Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Light and Shadow: rosso meraviglia
Light and Shadow: rosso meraviglia
Light and Shadow: rosso meraviglia
E-book776 pagine10 ore

Light and Shadow: rosso meraviglia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Stella è una diciassettenne con una vita normale e una tragedia alle spalle, un incubo da cui non riesce a liberarsi, e la ricerca di una via di fuga dal dolore attraverso la scoperta della meraviglia.
È da poco ricominciata la scuola quando nuovi inquilini si trasferiscono nella casa accanto alla sua, ed incontra Aedan O’ Gallagher. Abbagliante e circondato di scintille, in lui non c’è nulla di umano.  
I rapporti tra i due sono inizialmente tiepidi, scanditi dall’algido distacco di Aedan, ma quando Stella decide di scoprire quale sia il suo segreto, accade qualcosa di inaspettato, e si ritrova in bilico tra il regno dei maghi e il Mondo Incantato.
Un incantesimo che sembra solo riuscire a gettare un’ombra di solitudine sulla vita di Aedan, e un pericolo mortale per chi gli si avvicina, sono gli ostacoli da superare.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2017
ISBN9788826076560
Light and Shadow: rosso meraviglia

Leggi altro di Elena Sombre

Autori correlati

Correlato a Light and Shadow

Ebook correlati

Narrativa romantica fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Light and Shadow

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Light and Shadow - Elena Sombre

    http://write.streetlib.com

    Light and Shadows

    Rosso meraviglia

    Copyright © Elena Sombre

    Immagine di copertina: Ruslan 1117, Fotolia

    Progetto grafico: Silvia Ottaviano

    Questa è un’opera di fantasia.

    Nomi, persone, luoghi ed eventi

    Narrati sono il frutto della fantasia

    Dell’autrice. Qualsiasi somiglianza

    Con persone reali, viventi o defunte,

    eventi o luoghi esistenti è da ritenersi

    puramente casuale.

    Questo libro contiene materiale

    Protetto da copyright e non può

    essere copiato, licenziato, noleggiato o

    trasmesso in pubblico, o utilizzato in

    nessun altro modo ad eccezione di

    quanto è stato specificatamente

    autorizzato dall’autrice, ai termini e

    alle condizioni alle quali è stato

    acquistato o da quanto

    esplicitamente previsto dalla legge

    applicabile (Legge 633/1941).

    I Edizione Aprile 2017

    II Edizione Luglio 2018

    Light and Shadows

    Rosso meraviglia

    Mi domando se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua.

    Antoine de Saint-Exupéry

    1 La fine e l’inizio

    " Una roulette russa per l’umana che sa troppo! "

    " La magia non può essere a portata di tutti "

    " Il Consiglio delle Arti Magiche furioso con l’umana che conosce tutti i suoi segreti "

    Mi guardo attorno, siamo in una sala trapuntata di ombre. Un odore forte mi invade le narici, è il lezzo stantio dei posti antichi e chiusi a lungo. Mi ci devo abituare prima di riuscire a muovere un altro passo.

    Stringo i pugni, e le dita mi fanno male per quanto sono ghiacciate, mentre i titoli delle ultime edizioni de La Pergamena e de Il Grimorio News, il quotidiano e la rivista di gossip più venduti tra i maghi, mi ossessionano.

    Nelle ultime settimane sono state battute milioni di copie che parlano solo di me, e del mio red carpet nel loro mondo.

    Ignoro i soliti nodi di stomaco al pensiero delle notizie sparate a zero, esagerate, gonfiate dalla necessità di alimentare uno scoop che brillava quanto un fuoco di paglia. Avevo accolto la notizia con l’audacia di chi non sa veramente dare una misura al pericolo, e la consapevolezza che un sogno si può anche sbriciolare tra le dita.

    Non avrei potuto fare altro.

    Per giorni avevo tenuto sotto controllo la stampa dei maghi, e tutte le loro tv; alla fine mi ero ritrovata a sperare di avere almeno un destino scritto tra le stelle.

    Ho la sensazione che i muri mi si stringano intorno, un ronzio che sembra venire da dentro alla mia testa mi suggerisce che forse qualcuno sta cercando di leggermi i pensieri. E perché, poi?

    Facile.

    Solo perché negli ultimi mesi, tutto ciò che di più favoloso è custodito nei romanzi della mia libreria, mi è accaduto.

    O quasi.

    Il C’era una volta delle favole, è ADESSO.

    Quanto di più irreale sia mai stato detto, sta accadendo proprio ora.

    Apro gli occhi, la meraviglia è reale, un vortice di scintille rosse tutto attorno.

    ROSSO.

    Tutto ciò che avevo sempre voluto, era solo essere la protagonista del mio romanzo preferito.

    Una volta Questo, e una volta Quello.

    Ho rubato un pezzo di cuore ad ogni personaggio incontrato, e ci ho costruito il mio.

    Il fantastico incombe sulla mia testa come la pazzia su quella di Re Lear, ho pianto le pene di Giulietta, sono certa che Gulliver impazzirebbe pur di farmi confessare il nome del mio Tour Operator, il mio armadio non porta di certo a Narnia, ma passando di lì da qualche parte si arriva, non ho nessun libro che mi trascini in una storia infinita, perché la mia vita è già diventata più fantastica di qualsiasi racconto inventato.

    Anche se adesso ho l’aspetto terribile di una Alice a cui è appena stato accalappiato il Bianconiglio.

    Un po’ disorientata e sconfortata.

    Forse, se qualche personaggio dei miei romanzi più adorati non avesse già vissuto avventure simili alle mie, non sarei neppure stata capace di aprire gli occhi e riconoscere la meraviglia che mi circonda, vivere avventure fuori dal comprensibile, vedere la magia, e riempirmi il cuore di emozioni tanto grandi da rischiare di fargli fare il botto.

    Ma adesso non c’è tempo per indugiare su simili faccende: a volte accadono dei fatti, che devono per forza essere scritti tra le stelle.

    Questo è un bel giorno per essere anche l’ultimo.

    È l’ultimo giorno dell’anno. Una data che potrebbe avere un suono convincente nel cielo del destino.

    Sgradevole, la scena davanti ai miei occhi si trasforma in una schiera di incappucciati neri; tutti uguali e rigidi come un esercito di spettri dalla testa appuntita.

    L’unico rumore è quello del battito del mio cuore, tutto il resto è sigillato in un silenzio irritante.

    Sono certa che ognuna di quelle sagome di pece si stia facendo le stesse domande, iniziano a sussultare appena il dubbio le sfiora, confabulano mentre i mantelli seguono il saliscendi di respiri pesanti e di pensieri sempre più a galla.

    I cappucci si sollevano come ferri di prua.

    La risolutezza dei corpi che nascondono, ondeggia facendoli assomigliare a tante gondole ormeggiate. Non riesco a resistere, non voglio che quell’ombra mi sfiori e indietreggio quanto basta.

    «Vedo la magia! Non ho bisogno che mi venga mostrata» grido.

    Le mie parole li scuotono, ma la loro rigidità mi rimbalza addosso.

    Sono nella situazione peggiore in cui un’umana si sarebbe mai potuta trovare. E questo non è neppure il peggio che mi possa accadere.

    Il mio bisogno di allontanare la paura mi fa rendere conto di quanto sono umana e fragile. Come un colpo di fucile in pieno petto.

    Rapido, doloroso e senza speranza.

    Il Consiglio delle Arti Magiche è un velluto a forma di cappe e mantelli, mi osserva come se io fossi la strega e loro la sacra inquisizione. Curioso.

    Deciderà che cosa ne sarà di me, ed è dell’unico colore che mi fa impazzire. Nero.

    Il nero è chiudere gli occhi e non sapere se li riaprirò.

    Il nero è mancanza, assenza.

    Il nero è un ladro di luce.

    Adesso il mio colore è il rosso. ROSSO!

    Mi appartiene perché è la sua sfumatura, e io gli sono connessa da un legame magico.

    Eppure sembrano avere tutta l’intenzione di portarmelo via.

    Il nodo in gola si fa più insopportabile, non voglio che mi cancellino i ricordi; sarebbe peggio che ritrovarmi da sola e senza un posto dove andare. È lui il mio posto.

    Lui mi appoggia una mano sulla spalla, nessuna magia a sfarfallarmi nello stomaco questa volta.

    È già pieno. Di paura.

    Il suo splendore mi getta addosso un po’ di luce, e io mi sento già un briciolo più forte.

    «Vogliono sapere. Tutto».

    La sua voce è quella calma e decisa di sempre, a tratti incoraggiante. Immagino l’espressione tesa che gli irrigidisce il viso anche senza guardarlo in faccia, non sopporterei di scorgere il minimo segno di terrore.

    Studio quei visi tirati, pallidi e mezzi nascosti dai grandi cappucci dei loro mantelli, e mi chiedo se riuscirò mai a spiaccicare una parola. Potrebbero portarmi via la felicità.

    Veramente non so neppure se dovrò essere io a raccontare quello che devono indagare, forse adesso qualcuno tirerà fuori una boccia di vetro per pesci, mi allungheranno un sacchetto di patatine, e ci siederemo tutti in cerchio a guardare il film della vita di Stella.

    «Mirastella…»

    Lui mi appoggia una mano sul braccio, ad incoraggiarmi.

    Faccio un passo avanti, la mia famiglia mi segue.

    Quello con il mantello più nero muove un passo verso di me, neanche a volerci scommettere! Il suo nome è Sidereus Lowitt, il Gran Mago del Consiglio delle Arti Magiche. Lo riconosco da una foto che ho visto su La Pergamena, in cui aveva l’aria di uno che si dava un gran da fare per tenermi nascosta la magia.

    Proprio ad una come me!

    Alza un braccio, con quella mano che sembra pronta ad ordinare un flagello direttamente all’Olimpo intero o ad Asgard, come io avrei potuto alzare la cornetta del telefono a ordinare al Take Away .

    «Ricorda Illumina!» tuona, toccandomi la fronte.

    L’esperienza più dolorosa della mia vita.

    Apro la bocca, ma il fiato mi muore in gola. Ogni figura davanti a me scompare, coperta da un rosso uniforme.

    «Fermatevi! Così la uccidete» lo sento ringhiare.

    Poi un’altra voce che conosco bene, più sussurrata, più umana, gli dice di lasciarli fare, di stare calmo, che devono spiare i miei ricordi.

    Proprio tutti? penso, mentre galleggio nel rosso. Forse arrossisco, in una vaga sensazione di perdere i sensi Sidereus Lowitt affonda la mente tra i miei ricordi, come io avrei messo il naso tra le pagine di un libro, e sono costretta a rivivere insieme a lui tutto ciò che vedo scorrere sotto alle palpebre chiuse.

    L’unica luce che ancora splendeva in me era quella imprigionata nel mio nome, Mirastella.

    Sapevo di essere nell’acqua nera e torbida fino alla gola, un male subdolo in cui annaspavo. L’unico modo per cercare di salvarmi era restare aggrappata a quel granello di meraviglia che, forse, mi restava.

    «Meraviglia! Solo meraviglia!» spalancai gli occhi nascosti sotto al bordo del copriletto.

    «Bene, non potranno che accadermi solo meraviglie adesso, o tutt’al più, nulla di nero» mi dissi come se toccasse a me rassicurarmi.

    Tentavo di convincermi che sarebbe andato tutto sempre meglio. Nessuna data particolare per quel nuovo inizio, ma da un certo momento bisognava pur cominciare.

    Da sotto al cuscino tirai fuori il taccuino sgualcito dalla stessa piega, in cui si era lasciato plasmare il memory foam per tutta la notte. La penna grattò sulle pagine spesse di carta riciclata prima di convincersi a lasciare una scia blu.

    9 Ottobre

    Inizia il mio viaggio alla ricerca della meraviglia.

    Con me porto solo un quaderno pieno di pagine bianche, l’unico luogo in cui dare forma ai sogni da realizzare.

    La meraviglia è non accontentarsi, è la libertà di riuscire a credere nell’incredibile, osservare sotto una luce diversa, tramutare il nero in qualsiasi altro colore, e quella sensazione di pepe appena sotto il naso, che arriccia la bocca e trascina il cuore.

    Coordinate di viaggio: pensare alla meraviglia può solo che attirare meraviglia.

    L’occhiata scivolata sul calendario era superflua, tamburellai sul bordo del telefono, le 9:30, domenica mattina.

    Una smorfia doveva avermi inclinato le labbra con incertezza, non volevo essere fastidiosa come una sveglia.

    Ma era mattina, e io ci stavo pensando dalle 6:00, da quando avevo aperto gli occhi.

    Riempii una tazza nel tentativo inutile di colmare ancora qualche istante, pensavo di poter imbrogliare il tempo con una scarica di caffeina, e la misi nel microonde.

    L’unico suono adesso veniva da lì, aspettando che finisse di girare sfioravo il display del telefono, si spalancarono le notifiche del calendario.

    Necessità stupida, erano almeno dieci anni che le facevo gli auguri sempre al 10 di ottobre. Controllai ancora, come se qualcosa avesse potuto modificare la logica delle date.

    Essere troppo sicura di me stessa, non era da me.

    Sfiorai l’icona della chat, perfetto, ultimo accesso alle 9:11, almeno è sveglia.

    Il sole stava facendo del suo meglio per scaldare la mattinata, il risultato era che in casa ci si stringeva nella felpa e fuori una nebbiolina infastidiva il paesaggio. Lo scampanellio del microonde anticipò la sensazione della tazza bollente tra le mani, facendo ricomparire il ticchettio dell’orologio in cucina.

    Lo fissai torva, senza rendermi conto di cosa stessi facendo.

    «A vevi fatto un incantesimo di occultamento, eh? »

    Sospirai mentre tenevo gli occhi fissi sul mio interlocutore, il fornetto, e un’occhiata bieca mi scappava alle lancette dell’orologio appeso in parete.

    «O h no, non va bene… com’era? » trasalii colpendomi la fronte con la mano, « È un cattivo segno, è sempre terribile quando… ah sì! Quando ci si mette a parlare con gli elettrodomestici come facessero parte della famiglia! »

    Un rumore di coccio alle mie spalle mi fece sobbalzare, spalmandomi in faccia la migliore espressione disordinata di chi è appena stata risucchiata nel mondo reale da chissà dove.

    «Ah…, cercavo di ricordare una citazione da qualcosa che ho letto. T-tu non leggi mai? Dovresti

    Mi giustificai marcando appena la voce sull’ultima parola, che forse sarebbe dovuta suonare come un non sono pazza, non stavo parlando di proposito con il forno a microonde.

    Mio padre continuò a versare il caffè nella tazza stretta tra le mani; era lì, in quella presa, che vedevo tutta la sua agitazione.

    Con i suoi occhi azzurri e i capelli biondi tradiva le origini altoatesine e riusciva ancora a far girare la testa. Eppure aveva me, e basta.

    Non ho ricordi di quando vivevamo insieme; io, lui e la mamma. Si sono separati troppo presto.

    Ma quando parlava di lui, lei lo chiamava sempre per nome.

    Anche io a volte lo chiamo Christian, e lui si arrabbia.

    Ha vergogna che ci scambino per una coppia, io lo so.

    E glielo faccio apposta.

    «Resti a casa oggi?» chiese con malcelata noncuranza, ancora poco e la tazzina gli sarebbe esplosa tra le dita.

    «Penso che rimarrò a studiare, tu?» risposi leggera, mentre sfarfallavo attorno al tavolo in un pietoso tentativo di sembrare normale e felice.

    «No, oggi lavoro, mi dispiace. Sicura di non aver voglia di uscire?» disse squadrandomi con un’occhiata che era un luminol nelle mani di un agente della scientifica.

    Abbassai lo sguardo: in CSI il colpevole, alla fine, veniva sempre scoperto. Mio padre faceva parte del Comando Unità per la Tutela Forestale, forse non aveva mai usato uno di quegli aggeggi della polizia scientifica, ma di sicuro sapeva riconoscere le tracce.

    Qualsiasi traccia.

    Tanto di un cinghiale quanto di un mio pensiero.

    «Cercherò di prendermi la prossima domenica. Perché non chiami qualche amica?» ci riprovò.

    «Dai papà, non ti preoccupare. Se esco ti chiamo, okay?» dissi frettolosa sperando di non dar a vedere quanto fossi impaziente.

    Poi ci ripensai e accorciai le distanze di un passo, con un dito alzato e pronto a bloccare ogni suo ma.

    «Non mi chiamerai ogni cinque minuti per essere sicuro che non stia allagando tutto di lacrime, vero? Non sono Alice e questo» gracchiai allargando un braccio a ventaglio mentre lui si ritraeva orripilato, «non è il Paese delle Meraviglie».

    Rimanemmo entrambi in silenzio, anche se per motivi diversi. Il suo non capire mi instillava un insolito buonumore, affondai la stoccata decisiva. «E comunque non sarò sola, ho in programma una reunion con le sorelle March!».

    «Con chi?» gracchiò impreparato, sputacchiando il tavolo tra colpi di tosse.

    «Le sorelle March…, Piccole donne , e Piccole donne crescono . Papà…, sono libri!» squillai.

    Ferita come se, con il suo non sapere, avesse offeso le mie quattro amiche.

    «Ah» sbottò. «E pensi di leggerlo tutto?»

    Mi soffermai a pensarci, in realtà avevo consumato il primo a forza di sfogliarlo, ma nel secondo certi avvenimenti mi avevano fatto venire il mal di pancia, e non lo avevo mai più letto per intero. Mi fermavo prima che Jo decidesse di sposare quel Fritz Bhaer. Non sopportavo l‘idea che avesse potuto rifiutare Laurie.

    Laurie!

    Questo aveva destabilizzato le mie aspettative adolescenziali, se solo avessi avuto a disposizione una macchina del tempo, o un desiderio da esprimere a qualche genio scivolato fuori da una lampada, sarei tornata direttamente all’infausto giorno in cui Louisa May Alcott si era bevuta il cervello con quel terribile colpo di testa.

    Se ne uscì brontolando, «Non puoi passare una vita chiusa in casa a soffocare tra i libri».

    Era già fuori mentre lo diceva, eppure mi risuonò nelle orecchie così perfetto, che mi pareva di non essere ancora rimasta da sola.

    «Meraviglia…» mormorai mentre mi torcevo le mani tra i capelli, e sentivo la porta chiudersi.

    Sapevo che non sarebbe stata un’impresa semplice, anche se lui avrebbe voluto vedermi recuperare la serenità in fretta.

    Se tante volte fingevo, lo facevo solo per lui. Credevo di riuscirci piuttosto bene, tutto sommato. Odiavo che soffrisse a causa mia.

    Ma in fondo al cuore, avevo una pozza nera.

    Andare troppo di corsa avrebbe rischiato di farmi trovare perfettamente in equilibrio sulla punta dell’antenna dell’Empire State Building… forse non proprio la situazione più stabile al mondo.

    Scossi la testa allontanando questi pensieri, era un buon momento per fare quella chiamata, e se solo le tasche dei miei jeans non fossero state tanto strette, sarebbe stato anche semplice estrarre il cellulare.

    «Barbara? Aspetta, prima che tu possa pensare qualsiasi cosa orribile sul mio conto, non ho sbagliato giorno. Lo so che è domani».

    Dal telefono squillò una risata, il crash dell’impatto tra i suoi pensieri e il mio mettere le mani avanti.

    «Non avevo dubbi!» trillò, «Allora?»

    «Domani ti chiamerò lo stesso, ma so già che di lunedì, in più se è il lunedì del tuo compleanno, sarà difficile trovarti libera. Oggi magari ce li hai cinque minuti per una chiacchierata?»

    Quei due secondi di pausa che ci mise per rispondere spensero una parte del mio entusiasmo, insieme alle voci indefinite che sentivo attorno a lei. Doveva essere già in giro, a fare qualcosa a cui presto avrebbe dovuto tornare a dedicarsi.

    «Sono dalla sorella di Matteo. La accompagniamo a fare la prova dell’abito» sghignazzò perfida, «a giugno si sposa. E tu, novità?»

    Strascicò appena l’ultima parola, che nelle mie orecchie già accese in modalità traduttore automatico, suonò come il " come stai?" che tutti non avevano più coraggio di chiedermi.

    «No, niente! Anzi… no!»

    «Allora?»

    «Lo sai cosa ti dico? Che vorrei una vita inzuppata di cliché. E veramente non capisco perché ogni volta, debba sembrare che la pronuncia corretta sia storcendo il naso e arricciando le labbra».

    «Forse perché ognuno vorrebbe essere tanto unico da riuscire a tirarsene fuori?» masticò con la bocca piena del croissant che le avevo sentito chiedere poco prima.

    «Dai, pensaci bene!» gracchiai raddrizzando la schiena. « Non vorresti avere una vita degna di un romanzo? In cui nulla sarà mai tanto tragico da non lasciare spazio ad un sequel? »

    «Troppo tormento» disse di getto, ma sembrava lo avesse ingoiato.

    «Una qualche abilità particolare?»

    «Preferisco non dare nell’occhio»

    «Un fidanzato che potrebbe far impallidire i protagonisti dei romanzi d’amore con i vampiri?»

    Non rispose, ma immaginai quel pezzo di colazione scivolarle lentamente giù per la gola.

    «Beh, io sì!» tuonai. «A me, una vita fatta di cliché, andrebbe bene. Alla grande» continuai annuendo, anche se lei non poteva vedermi.

    La sentii masticare mezze frasi come cliché solo nelle favole, vita reale e tutto diverso, e mi sentivo come il deodorante a forma di panda che aveva mio padre sul cruscotto della sua auto. Con una molla al posto del collo dondolava la testa fino a sbattersela contro il petto e sul parabrezza. Quando toccai il vetro freddo e umido della finestra con la fronte, tornai al mio presente.

    E a quello che stava accadendo nel mio presente.

    «Ma che diamine…?» mi lasciai sfuggire.

    «Cosa?» mi chiese tra il preoccupato e il curioso.

    «È arrivata una macchina, si è appena fermata davanti alla casa accanto alla mia, quella sfitta. Non mi intendo di meccanica, ma pensi sia normale se quando hanno spento il motore sia uscita una scintilla dal tubo di scappamento? … azzurra!»

    «Di che macchina si tratta?» chiese incerta.

    Sentivo il picchiettare delle sue unghie contro il telefono, credo sperasse di avere la conferma che non fossi del tutto pazza.

    «Land Rover»

    «Tesoro, non avrai già preso troppi caffè?»

    «Che targa è IRL?» chiesi, distratta dalla scritta trasloco a caratteri cubitali che mi stava scivolando alta davanti agli occhi, finché anche il furgone su cui capeggiava parcheggiò.

    «Irlanda credo… sì…, Irlanda!» disse sicura.

    Le porte del fuori strada si spalancarono all’unisono, i suoi cinque occupanti si lasciarono scivolare fuori con una grazia che strideva vicino a quel genere di macchina, come in una coreografia.

    «Già, sono tutti leggermente sfumati di rosso...» mormorai allontanandomi dal vetro per spannarlo.

    Le teste ferme accanto al Land Rover sembravano la cartella colori di una tinta rossa per capelli: biondo chiaro ramato, rame acceso, castano ramato, rosso tiziano e rosso mogano erano forse i miei nuovi vicini.

    «Esiste qualche lacca colorata con sfumature metalliche?» chiesi mentre avevo già terminato di mordicchiare ogni pellicina attorno all’unghia del mio pollice.

    Sentii l’indecisione di Barbara nel suo silenzio, se già non mi considerava pazza, doveva mancarci poco.

    «Non saprei. Magari con i brillantini, perché me lo chiedi?»

    «Uhm» borbottai. «Sono strani. Non tutti, ma a qualcuno luccicano i capelli».

    Barbara sospirò come se avesse avuto la risposta pronta sulla punta della lingua, rimasi in attesa di sentirla sparare un’idiozia clamorosa.

    «Lo sai che da Harrods vendono un balsamo con tartufo, polvere di diamanti e frammenti di meteoriti?»

    Abbozzai una risata, il suo tono sicuro mi suggeriva che forse non aveva fatto una battuta.

    «Non capisci» replicai senza staccare gli occhi dal vetro. «Esiste anche con la polvere di stelle?»

    «Una volta, in un parco divertimenti, ho visto lo spettacolo del torneo medievale. Il cavallo bianco di Morgana luccicava al sole, ma erano soltanto brillantini incollati con lacca per capelli» rispose usando il tono di chi sta parlando ad una bambina di cinque anni.

    «Piantala. Io dico sul serio. Questi brillano come se avessero la testa piena di briciole di specchio» sbuffai risentita.

    «Anche io sono seria» brontolò. «E questa roba che vendono da Harrods costa pure una bella cifra. Se davvero se la possono permettere, ti conviene diventarci amica».

    Non riuscivo a staccare gli occhi dal vetro, da quelle figure alte e snelle ferme sulla strada, e da quegli sfavilli che brillavano attorno ai loro movimenti; mi sentivo come Alice mentre cadeva dentro alla conigliera.

    Meravigliata e spaesata, ma pronta ad avventurarmi oltre la porta del giardino.

    Io però al contrario di Alice possedevo un vantaggio, avevo già vissuto talmente tante avventure tra le pagine dei miei libri, che ora ero pronta ad affrontarne una che non fosse fatta solo di carta e inchiostro.

    «…strano trasferirsi in questo periodo!» borbottai per far sentire a Barbara che ero ancora in linea.

    «Perché? Da quando esiste il mese del trasloco?»

    «Beh, la scuola è iniziata da qualche settimana, avrebbero potuto frequentare l’anno scolastico dall’inizio…».

    «Senti, ma non passi mai da Venezia? Mi manchi…».

    «Anche tu Barbarella…, lo sai, è stata colpa del lavoro di mio padre».

    «Già… mi dispiace tanto che vi siate dovuti trasferire…».

    «Anche se, tu lo sai cosa penso… si, riguardo al fatto che mi abbia portata lontano da lì…».

    Quei secondi di pausa sembrarono non finire mai.

    «…lontano dal cuore?» mi chiese in un sussurro timoroso di riaprire una ferita.

    «Non farti riguardo, credo di avere bisogno di affrontare l’argomento senza sotterfugi, parole in codice o segnali ninja. In realtà questi trucchetti mi fanno più male che non parlarne con franchezza».

    Barbara restava in silenzio, non sapeva cosa dirmi.

    Non è sempre facile essere nella parte dell’amica che consola e dà consigli saggi, ma il suo silenzio mi faceva comunque compagnia, mentre mi concentravo sul portellone del furgone che veniva spalancato e la pedana abbassata.

    «In realtà, qui non capita di parlarne. In pochi sanno cosa sia accaduto, ancora non mi conoscono bene, e non ci pensano. A nessuno in questo paese viene mai in mente di domandarmi qualcosa, e io faccio di tutto per non parlarne» mormorai immaginando quello che avrebbe voluto chiedermi.

    «Forse è solo questione di tempo…».

    Il suono di un colpo di clacson cancellò ogni altra parola, lasciandomi immaginare il finale. Sempre lo stesso.

    Quello che non si avverava mai.

    «Dovresti venire a trovarmi qualche volta, non si sta male qui, nella Valle del Sacco, le colline… abbiamo addirittura i pascoli!» squillai con un tono che avrebbe sovrastato i pensieri scuri.

    Nel frattempo i due operai della ditta di traslochi stavano scaricando il furgone, accumulando nel mezzo del vialetto comò, poltrone, comodini, mensole, scatoloni.

    Biondochiaroramato doveva essere il padre, era comunque il più anziano, ma non era vecchio. Se ne stava in piedi controllando con lo sguardo ogni movimento dei suoi oggetti. Accanto a lui Castanoramato chiacchierava senza gestualità.

    Vedevo le bocche di entrambi allargarsi e le spalle sobbalzare come se si stessero raccontando qualcosa di molto divertente.

    Allungai il collo finché non trovai la finestra con la fronte, non capivo dove tenessero la miccia accesa. Doveva trattarsi di quelle spara scintille che si danno ai bambini per l’ultimo dell’anno. O quando, come da dove venivo io, si va al pan e vin e si vede bruciare la befana.

    Faville gialle e rosse sfioravano il ragazzo salendo verso il cielo.

    «Sai, forse uno dei nuovi vicini potrebbe avere la nostra età, chissà se me lo ritroverò a scuola…» mormorai rendendola partecipe di quello che vedevo.

    «Quanti ragazzi sono?»

    «Tre. Credo che uno dei ragazzi e la ragazza siano gemelli, però non l’ho vista bene…, abbastanza per dirti che è bellissima: una cascata di boccoli color rame, sembra una principessa delle favole. Ma è sparita quasi subito dentro casa con la madre e con quell’altro, sarà un altro fratello».

    Poi lui, lui-Castanoramato, si gira.

    Sta dicendo qualcosa a suo padre, ma io così lo vedo bene, e resto fulminata dalla meraviglia.

    Le labbra, sottili e appena increspate. Con le mani nelle tasche si stringeva tra le spalle; sorrideva, ed era accecante.

    Il suo sguardo accendeva di luce tutto ciò su cui si posava, mi sentii come sotto a un riflettore.

    Feci un balzo indietro eppure, anche dalla distanza messa tra me e la finestra, vedevo che continuava a fissare nella mia direzione, come a volermi dire che mi aveva lasciata giocare, e adesso era arrivato il momento di smetterla.

    Crampi di imbarazzo mi attorcigliarono lo stomaco, mentre cercavo di calcolare quante probabilità ci fossero state che lui mi avesse vista. Fu di nuovo la voce di Barbara a richiamarmi alla realtà.

    «Spero che scoprirai presto i loro nomi, non ci ho capito nulla!» ridacchiò. «Ma veramente sono tutti rossi?»

    «Perfettamente in gradazione… troppo fuori luogo per questo posto!»

    La montagna di mobili che era stata accatastata accanto al furgone si ridusse presto in una collinetta, che nel tempo di lavare e riporre la tazza del caffè era sparita.

    «Chiudono lo sportellone, uno dei due è già salito al posto di guida, l’altro sta prendendo una busta da Biondochiaroramato…»

    «Stella, è normale, rilassati. La gente va pagata! Non credo che tu stia assistendo alla consegna di informazioni segrete o a un qualsiasi atto di spionaggio».

    «Non hai capito, i mobili sono solo stati portati appena oltre l’ingresso, e basta! E i traslocatori se ne stanno andando».

    «Sono tre uomini, più che sufficienti per montarli e spostarli, o vuoi andargli a dare una mano? Santo cielo, sembra che tu non abbia mai fatto un trasloco» sbuffò esasperata.

    «O forse ne ho fatti troppi! Ed è per questo che mi urta tanto il solo pensarci! Comunque… sono strani… che meraviglia!»

    Salii in camera, la mia personale torretta di avvistamento. Un’occhiata verso la casa dei nuovi vicini mi deluse: quei tappi alle finestre dovevano essere le schiene di qualche grosso mobile accatastato nei punti peggiori.

    Avrei dovuto trovare un altro modo per sfogare e accontentare la mia curiosità, vagai con lo sguardo dalla finestra alla scrivania, andata e ritorno finché mi convinsi. Da quando Thomas si era offerto di risistemarmi il pc, non avevo più avuto la terribile sensazione che quella diabolica scatola nera, in cui era richiusa tutta la mia storia, mi stesse per dare buca.

    Il rassicurante jingle di avvio riusciva perfino a normalizzarmi il battito del cuore adesso, nella certezza che entro pochi secondi avrei assistito allo schiudersi dello schermo.

    Avviai il solito motore di ricerca, «I.r.l.a.n.d.e.s.i . invio!».

    La prima striscia di immagini ritraeva gruppi di gente, gli irlandesi.

    Tutti vestiti di verde, con certi cappelli cilindrici di velluto che io avrei usato solo per coprire la testa ad un pupazzo di neve.

    In molti portavano finte barbe di peluche, rosse! Come se quelle vere non potessero raggiungere certe tonalità. Internet sembrava suggerire che fossero tutti dei leprechaun, sorrisi a quell’idea assurda, «Invio!».

    La nuova ricerca si aprì con agilità, «Yeats…! Fairy and Folk Tales of the Irish Peasantry »

    « … si dice che sia solito girare come una trottola sulla punta del cappello quando ne trova uno della misura adatta »

    Tamburellai pensierosa, la ricerca della meraviglia mi dava uno scopo, già mi sentivo meglio. Ma mi chiedevo preoccupata se davvero l’idea che i nuovi vicini potessero essere dei leprechaun mi avesse mai sfiorata.

    «No, no» scossi la testa «Meraviglia, non pazzia!».

    Abbassai il coperchio del lap top, decisa a chiudere quelle cinque chiome rosse fuori dalla mia serata con un colpo alla maniglia degli infissi.

    L’aria fresca scarmigliava le punte dritte delle ginestre, sciogliendole nel blu pervinca della sera. Le sagome delle querce e dei castagni lungo la strada si fondevano bagnate dalla notte, contro le colline su cui brillavano centinaia di luci gialle accese di casa in casa: un richiamo per le stelle che iniziavano appena ad affacciarsi, mentre lì giù, quello che splendeva poteva essere solo un cielo sottosopra.

    Qualcosa bucava la notte e si dondolava leggera. Piccola, brillante e scarlatta mi chiesi se una stella avrebbe potuto andarsene in giro tra le nuvole. Un fruscio basso interruppe le mie domande, Castanoramato era in giardino. Non lo avevo previsto.

    La luce ovattata della luna tradiva quei suoi riflessi splendidi, gettandogli addosso una spruzzata color cannella tra le sfumature rubinee che io non riuscivo a smettere di fissare.

    Non potevo spiegarmi come riuscisse a risplendere a quel modo, sapevo solo che più lo guardavo, e meno accettavo l’idea di chiuderlo fuori dalla mia testa.

    Fu solo un movimento della fronte, e la punta del suo mento che si sollevava, a farmi tornare con i piedi per terra. Appena capii che stava alzando lo sguardo, chiusi in fretta la finestra con un gran fracasso.

    Smettila! Sono solo dei vicini, e con loro presto o tardi, si finisce sempre col litigare! mi ripetevo, contando i respiri accelerati.

    Per placare la curiosità e cercare di farmi cogliere dal sonno avevo letto un libro, fino a mattina. La notte era perfetta per viaggiare con la fantasia, non c’era neppure bisogno di accendere le stelle!

    Ma la magia sfogliata tra il sapore di carta e la colla della rilegatura, aveva il suo controeffetto su di me come al solito, la mattina dopo.

    2 La favola, sempre

    Occhiaie, pelle spenta, capelli arruffati.

    Il mio specchio doveva essere una seconda mano appartenuto prima alla regina cattiva di Biancaneve: lui non mentiva mai.

    In quel momento non mi stava esattamente sussurrando che fossi la più bella del reame.

    Rovesciai i cereali nella tazza di latte con una mano, più sul tavolo che non proprio nella tazza, mentre con l’altra cercavo di battere tutti sul tempo con il mio messaggio.

    Un altro anno è passato, accidenti! Ma si vede solo sulla nostra amicizia, mai su di noi. Tanti auguri Barbara! Che le tue stelle possano far avverare ogni desiderio, Buon Compleanno!

    Dopo colazione tornai di sopra, lì c’era il mio bagno. Papà si era preso quello al piano terra, la sua gentilezza non riusciva a cancellare in me il sospetto che temesse per la mia incolumità immaginandomi di notte, in preda a una corsa a gambe strette giù dalle scale.

    Non avevo mai apprezzato quella suddivisione della casa come in quel momento, dalla finestra del bagno al primo piano il nuovo oggetto della mia curiosità era troppo a portata di mano, per riuscire ad ignorarlo.

    I loro infissi già spalancati svelavano delle finestre decisamente più ariose di come le ricordavo dalla notte precedente, i grossi mobili che le avevano schermate erano stati rimossi e pur non riuscendo a vedere oltre, riflessi e ombre in movimento suggerivano come la vita, lì dentro, fosse già in piena attività.

    «Tendine a quadretti?»

    Quell’accostamento panna e carta da zucchero era forse un po’ troppo stile casetta di marzapane. Ma se Hansel e Gretel, che se ne andavano in giro di notte in una foresta davvero poco raccomandabile, non avevano resistito alla tentazione di avvicinarglisi, non trovavo nessuna buona ragione per cui l’avrei dovuto fare io, in un paesino del tutto raccomandabile alle porte di Roma.

    Afferrai la giacca e presi lo zaino mentre ancora non avevo infilato la seconda manica, di fretta come ogni mattina.

    «Io vado a scuola!» urlai all’aria.

    «Vuoi un passaggio? Sto uscendo anche io» mi rispose l’unica voce possibile.

    Camminava lungo il corridoio facendosi scorrere il rasoio elettrico sulle guance.

    Lo esaminai con il mio sguardo più serio.

    «Perché ridi?» chiese nella smorfia con cui tirava la pelle della guancia, nel punto in cui si stava radendo.

    «No, non preoccuparti, preferisco fare due passi finché non farà troppo freddo» gli risposi senza riuscire a scrollarmi di dosso l’immagine di un robottino tagliaerba che gli girava sulla faccia.

    «Mmm» borbottò.

    Non se l’era bevuta.

    «Sembra che abbiamo dei nuovi vicini, li hai visti?» aggiunse.

    «Di sfuggita» mentii mentre fingevo di controllare se nello zaino ci fosse tutto, assecondando quell’improvviso bisogno di nascondergli il mio sguardo.

    «Speriamo che taglino l’erba, quel giardino è una giungla!»

    Per tutta l’estate si era lamentato quasi quotidianamente, sbuffai sperando che non ricominciasse.

    «Beh? Che hai adesso?» mi chiese tra l’irritato e l’angelico.

    Lo guardai di sottecchi, valutando se rispondergli, e far divampare il fuocherello che già gli vedevo ardere negli occhi, o ignorare la domanda e spegnere la sua irritazione. Non riuscii a mordermi la lingua in tempo.

    «Ogni volta in cui di qua si trova un insetto, la colpa è della foresta che si è sviluppata di là, oltre la staccionata. Hai perfino iniziato a prevedere l’arrivo di biacchi e bisce di varia lunghezza» gracchiai allargando le braccia in una misura che non riuscivo a contenere.

    «Non negarlo» lo minacciai con un dito pericolosamente puntato verso di lui. «Anche le zanzare sembrano avere sempre lo stesso mandante! Sai…» continuai in tono più accondiscendente, «magari se ne avessi parlato un po’ più in giro, può essere che avrebbero deciso di venire qui a girare Il libro della giungla , sarebbe di certo stata una location migliore dei teatri del Los Angeles Center Studios!».

    Mi fissava immobile, il gomito alzato e il rasoio in pugno: l’unico punto attorno a lui da cui provenisse un qualsiasi suono, mentre le lame giravano a vuoto.

    Nulla però mi toglieva dalla testa che non fossero i centimetri di erba a disturbarlo troppo, aveva solo bisogno di trovare qualcosa su cui sfogare il peso della nostra situazione, della mia .

    Tirandomi la porta alle spalle scivolai con lo sguardo oltre la staccionata, avrei dovuto sentirmi avvolgere da un caldo umido insopportabile, in una quiete ovattata di piccoli squarci nel sereno.

    Forse Kaa strisciava tra l’erba, o era il passo felpato e zoppo di Shere Khan, che non avrebbe lasciato scampo.

    Scossi la testa, con una sensazione sempre più concreta di aver aperto il libro sbagliato.

    Davanti a me non avevo nessuna giungla, al massimo sarebbe potuto essere il campo da croquet della Regina di Cuori.

    Anche le siepi avevano riacquistato la loro forma diritta, dopo diversi mesi in cui quello era sembrato il giardino dei Barbapapà . Adesso circondavano il prato convergendo in un groviglio ordinato di angoli e strettoie.

    Chi mai poteva desiderare un labirinto in giardino?

    Abbassai subito lo sguardo cercandomi i piedi, quelle sotto alle suole erano ancora le solite mattonelle del nostro vialetto. Sospirai di sollievo.

    «Allora non sono caduta nella tana del Bianconiglio».

    A confronto, il nostro giardino adesso aveva un aspetto trasandato. Appuntai mentalmente di far sparire al più presto i cadaveri dei gerani secchi, deceduti in agosto non avevano ancora ricevuto opportune esequie.

    Mi diressi al cancelletto pedonale, avvertendo la distanza come un naufrago costretto a nuotare contro corrente. I vasetti fioriti sui tre scalini davanti all’ingresso della casa accanto, donavano una certa quiete in quei loro colori pastello, e una classe che gli stavo invidiando.

    Perfino il selciato mi sembrava diverso, eppure quelle case erano state costruite tutte con gli stessi materiali.

    Il nostro conduceva semplicemente dalla porta di casa al cancello, il loro avrebbe potuto portare dal cancello a una favola.

    Sarà stato per i ciottoli chiari e arrotondati, o per la bordatura di lavanda ancora fiorita che indirizzava il vialetto nella giusta direzione, ma avrei scommesso che non fosse mai stato così prima di allora.

    Il numero dieci di Colle delle Querce aveva l’aspetto e il calore di una casa abitata da sempre, eppure tutto ciò era accaduto in una sola notte.

    Scivolai attraverso il cancelletto pedonale, dove mi imbattei in un’altra scoperta.

    Liam O’Gallagher – Tara O’Gallagher, scintillavano in un elegante corsivo inciso su una targhetta dorata.

    Prima strinsi gli occhi in fessura, poi li sgranai lasciandomi abbagliare dall’incredulità: avevo appena scoperto i nomi di Biondochiaroramato e Rossotiziano.

    Appeso al cancelletto dondolava un sonaglio, stecche di legno sbiancato su cui una mano sicura aveva bruciato un "Benvenuto, There is a way to open any door ".

    «C’è sempre un modo per aprire ogni porta…» mormorai.

    Quella frase mi era entrata nella testa con una sua propria voce; mi sentivo come Jean-Francois Champollion davanti alla stele di Rosetta, sul punto di fare la scoperta più incredibile della mia vita.

    Più la sussurravo, e più suonava simile a un buon inizio per una favola.

    There is way to open any door… once upon a time…

    C’era una volta… c’è un modo per aprire ogni porta…

    Il primo passo verso quello che c’è oltre, e la pungente sensazione che una delle due potesse non solo farmi sfogliare le pagine di un libro, ma spalancarmi gli occhi sulla meraviglia.

    Quando il sospetto di essere perforata dallo sguardo di Superman mi costrinse ad alzare la mira, fui abbastanza certa di aver scorto un movimento dietro a una delle tende del piano terra, prima di essere costretta a stringere le palpebre e a coprirmi il viso con le mani a coppa.

    Una sfumatura rossa mi si era impressa negli occhi, prepotente come un raggio di sole dopo aver abituato la vista al buio.

    Mi voltai alla svelta fingendo di togliere dei pelucchi dalla giacca, consapevole di essere di colpo diventata la fotocopia di quell’immagine decantata da mio padre ogni volta in cui assaggiava un bicchiere di Merlot della mia terra.

    Il calice alzato contro la luce e gli occhi luccicanti di emozione, davanti a quel rosso rubino tendente al granato.

    Beccata a spiare per la terza volta in poco tempo!

    Mi incamminai, avvolta nell’imbarazzo e accompagnata dalla spiacevole sensazione di avere ancora almeno un paio d’occhi puntati sulla schiena.

    Quasi correvo, con le orecchie tese aspettandomi di sentire quella porta aprirsi da un istante all’altro e di essere seguita da chiunque avrebbe dovuto raggiungere la scuola.

    O i tonfi del mio cuore e il raspare del fiato in gola coprivano ogni altro rumore di passi, oppure la mia fretta, il cinguettare dei passeri e il richiamo dei merli, erano gli unici suoni in un raggio molto ampio attorno a me.

    Lanciai uno sguardo alle mie spalle con la scusa di aggiustarmi la treccia ma, oltre a due bambini con il grembiule azzurro della scuola primaria, lì dietro non c’era nessun altro.

    Nessun bagliore rosso già sulle tracce della guardona.

    Il petto mi si schiacciò e ne uscì un sospiro che doveva essere di delusione; di mala voglia e molto più lentamente muovevo un piede dopo l’altro, con gli occhi fissi sui lacci delle scarpe da ginnastica, e sulle pozze di umidità raccoltesi durante la notte negli avvallamenti del marciapiede.

    Trovai Angela ad aspettarmi davanti al cancello della scuola, la mia prima amica in quel posto.

    Saltellava da un piede all’altro scrollando le spalle, «Finalmente!» sbuffò sfregandosi le mani una sull’altra «Questa umidità è pazzesca!»

    «Camminiamo un po’, così ti scaldi» le dissi girando la punta di un piede verso il giardino del liceo, e lanciando una rapida occhiata ai gruppetti che lo affollavano «Nessuna faccia nuova oggi?»

    Mi guardò da sotto un sopracciglio ben alzato, in evidente attesa.

    «Dovrebbe?» chiese mentre si sfregava la felpa dai polsi ai gomiti.

    «Ehi ragazze!»

    Al suono di quella voce inconfondibile, calda e squillante, ci voltammo. Lei radiosa come sempre, io con i nervi a fior di pelle.

    Denis si sbracciava come se la distanza che ci divideva fosse stata almeno di venti volte maggiore.

    «Siamo già arrivati tutti» disse rispondendo al nostro sguardo mentre esaminavamo gli zaini in spalla per riconoscere i nostri amici.

    Thomas e Sara, con i quaderni in mano e gli zaini appoggiati sopra ai piedi per non bagnarli, salmodiavano occupati ciò che di meglio si potesse fare per scongiurare l’interrogazione di latino, li fissai avvilita mentre una fitta da presentimento mi pungeva lo stomaco.

    «Igitur initio reges – nam EHI! Ma che modi sono?».

    «Senti Thomas» sbottò Sara senza sforzarsi di dimostrare un briciolo di pazienza, «non abbiamo tutta la mattina per controllare la traduzione» sbuffò sbattendo i piedi e scuotendo la testa, mentre piegava a metà il quaderno di Thomas affiancandolo al suo.

    «Dunque all’inizio i re – poiché…», storse il naso scontenta, «non devono essere troppo simili, o penserà che abbiamo copiato!» sfiatò lasciando ricadere le braccia svenute lungo i fianchi.

    «Copiato?» esclamò Erika, «ti sfido a tradurla con altre parole!» disse minacciando con uno sguardo che esaminò lento ognuno di noi.

    «Dai smettetela, non mi va di parlare già di latino» sbruffò Denis, «Gocciola, iniziamo ad entrare?»

    «Stella?»

    «Uhm?» mi voltai verso Angela.

    «Si può sapere cosa ti prende? Continui a guardarti in giro».

    Mi appoggiò una mano sul braccio spingendomi verso l’ingresso, «Andiamo, o arriveremo in classe in ritardo, lo sai che quella di latino si prepara dietro la porta prima che suoni la campanella».

    Mi lasciai guidare pensando che non ricordavo gli ultimi minuti trascorsi prima di quel momento. La mia missione era stata guardarmi attorno cercando tracce e indizi rossi.

    Oltre a qualche lattina di Coca-Cola schiacciata a terra, diverse scarpe, e alla paletta parcheggiata sotto alla scopa, accanto al banco dei bidelli, non avevo trovato la sfumatura che mi interessava, e non avevo assolutamente idea di che cosa avessero parlato gli altri.

    Denis mi lanciava occhiate sospettose. Speravo che non mi si sarebbe seduto accanto, o mi avrebbe torturata con le sue domande invadenti per tutta la mattina.

    Agganciai il braccio di Angela, dall’ultima rampa di scale si intravvedeva già la testa grigia della signora Fabiani appoggiata allo stipite della porta.

    «Resti con me oggi?» le sussurrai senza distogliere gli occhi che puntavano dritto avanti.

    Angela si voltò stupita, ma sembrò capire quando, seguendo il mio sguardo, andò a colpire la schiena di Denis.

    «Certo» disse accelerando il passo, «Sorpassa!»

    Ci lanciammo sui primi due posti vicini e liberi, Denis si infilò al banco della fila accanto alla nostra; troppo vicino per impedirgli di puntarmi gli occhi addosso, troppo lontano perché tentasse di parlarmi senza rischiare di essere scoperto.

    Per tutta la prima ora il peso di uno sguardo insistente mi scivolò addosso, avevo sempre evitato i suoi occhi, ma in quel momento iniziai a cercarli.

    Ero così infuriata, che anche Medusa avrebbe avuto paura di guardarmi in faccia, e avevo tutta l’intenzione di provare quel nuovo potere che mi induriva lo sguardo.

    Eppure non mi riuscì.

    Sembravamo due calamite con lo stesso polo: io lo fissavo, e lui mi dava le spalle. Tornavo a concentrarmi sulla lavagna, e la spiacevole sensazione di essere spiata mi aggrediva.

    Mi tirai i capelli di lato erigendo una trincea mobile, Angela mi scoccò un paio di occhiate sospettose circondate da un volto disteso e impassibile. Era brava a simulare attenzione, ma io sapevo che si stava preparando a diffidarmi dal persistere nel mio rifiuto di chiarire quella situazione con Denis.

    Lei non aveva mai fatto segreto del suo splendido senso civico, o assurdo modo di pensare: se qualcuno si prendeva una sbandata per me, stando a quanto asseriva, rientrava nelle mie responsabilità civili chiarire la situazione.

    Io non avevo mai avvertito un gran desiderio di essere come la società pretendeva di disegnarmi, non pensavo che una stretta di mano potesse sempre sistemare i sentimenti squilibrati, e preferivo aspettare che l’interesse sfumasse.

    In quel periodo credevo ancora che ogni fuoco, prima o poi è destinato a spegnersi.

    Mi scoccava un’occhiataccia, e sbuffava esasperata.

    Ricaricava lo sguardo di diniego, e prendeva la mira.

    Perfino il dito puntato sulla pagina della versione aveva smesso di scorrere ad ogni parola scandita dalla voce stridula e incerta della signora Fabiani, sfilata da sotto agli occhiali scivolati sulla punta del naso.

    «Vuoi trasformarmi in uno scolapasta? - Smettila, io non ho nulla da dirgli - Mi sta ancora fissando?» bisbigliai concitata.

    «Sta scrivendo» sussurrò, «ora sta lanciando».

    Sgranai gli occhi quando un tocco leggero mi colpì rotolando sul quaderno.

    Con un movimento più rapido di quanto io stessa mi sarei mai creduta capace, schiacciai quella pallina di carta sotto le dita, prima di alzare gli occhi e cercare la posizione della professoressa.

    «…libido atque superbia invasere fortuna simul…» in piedi appoggiata contro la cattedra teneva gli occhi abbassati sul libro delle versioni.

    Distesi il pezzetto di carta con una sola mano, tutto okay?

    «Oh, per l’amor del cielo» sospirai.

    L’avrei voluto far sparire, anche ingoiandolo. Pur di non farmelo trovare addosso, nel caso la signora Fabiani mi avesse perquisita.

    Denis mi fissava con uno sguardo in attesa, sorridendogli alzai il pollice. Speravo che questo gli sarebbe bastato.

    «Meyer! Vuole tradurre per favore?»

    In quel silenzio assoluto riuscivo a pensare solo che il battito del mio cuore era troppo rumoroso, e tutti lo avrebbero sentito.

    Aggrappai le dita alle pagine del libro aperto sul banco, piegavo nervosa un orecchio piantando le unghie nella carta.

    «Allora Meyer? Non sa dove siamo arrivati?»

    La finestra era una lunga striscia di vetro e ferro che tagliava l’intera parete alla mia sinistra, e le nubi si dovevano essere accalcate lì davanti a spiare la mia figura da imbecille; la luce opaca che scivolava nell’aula mi sembrava sempre più spenta, le parole stampate si sformavano fuori fuoco in pozze di buio.

    «Da Nam imperium facile» Angela bisbigliò troppo piano per poter capire, «ultime nove righe!»

    Non alzai la testa per controllare se lo sguardo della signora Fabiani fosse ancora su di me, così come non avevo bisogno di verificarne l’intensità.

    Me lo sentivo addosso in tutta la sua severità.

    E stavo facendo la figura dell’idiota.

    «Poiché… il potere…» ogni parola mi sembrava portare una sorsata acida in bocca «…si conserva con le doti…»

    «Bene, basta così Meyer!»

    Quel comando improvviso mi lasciò nel dubbio, come davanti ad un divieto di accesso comparso senza preavviso all’imbocco di una strada fino ad allora sempre consentita.

    Non riuscivo più a capire se mi stesse guardando, e in quale modo. Strinsi più forte la matita tra le dita, mi sfuggì volando sopra alle teste di due file di compagni come una shuriken, e come una perfetta stella ninja sembrava lanciata verso il nemico.

    Abbassai la testa e mi staccai i capelli dalla fronte prima che ci si appiccicassero, mi asciugai le mani sui jeans, la voce della professoressa si incrinò durante la lettura della traduzione mentre la mia matita atterrava a pochi passi dai suoi piedi.

    Qualcuno mi lanciava delle occhiate di supporto, c’eravamo già passati tutti ma questo non basta a stemperare il furore per l’umiliazione, la maggior parte restava a testa bassa con lo sguardo fisso sul libro.

    Ero abbastanza certa che Denis fosse in attesa di un mio cenno, immaginavo si sentisse piuttosto in colpa, e intendevo farcelo restare ancora a lungo.

    «Appena suona la campanella dell’intervallo vieni con me?»

    Non le diedi il tempo di rispondere, che l’avevo già afferrata per un braccio, e la trascinavo verso la porta, rallentata solo dalla sagoma della signora Fabiani che, se quella fosse stata l’ultima lezione dell’anno, avrei travolto senza rifletterci.

    «Accelera, prima che ci segua anche qui, non lo voglio più vedere per oggi», grugnii con gli occhi fissi alla scala.

    «Stella, ci devi parlare, non puoi mica scappare ogni volta!» cantilenò, senza preoccuparsi di mantenere un tono di voce basso e disinvolto, che mi spinse a stringere la presa attorno al suo braccio. «Anche perché finito l’intervallo sarai comunque costretta a rivederlo» brontolò con un improvviso calo di voce.

    Il mio sguardo vagava da un lato all’altro del corridoio, finché mi ricordai che avrei dovuto dire qualcosa all’amica che stavo trascinando in quella che, me ne ero appena resa conto, era la mia ricerca.

    «Ho provato a tenerlo alla larga», mormorai con la speranza che una volta tanto, la smettesse di voler essere equa e solidale, e prendesse le mie difese.

    L’interesse che lessi nel suo sguardo sembrava però acceso solo dalle fughe rapide dei miei occhi.

    Mentre setacciavo con lo sguardo l’aula che stavamo superando, provai a riportare la sua attenzione su ciò che mi interessava.

    «Ma tecnicamente, non ha fatto nulla per cui io gli potrei dire di lasciarmi perdere, è questa la sua astuzia! Non lo posso accusare di nulla! Sembrerebbe poi che io ho pensato a qualcosa che invece non c’è!»

    «Chi stiamo cercando?»

    Me lo aveva chiesto con un tono spazientito, e continuava a esigerlo con quei suoi occhi vispi che per vederli dovetti voltarmi, guardando qualche metro dietro di me.

    «E non dirmi nessuno, continui ad occhieggiarti attorno!» rimbeccò senza lasciarmi inventare una scusa.

    Mi morsi un labbro, mentre un occhieggiare ripetuto all’infinito mi rimbombava nella testa; e la vidi allargare gli occhi e inarcare le sopracciglia.

    Tic tac tic tac… il tempo a mia disposizione stava scadendo.

    «Okay, ho dei nuovi vicini, ma ancora non li ho conosciuti. E pensavo che forse li avrei potuti trovare qui in giro, i figli, voglio dire…».

    Quando finì anche l’ultima ora richiusi i libri infilandoli nello zaino con una lentezza che sarebbe sembrata sospetta a chiunque. Non sopportavo la calca che si precipitava giù dalle scale, per poi imbottigliarsi davanti al portone nell’atrio, perciò di solito cercavo di anticiparla.

    Ma lo faceva sempre anche Denis; quel giorno avrei provato a cambiare tattica.

    Il risultato fu che uscii dall’aula per penultima, dietro di me solo Denis.

    «Non ti ho ringraziato per prima» borbottai sarcastica, cercando di mostrarmi più arrabbiata di quanto fossi, «Latino!»

    «Siamo una bella squadra, vero?» ammiccò piazzandomi una gomitata in un fianco.

    Avevo già un piede sull’ultimo gradino, la porta della segreteria alla nostra destra, il portone dritto davanti a noi, e sulla sinistra si srotolava il corridoio che portava ai laboratori di scienze, verso la biblioteca e alla palestra. Quello era forse il luogo peggio illuminato della scuola, i neon rimanevano sempre accesi e se l’ingresso e la segreteria erano chiusi nessuna finestra ci gettava una spruzzata di luce.

    Il mio umore pesto si sarebbe dovuto confondere abbastanza con disinvoltura lì dove stavamo, ciò nonostante avevo la sensazione che fosse visibile come i punti neri davanti allo specchio dei camerini nei negozi.

    Alzai gli occhi, cercavo qualche nuova lampada, anche se la traccia brillante della luce che stavo attraversando mi suggeriva l’impossibile: come se una finestra mi si fosse spalancata davanti agli occhi, affacciata su un cielo terso in cui il tramonto iniziava a rovesciare le sue sfumature.

    Come mi aspettavo nessuno aveva aperto nuove finestre nelle pareti, e neppure il sole avrebbe potuto tramontare all’ora di pranzo.

    Stavo affrontando il problema in un modo del tutto errato. Secondo Sherlock Holmes i delitti più banali erano anche quelli più complicati da risolvere, io volevo venire a capo di un enigma che pareva non avere nulla di ragionevole.

    Seguendo il moto dei pensieri, o forse per fuggire a quel brusio concitato che qualcuno alla mia sinistra insisteva a ficcarmi nell’orecchio sopra a cui mi parlava, voltai la testa dalla parte opposta.

    Una sfumatura castanoramata si accese davanti ai miei occhi.

    Mi bloccai come se avessi preso una bastonata in piena testa.

    «Denis, io mi devo fermare un attimo in segreteria, ci vediamo domani» alzai in fretta il braccio per salutarlo, senza lasciargli il tempo di protestare.

    Gli unici lì dentro erano la segretaria, seduta alla sua scrivania, e lui .

    In piedi, appoggiato ad un tavolo rosicchiato, compilava un plico di moduli.

    Mi feci ridare l’orario di ricevimento dei professori, il mio alibi per trovarmi lì.

    «È già il terzo, chissà perché continuo a perderlo» borbottai appoggiando lo zaino su quello stesso tavolo, accanto a lui.

    Alzò appena gli occhi, quel movimento non gli sarebbe bastato neppure per capire chi fosse a stargli davanti.

    Lanciai un’occhiata ai suoi fogli, la complicata domanda di iscrizione con cui anche io avevo avuto a che fare non troppo tempo prima, bruciava di riflessi scarlatti.

    Mi guardai attorno cercando quale fosse l’oggetto capace di spezzare la luce a quel modo, e lo sorpresi a seguire lo stesso percorso su cui stavo spostando lo sguardo.

    «Quella è una seccatura, se vuoi ti posso dare una mano» mi offrii di aiutarlo, ostentando indifferenza e spiandolo di sottecchi.

    Un sospiro spazientito superò addirittura il rumore degli ultimi studenti che si precipitavano all’esterno.

    «No, grazie» disse con una voce calma, piacevole.

    Eppure suonò come un avvertimento a non rivolgergli più la parola.

    «Credo che noi facciamo la stessa strada per andare a casa…» bisbigliai, decisa a non mollare.

    «Preferisco andare da solo. Grazie».

    Il suo tono era rimasto sempre gentile, questa volta fu lo sguardo con cui mi fissò a convincermi ad indietreggiare.

    Non riuscii neppure a cogliere il colore dei suoi occhi, mi bruciai appena provai a guardarli.

    Afferrai lo spallaccio dello zaino con la stessa forza con cui avrei voluto rovesciargli addosso i peggiori insulti, e mormorai un «Ci si vede allora» svignandomela a tentoni e cieca, stropicciandomi gli occhi con la mano libera.

    Camminavo quasi di corsa, un dolore leggero alla parte frontale delle tibie si stava trasformando in qualcosa di più insopportabile.

    Nonostante ciò non rallentai; temevo che il suo passo, più lungo del mio, potesse raggiungermi. Strinsi i denti saltellando ad ogni fitta che mi si conficcava nelle gambe.

    Avevo ancora il fiatone quando aprii il frigorifero, la frescura che ne uscì fu un toccasana momentaneo. Quella sera riuscire ad assemblare una cena per mio padre sarebbe stato difficile come partecipare a una caccia al tesoro.

    «Papà?» dissi rivolta verso il salotto, anche se non ero certa che la mia voce avrebbe potuto superare quella della telecronaca, era già iniziato il derby.

    «Si Stella? Qualcosa non va?»

    Il divano cigolò e un’ombra si era messa davanti allo schermo della televisione e alla luce verde prato con cui colorava la stanza.

    «Domani dopo la scuola mi dovrò fermare a fare la spesa… per questa sera invece…» spalancai lo sportello del frigo rivelando come fosse vuoto.

    «Ordiniamo una pizza, quale vuoi?» risolse il problema.

    Non era stata una cattiva idea farci consegnare le pizze, un po’ meno dover mangiare davanti al derby.

    Nei momenti di tensione mio padre perdeva la capacità di compiere più azioni allo stesso tempo. Di conseguenza, se le necessità gli imponevano di scattare in piedi, tirare lo sguardo, imprecare o stringere i pugni piegandosi in posizione aerodinamica, smetteva di masticare.

    Per quando spinse un braccio allontanando il cartone vuoto da sé, se fossimo stati in un locale ad occupare un tavolo, una cameriera inviperita ci avrebbe già lanciato più di qualche occhiataccia.

    «Uhm?» borbottò di cattivo umore, fissando la bottiglietta di acqua

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1