La luna rossa di Harar
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Info su questo ebook
Ora, alla soglia dei quarant'anni, si trova ad affrontare un momento delicato della propria vita, e sarà l'incontro con due indecifrabili figure femminili, Sofìa e Giulia, a segnarne il destino. L'epilogo porterà a uno scontro durissimo tra le due donne, in un caleidoscopio di fascino, mistero e tradimenti, tra una Roma afosa e millenaria e una Genova nascosta nei suoi carruggi, e traccerà una rotta ignota e illusoria attraverso più dimensioni, mentre una Jeep viaggia solitaria nel deserto… verso Harar e la sua enigmatica luna rossa.
Giuseppe La Boria, friulano, per anni dirigente in multinazionali del lusso come Safilo Group, Luxottica Group, Alain Mikli Paris. Sposato con Cinzia, ha una figlia, Barbara. Risiede a Monza, dopo aver vissuto a lungo tra Latisana, Padova, Milano, Barcellona, Parigi, Tel Aviv e Lucca. Ha aperto la propria azienda lanciando due marchi di occhiali (di alta gamma, made in Japan), Danshari, e Dansharian. Nel 2019 il romanzo d'esordio: “L'acido di Dio”.
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Anteprima del libro
La luna rossa di Harar - Giuseppe La Boria
Collana
LE FENICI
Giuseppe La Boria
LA LUNA ROSSA DI HARAR
Romanzo vincitore dell'edizione 2023
del Premio Internazionale MONTAG
MONTAG
Edizioni Montag
Prima edizione novembre 2023
La luna rossa di Harar
© 2023 di Montag
Collana Le Fenici
ISBN: 9788868927424
Copertina: foto di M. Souren, rielaborazione grafica di Massimo Guzzini
Quest’opera è esclusivamente frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone esistite, esistenti o a fatti accaduti è
puramente casuale.
LA LUNA ROSSA DI HARAR
A moi, l’histoire d’une de mes folies.
(A me la storia di una delle mie follie)
Arthur Rimbaud
Parte prima
Una storia non ha inizio né fine, solo porte di ingresso.
Carlos Ruiz Zafon
C’era sicuramente una ragione per quell’incontro.
Ben oltre il destino le porte della conoscenza,
che si aprono e si chiudono alle nostre scelte.
Oltre quelle porte tutte le nostre vite non scelte,
che non ci apparterranno mai più.
Uno
Quasi Harar, 24 agosto 1999
Il vecchio fuoristrada arranca sulla strada sconnessa, scorticato dai raggi impietosi d’agosto. I pensieri galleggiano inadeguati, bruciati dal sole, soffocati dal vento sabbioso. Davanti il mare rosso: nel fluttuante vuoto delle mie speranze, delle mie illusioni, dei miei desideri. Forse è davvero solo la sabbia rossa del deserto a entrarmi negli occhi e a farmi piangere.
Il sole dell’agosto etiope brucia il cielo e la terra.
Harar si staglia in lontananza sull’altopiano, con i colori magici nella mia vita.
Stasera vedrò per la prima volta la sua luna, capirò i suoi misteri. I misteri della mia anima, della mia mente. Capirò me stesso…
La guardo, Harar, bella, pura, cristallo lucente, sospesa in una bolla di luce, una magia verde, in attesa di essere amata.
Eccola davanti a me. Un miraggio?
Due
Le monde a soif d’amour: tu viendras l’apaiser. A.R.
(Il mondo ha sete d’amore: tu verrai a placarla.)
Ho sempre avuto un rapporto difficile con il sonno. Non riuscivo a dormire più di tre o quattro ore a notte. Allora mi alzavo e iniziavo a scrivere, mi aiutava a liberare la tensione accumulata durante le faticose giornate di lavoro e le lunghe notti quasi insonni. Scrivere mi dava la possibilità di inventare storie e personaggi, decidere i loro destini, la loro vita o morte. Potevo creare personaggi, manipolare il loro presente e futuro, immaginarmi storie e trasformarli in assassini o santi. La scrittura mi rendeva per un unico glorioso momento onnipotente.
Scrivere, creare, dare un contorno alle proprie emozioni, sentire l’adrenalina e il brivido della creazione, è forse l'esperienza che più avvicina al potere di Dio.
Ero arrivato alla conclusione del mio romanzo, mancavano solo alcuni dettagli. Rileggere le ultime righe mi riempiva di soddisfazione; nel fine settimana avevo in programma di dedicarmi alla revisione e al controllo ortografico finale.
Era un casual Friday di lavoro. Indossavo jeans, una t-shirt e sneakers, l'azienda aveva concesso un abbigliamento informale solo l'ultimo giorno della settimana, seguendo una tradizione importata dagli Stati Uniti. Negli altri giorni, giacca e cravatta di ordinanza.
La giornata stava volgendo al termine e c'era qualcosa di vitale che dovevo affrontare per garantire la mia sopravvivenza. Uscii dall'ufficio e mi diressi in auto al supermercato. Una volta alla settimana, mi occupavo della spesa in quel grande ipermercato nella periferia sfocata della città. Il parcheggio enorme era quasi deserto a causa del caldo estivo. Mentre parcheggiavo sentivo l'afa di Roma che mi schiacciava togliendomi il respiro. La città giaceva inerte e tranquilla in quel caldo infernale, come se contemplasse sé stessa con calma e grazia. Questa pace senza fretta era tipica di Roma, e si faceva ancora più intensa durante l'estate torrida.
Inserii cento lire nel meccanismo del carrello e iniziai a percorrere le corsie, raccogliendo prodotti. Quando arrivai alle casse e stavo per girarmi per risalire la corsia la vidi. Era lì in fila, come se fosse la cosa più naturale del mondo. La sua presenza sembrava quasi aliena in quel contesto. Non riuscii a smettere di guardarla. Era affascinante: indossava un tubino nero che delineava delicatamente i fianchi e una canotta nera che lasciava scoperte le braccia snelle e chiare. Aveva un sorriso appena arrogante, con le guance appena sollevate. Sembrava solo una ragazza che attendesse il suo turno alla cassa di un supermercato, come ce ne sono tante. C'era però qualcosa di speciale in lei: l'eleganza, la raffinatezza, la bellezza, e quel distacco freddo che la rendeva inaccessibile. La bellezza era solo una parte del suo fascino; era quell'aura intorno a lei che la rendeva unica.
Cercavo di osservarla con falsa indifferenza, ma quella ragazza esercitava un'attrazione su di me, possedeva un elemento in più, qualcosa di diverso. Mi sfuggiva la connessione tra il suo volto e il suo corpo, tra il suo movimento e le tendenze al movimento, sfuggiva a ogni logica. Non riuscivo a interpretare quell'apparente staticità e la tensione intrinseca al suo potenziale movimento. Era come una statua antica in marmo scolpita da Fidia: immobile, ma con i muscoli tesi, pronti a scattare nello spazio. Tutto intorno a lei sembrava sospeso, in attesa di un suo gesto o movimento, quasi il mondo intero aspettasse il suo segnale per tornare in vita. E poi c'era quella sorta di luce, un bagliore bluastro che la circondava. Mi venne in mente l'idea di un gioco di luci, un effetto cromatico tra il cielo che si oscurava, le ampie vetrate e i neon accecanti.
La sua presenza era eterea, con una postura elegante e distante. Notai un braccialetto al suo polso destro, forse d'argento, con maglie insolite. Lo scrutai con attenzione, anche se solo per pochi istanti, ne ero affascinato. Sembrava un insieme di forme quadrate e rotonde che si fondevano in un gioco di spessori e volumi. La fissavo, e sentivo di conoscerla o di averla già incrociata. Un senso di familiarità mi pervase, come se avessi ritrovato qualcosa di perduto. Era una sensazione coinvolgente, una situazione bizzarra che mi attirava, che mi piaceva. Mentre la osservavo, comprendevo che la sua personalità spiccava, un'esplosione di energia nel plastico finto equilibrio del centro commerciale, anche se rimaneva immobile davanti alla cassa in attesa del suo turno.
Sembrava trasudare tristezza e una complessità che mi chiamava. Mi sentivo invaso da un desiderio insaziabile di conoscenza, qualcosa che sembrava fluire nelle vene. Sentivo come se piccoli ingorghi di sangue rallentassero il flusso, rendendolo sempre più incerto. Aveva un modo unico di tenere il carrello, come se il suo corpo non fosse davvero presente e solo le sue mani e le braccia fossero lì, mentre il resto del corpo compisse miracoli altrove. Era una questione di spazi, di equilibri instabili, di spostamenti in avanti o indietro. Forse di bilanciamenti complessi.
Avrei voluto avvicinarmi a quella sfera intima, offrire rassicurazioni, presentarmi e proporle un caffè o una cena. Riconobbi, tuttavia, che il mio cervello mi stava tendendo una trappola. Il nostro rapporto è sempre stato conflittuale. A volte agisce in sintonia con le mie sensazioni ed emozioni, altre decide, in totale autonomia, la scelta che reputa migliore per me o per lui stesso. In quei momenti, il suo controllo diventa totale. Certe notti si diverte a tenermi sveglio, immergendomi in un vortice di incubi, paure e presagi. Solo quando ritiene che il suo gioco sadico sia giunto al termine mi permette finalmente di addormentarmi. Ma anche il sonno è un labirinto complicato, popolato da persone e situazioni avvolgenti. Di rado mi concede sogni belli, trasportandomi in voli mozzafiato nel cielo azzurro o facendomi immergere in storie intrise di blu marino, avvolte da favole, musica e poesia.
La vidi pagare con movimenti distanti e meccanici, come se fosse estranea alla situazione. Sembrava che il suo corpo non fosse lì ma guardasse avanti, proiettato verso luoghi e orizzonti lontani. Nell’aria condizionata del supermercato, vidi le sue mani lunghe e esili porgere la carta di credito alla cassiera, e una battaglia interna mi travolgeva, portandomi in uno scontro di comportamenti contrastanti.
Lasciai il carrello a metà corsia, vicino al reparto degli integratori alimentari e delle pappe reali, e mi precipitai...
Mi diressi attraverso il corridoio fino alla cassa, passandole alle spalle e mi affrettai verso l'esterno. Volevo vederla uscire e scoprire la sua destinazione; non potevo permettermi di perdere quel contatto che mi aveva catturato. L'atmosfera all'esterno era grigia e triste, tipica di un inizio estate senza sole, bruciata dal calore e dall’afa. Era un'aria opprimente, appiccicosa e persistente, come le giornate strane o i mal di testa inspiegabili.
Il cielo era di un grigio metallico, con sfumature sottili di piombo fuso. Nuvole nere, dense come la pece, si stavano accumulando lontano. Il vasto parcheggio emanava l'odore dell'asfalto appena bagnato da poche gocce di pioggia inaffidabile e inutile. Quell'odore si impregnava nei polmoni, talvolta rendendomi il respiro affannoso. Nel frattempo, lei si avvicinava con eleganza alla sua auto. Un fuoristrada attendeva tranquillo e rassicurante, mentre gradualmente la foschia di umidità lo circondava, disidratandosi. Era una vecchia Jeep, di un verde muschio scuro, con una copertura in tela fermata da spesse corde di nylon. Aveva un'aria decadente, ma con quel tocco di stile alla moda. Una sorta di Jeep militare che ci si aspetterebbe in un film americano, forse fuori luogo in quel contesto. O forse proprio no. Iniziò a caricare gli acquisti, posizionando ogni articolo in ordine sul piano posteriore dell'auto, seguendo un metodo che sfuggiva alla mia comprensione. C'era una logica fredda nelle sue azioni e nella loro esecuzione. Metteva i prodotti, la frutta, le scatole e i barattoli, in modo preciso e razionale, ordinando tutto sul piano del bagagliaio. Io non l’avrei mai fatto così. La mia mente segue percorsi meno lineari e ordinati, ma molto più creativi.
Ero a pochi passi da lei, fingendo di osservare un'auto parcheggiata vicino alla sua. Decisi che dovevo tentare di conoscerla, non potevo lasciarmi sfuggire quell'opportunità. Con un imbarazzo che poteva competere solo con la rapidità dei miei battiti cardiaci, mi avvicinai con uno degli approcci più sciocchi della mia vita. Cercai di formare una frase, un discorso che desse l'idea di trasmettere intelligenza, ma il mio cervello iniziò subito il suo sporco lavoro di frenare, reprimere, modificare e rifinire. E così, con una banalità disarmante, riuscii solo a balbettare: «Buongiorno signorina, posso aiutarla a caricare la spesa?» Mi osservò con una leggera sorpresa e, senza rispondere, proseguì ciò che stava facendo.
«In realtà, mi piacerebbe invitarla a bere un caffè», continuai, sorridendo in modo imbarazzato. Il calore mi invase, sentii il battito cardiaco salire fino al cervello. Non era stato di certo un approccio brillante, forse da adolescente, liceale anni '70. Mi aspettavo una risposta, un rifiuto o addirittura uno sguardo freddo di indifferenza. Invece, mi restituì un’occhiata intensa e un sorriso enigmatico che mi lasciò una sensazione di profondo imbarazzo e mistero. In quel momento, di fronte al suo sguardo e alla mia goffaggine, mi resi conto che doveva esserci una ragione per quell'incontro. Forse la vita, con le sue spirali irrazionali, mi aveva guidato lì, preparandomi in qualche modo per un enigma inaspettato.
Non poteva essere una coincidenza; non esiste mai casualità negli incroci della vita. Tutto è connesso alle scelte, nostre e degli altri. Come dimensioni diverse che corrono parallele e, solo per un breve istante, si incrociano, ma quell'incrocio potrebbe trasformare la vita per sempre. Dimensioni che s'incontrano in qualsiasi punto del percorso, che può sembrare casuale, ma l'incontro è inevitabile. Credo che esistano infinite dimensioni parallele in cui ognuno di noi ha il proprio doppio, il proprio triplo, che vivono le nostre storie non scelte.
***
Restammo in silenzio per alcuni secondi a fissarci negli occhi, mi sarei sciolto nell’asfalto sudato per la vergogna. Lei mi diede un ultimo sguardo e scoppiò a ridere, una risata fragorosa e pulita, quasi offensiva talmente era naturale. Salì sull’auto e prima che io potessi anche pensare o dire qualcosa, se ne andò via, lasciandomi solo sotto lo specchio grigio piombo del cielo del parcheggio.
Mi restava quel sorriso. Un segno indelebile, marchiato a fuoco sulle mie emozioni. Raccolsi le idee e deluso mi avviai verso l’auto. La raggiunsi poco dopo. Un attacco di rabbia mi assalì. La mia auto aveva un lungo sfregio che partiva dal cofano anteriore e finiva sul parafango posteriore. Atto vandalico senza alcun senso e logica. La cosa non fece che accrescere il disagio e la rabbia per una giornata iniziata male e finita peggio, senza soluzione di continuità.
Mi piaceva il ricordo di quella ragazza, il suo sorriso, il suo sguardo. Decisi che l’avrei chiamata Cristina, come la prima bambina di cui mi ero innamorato alle elementari. Il mio comportamento era stato stupido, abbordando una ragazza al supermercato, stupido ma piacevole.
La sera stava calando, salii sulla mia auto, un caldo infernale mi avvolse, sembrava che l’interno scoppiasse, un vapore saliva dai vetri e appannava i miei occhiali da sole. Li buttai maldestramente sul sedile.
Dalla rabbia mi accesi una sigaretta, ma la gettai quasi subito, troppo caldo per fumare, la gola era secca e il fumo raschiava la gola. Mi inserii nella strada che portava verso casa. Il grande raccordo anulare era lì, immenso, trafficato come sempre, la vera arteria ingolfata da tutti gli ingorghi del sangue marcio di Roma. Mi abbandonai alla scia delle auto, seguivo la lunga coda senza un perché, affascinato da quell’inutile e illogico serpentone di ferro, vetro e acciaio. Mi lasciai accompagnare da quel rumore sospeso e da quell’aria viziata di vita verso orizzonti indefiniti, senza alcun senso logico. A un certo punto, quasi svegliandomi da quei pensieri uscii dal raccordo, presi la Salaria, l’umore non era dei migliori. Guardavo, attraversandole con assoluto disinteresse, le prostitute nere lungo la strada, pronte a offrirsi ai malcapitati utilizzatori di sesso a pagamento. I pochi alberi sulla strada provavano