

    4. Il mattino seguente la perdita

    5. Ilriscatto

    6. Gianni re

    7. Vilieddi

    8. Alunni

    9. Simone

    10. Collega? Mai

    11. Umori alterni

    12. Violino

    13. Nino Italiano

    14. Nino Bongiorno

    15. Carlo Hauner

    16. Molla: poppa libera

    17. A Panarea

    18. Le barche degli altri

    19. Bisogna vigilare

    20. Apparizione

    21. Karpathos? Salina!

    22. Un sogno ritracciato

    23. A Lipari

    24. Seduti sul terrazzo

    25. I pesci con le ali

    26. La terrazza

    27. Incantesimo

    28. Redenzione

    29. La iancura di Goethe

    30. Il giunco

    31. Postfazione di Giovanni Lombardo

    32. Titoli della collana Capitolo Unico

    Questo libro è una nuova edizione, riveduta e ampliata, di Iancura. Brevi racconti dall’isola di Salina, GBM, Messina 2003. Rispetto alla prima edizione, sono stati aggiunti i seguenti racconti: Collega? Mai, Molla: poppa libera, A Panarea, Le barche degli altri, Bisogna vigilare, Apparizione, Karpathos? Salina, Un sogno ritracciato, A Lipari, Seduti sul terrazzo, I pesci con le ali sono presi per matti, La terrazza, La iancura di Goethe, Il Giunco. Il racconto Carlo Hauner, già presente nella prima edizione, è proposto in una versione accresciuta.

    Dopo la pubblicazione del mio libro, ho visto, non senza un divertito compiacimento, barche che ostentavano sulla prora il nome Iancura, un vino di Salina è stato etichettato con quello stesso nome e ho sentito persone appropriarsi delle mie parole per spiegare il senso dialettale del mare bianco. E non c’è cosa più gratificante per chi quelle parole le ha scritte: non sono più sue, vanno dove vogliono e con chi vogliono.

    P.C.

    Premessa dell’Autore

    Studiavo Heidegger, Nietzsche, ebraico, scrivevo quello che pensavo, cose un po’ pesantucce, ma a trent’anni non avevo ancora uno stipendio. L’Università non aveva nessuna intenzione di chiamare un concorso, il prossimo sarà tuo, gli anni passavano e la mia lingua, schizzinosa, a blandire nessuna inclinazione. Per fortuna, le donne sono animate da un senso pratico lungimirante: così, un’amica compilò per me alcune domande di concorso nelle scuole. Al primo che capitò, con l’entusiasmo di un condannato, partecipai e lo vinsi. Andai al Provveditorato, il capo reclino, per scegliere tra sedi disponibili: scorsi quella di Santa Marina Salina. E fu subito una luce dentro una notte scura. Fremevo, sperando che nessuno se la accaparrasse, mentre gli altri fremevano sperando che lasciassi le altre e che scegliessi quella. L’isola non interessava a nessuno: per loro, importante era, anche a costo di fare lunghi viaggi quotidiani, poter tornare, ogni giorno, alle domestiche pareti. Per me, invece, Salina significava, più che un luogo geografico, disagiato, un luogo dell’anima. Arrivarvi era davvero un viaggio di ritorno a casa, come a un luogo originario. Un luogo originario non è paradiso terrestre: chi ci vive otto anni, su un’isola, non può farlo nella retorica dell’isola felice. Originario è, però, un luogo che ti restituisce a una dimensione di autenticità, di condivisione ma anche di solitudine, in cui è dato fare esperienza della tua libertà esistenziale.

    Questo è un libro leggero: e a questa leggerezza ci tengo, perché nei meccanismi del mio pensiero leggerezza è una conquista. Che un poco alleggerisca chi lo legge è un desiderio. Sono piccoli quadri che fermano attimi della mia vita isolana.

    Il titolo, Iancura, al di fuori dell’arcipelago eoliano, è forse, immediatamente, incomprensibile: significa, letteralmente, biancore e indica quella specifica situazione metereologica in cui si trovano le isole durante particolari giornate di calma. È tempo, meteorologico, di mare immoto, quasi bianco, di mare che si confonde con il bianco-celeste del cielo. È tempo, in senso lato, di calma, di vita sospesa, di quella che sentivo, sottraendola a Hegel da ben altro contesto, come immagine di «translucida quiete». Insomma, è un titolo che amo, che evoca la mia personale esperienza del sublime. Chi conosce iancura, mi capisce, chi ancora no, potrà andare per mare a cercarla.

    In questo libro compaiono i nomi di molti ex alunni, che mi hanno aiutato a sopportare il travaglio della vita scolastica. Gli altri non li ho dimenticati: mi riservo di scriverne ancora. E li ringrazio tutti del loro contributo all’alleggerimento.

    A Salina, ormai, vado solo in estate, nella staciuni, come fanno i turisti: ma, ancora, ogni ritorno è una benedizione dall’alto, è un ritornare a casa.

    Borges riporta la metafora di un poeta indiano per il quale «l’Himalaya è la risata di Shiva» (Sognare e scrivere).

    Le metafore dei poeti non sono un modo eccentrico di esprimersi, ma vanno centripete al cuore dell’uomo, giungono a dirgli parole che sono di casa nel suo sentire, seppure, prima, non ancora mai udite.

    Benché nuove, le parole del poeta indiano – la metafora che Borges ha evocato – sono giunte al mio cuore, a riaccendere un già accolto sentire.

    Mi hanno ricordato quel che avevo scordato e, forse, non ancora saputo, in quanto a me stesso non detto: che iancura è il sorriso di un dio. È la sua calma celeste, è il sorriso di un dio che resta immobile tra cielo e mare, come resta fermo sul volto sorpreso di una donna: così sorride alla natura e all’uomo che tra cielo e mare l’attraversa.

    L’Himalaya è una risata che precipita dall’alto. Ma un mattino di iancura si distende come un sorriso. E ci avvolge compiaciuto un dio, in una silenziosa, materna benedizione.

    §1. Il travaglio del mare

    Quando ho iniziato a scendere sott’acqua, mia madre non c’era più da sette anni, lei che per il pesce fresco aveva una specie di culto.

    Ero un ragazzino in villeggiatura, quel giorno che un pescatore portò a casa una cernia ancora viva e la posò sul marmo della cucina. Mentre mio padre pagava, mia madre, le mie sorelle e qualche vicina di casa stavano timorose intorno alla cernia. Ad ogni sussulto del pesce, tutto il gruppo balzava indietro di un passo, con un piccolo urlo di paura. Io me ne stavo in un’altra stanza: non mi sarebbe neanche passato per la mente di avere a che fare con l’animale. Toccarlo con un solo dito mi avrebbe suscitato un orrore viscerale.

    Certo, oggi, avrei messo termine a quel trambusto in men che non si dica: tutti fuori dalla cucina e in pochi minuti pesce finito, squamato, eviscerato, lavato, asciugato, salato, incartocciato e al forno.

    La mia confidenza con il pesce è stata una conquista graduale, i primi contatti mediati da spessi guanti di neoprene.

    Prima di arrivare a Salina, la sola corporeità che conoscevo era quella delle donne. Per il resto, la mia vita si svolgeva nel pensiero, tra biblioteche polverose o asettiche, libri sul tavolo, dappertutto, anche nel bagno.

    Quando sbarcai a Santa Marina, portavo con me una ventina di tomi, convinto che quella miseria sarebbe bastata per un lasso di tempo strettissimo. Mi sbagliavo: quei pochi libri, sorprendentemente, restarono intonsi. La sola vista mi sembrava un peso, un sovrappiù inutilizzabile.

    La natura, che avevo sempre disprezzato, cominciava a imporsi nella sua reale presenza e a risucchiarmi nel suo grembo. Anche Dio mi sembrava lontano, quel Dio che molti scorgono come una traccia negli aspetti sublimi della natura, mi appariva un’idea malsana, un problema esclusivamente cittadino.

    La cosa più importante che impari dall’isola, è quella di fare di te stesso un’isola. Non ti spinge a chiuderti, ma a trovare la forza per fare di te una dimora, un luogo in cui poter accogliere tanto la propria solitudine, quanto la propria apertura all’altro.

    Sull’isola ho imparato il travaglio del mare, che non è la semplice fatica, ma qualcosa che comporta con essa appagamento e tribolazione. La stanchezza che deriva da questo travaglio, a sera ti lascia le membra molli. Giunge una spossatezza del tutto differente dal sovraccarico della deboscia. Perché, in seguito agli abusi, sul corpo stremato la mente continua a macinare le sue inquietudini, e l’insoddisfazione suggerisce al pensiero di perseguire altre vie ancora. È il labirinto, da cui il cittadino non esce neppure quando dorme. Ma chi ha conosciuto nella sua giornata il travaglio del mare, alla sera si addormenta presto, senza accorgersene, sprofondando in un buio accogliente e benefico, con la misura di un sorriso a fior di labbra; che non è quello dell’angelo, né quello dell’infanzia, ma quello più concreto e misterioso di chi ha portato a compimento un’opera e a fior di labbra ne trattiene il sapore.

    E non ha il marinaio il rigirarsi nel letto, i risvegli improvvisi che spalancano gli occhi al cittadino. La notte egli riposa, perché di giorno ha compiuto la sua missione. Ha attraversato l’arsura e il freddo, le sue ossa hanno sopportato i colpi del beccheggio, la sua pelle ha patito la carezza acida del sale, il suo bacio ambiguo di amante che lascia il segno. E il suo sguardo si è affaticato, logorato nella sua corsa verso la lontananza, verso i confini dell’orizzonte dove il blu cangia repentinamente in creste bianche alzate dai venti, che ancora non arrivano, ma si lasciano annusare nella salsedine, minaccia tanto più oscura quanto più lontana.

    E poi si torna a riva con il pesce, frutto tangibile del travaglio, sintesi del tramenio. Il pesce è pesce, oppure è pane. Ti puoi sfiancare per prenderlo, spolmonarti su e giù per gli abissi; e quando è finalmente in barca, sai che non è il compenso alla bravura. Se l’orgoglio eccede, alla gratificazione subentra l’ironia. Il pescatore sa che sullo sfondo della individuale valentia si staglia la sagoma di un destino che regge le sorti della giornata, che la preda non è un diritto, ma solo un dono ricevuto.

    § 2. Fegatini di mosca

    Quando si rientra da un pomeriggio di pesca, l’ingresso nel porto avviene più lentamente che in altre occasioni. Non è solo una questione di educazione: se in porto entri veloce, sullo specchio d’acqua sollevi un’onda che sommuove barche e sollecita cime tirate, inutilmente. E a mare ogni cosa inutile può diventare un danno.

    Si sopraggiunge ancor più lentamente, guardinghi, con il motore al minimo, perché il rientro sia osservato dal minor numero di pescatori.

    La loro critica vicendevole, palese o alle spalle, è sempre mordace, benevola o malefica che sia, e inevitabile. Ogni pescatore ha sempre da dire, dell’altro, qualcosa. Se hai preso molto pesce, l’invidia e la gelosia li rode. Se torni con il carniere vuoto, il ghigno di sberleffo amplifica inesorabile la tua delusione e ti costringe a sovrumani sforzi per dissimulare il tuo malumore. All’occhio del porto, comunque, non si sfugge.

    Un pomeriggio attraccai quatto quatto al mio gavitello. Accanto al mio gommone era ormeggiato il gozzo di un anziano pescatore amico. Stava pulendo le sue reti sulla barca e senza neppure alzare la testa mormorò: «Allora?».

    Mi guardai intorno e con cautela sollevai per metà, dal borsone, una corvina di due chili, visione di un secondo, lasciandola ricadere nella sacca del mistero. Il suo commento fu: «Ogni fegateddu ’i musca fa sustanza».

    Ed era un amico! Certo, non era pescata eccezionale, ma due chili di corvina non sono fegatino di mosca, ci mangi per tre giorni. Tra pescatori, anche chi ha benevolenza e non lo fa per male, te la deve un poco avvelenare.

    § 3. La cernia perduta

    Il più grande dolore morale della mia vita l’ho avuto in mare. Non c’erano colpevoli, come nei dolori sentimentali, né avveniva il tormento che proviene da altrove, come nella sofferenza esistenziale. Lì ero il solo responsabile del malfatto.

    Accadde un giorno nel mio tratto di mare preferito, quello che va da Punta Vallespina a Punta Marcello. Ancorato il gommone, dopo rituale vestizione (in ordine: muta, pinne, maschera, guanto sinistro, segno della croce, guanto destro, altro segno di croce, formula magica) fui in acqua. Era appena passato un quarto d’ora e avevo già catturato una cernia di otto chili. Tutto era stato facile: una discesa sui venti metri, un fluido ingresso in tana, lo sparo e il pesce portato in superficie. Lì il coltello, ben piantato tra gli occhi, aveva subito posto termine all’agonia dell’animale. Manovra rapida, sacrificale, priva d’indugi, compiuta nel breve spazio che separa il distacco dalla pietà, sussurrando «un attimo ed è finita».

    Infilai lo spillone del cavo d’acciaio portapesci tra le branchie della cernia e lo appesi al pallone che segnala la presenza del sub. Sarei potuto tornare a casa ampiamente soddisfatto. Ma quel quarto d’ora di mare non mi bastava. Le mie gambe sentivano ancora il desiderio di forzare i muscoli nelle falcate verso profondità nascoste, e l’ambizione del predatore, ancora inappagata, bramava nuovamente l’emozione dell’attimo decisivo in cui la preda è vinta.

    Io non so se tutto questo sia crudele. So che però, tra uomo e animale, gira il vortice del ciclo vitale che la morte della preda sostanzia. E se questo è crudele, non lo è più che mangiare o respirare.

    Continuai a pinneggiare e a scendere. Ma dopo una decina di minuti, ebbi la sensazione che la sagola del pallone avesse dato uno strappo e la trazione si facesse più leggera. Percorsi i venticinque metri che da esso mi separavano con il cuore in gola e quando già da lontano vidi il cavetto che penzolava vuoto ebbi una vertigine di sconforto. Fui preso da una specie di panico e sentivo come una pugnalata nell’anima. Mi guardai intorno furente e delirante di rabbia. Intorno, nel raggio di chilometri, non passava neppure una barca, né avevo sentito il rumore delle bolle d’aria che producono i bombolari. Ero completamente solo e lontano chissà quanto da qualunque forma umana. Io solo, solo io, ero il colpevole. Solo la mia cupidigia e la mia sfrenatezza avevano causato quella disfatta. E anche un po’ di sfortuna, che però non giustificava il fatto di non aver prevenuto la perdita. Ero desolato, affranto e arrabbiato: sotto

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