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L’altra metà dei sogni: In tempore claustri
L’altra metà dei sogni: In tempore claustri
L’altra metà dei sogni: In tempore claustri
E-book296 pagine3 ore

L’altra metà dei sogni: In tempore claustri

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Info su questo ebook

Una emblematica titolazione per una storia di vita vissuta fra due dimensioni: si alternano e si compenetrano, appunto, la dimensione reale e un’altra consimile, ugualmente reale, seppur rievocata e rivissuta in una cornice onirica, parallela ma attraverso le varie sequenze temporali o le diverse e tripartite età (dall’infanzia alla giovinezza, dalla giovinezza alla maturità e dalla maturità alla senilità), che suddividono quella diversa narrazione, consequenzialmente in corsivo. Si avvicendano, pertanto, come già viene evidenziato nella scarna “Introduzione”, due diversi piani narrativi: l’uno – al passato – è impersonale e si svolge nel tempo presente, pur se rammenta anche eventi e accadimenti trascorsi; l’altro – al presente – è in prima persona e si svolge nel tempo passato. Scientemente, tutti i personaggi che agiscono e interagiscono in tale contesto biografico sono di un certo rilievo, morale o intellettuale, e di bell’aspetto: soprattutto il protagonista, Rafaël Spoltri – un accademico di spessore, che subisce e sperimenta il raro fenomeno dell’onironautica, ossia la navigazione cosciente fra i sogni ricorrenti –,  e le tre donne di leggiadra e difforme bellezza, presenti e incombenti in quella tripartizione della sua non avventurosa vita.
LinguaItaliano
Editorela Bussola
Data di uscita1 feb 2024
ISBN9791254744437
L’altra metà dei sogni: In tempore claustri

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    L’altra metà dei sogni - Sergio Prodigo

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    Sergio Prodigo

    L’altra metà

    dei sogni

    In tempore claustri

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    © All rights reserved

    isbn 979-12-5474-443-7

    roma gennaio 2024

    Indice

    Introduzione

    Parte prima

    … dall’infanzia alla giovinezza…

    Parte seconda 92

    … dalla giovinezza alla maturità…

    Parte terza 194

    … dalla maturità alla senilità…

    Sergio Prodigo

    Introduzione

    Un secondo romanzo: ardua l’impresa, specie se non ci si accontenta di elaborare semplicemente il sequel del primo – si potrà fare, forse, quando sarà il momento. Ora si doveva imbastire una trama diversa, legata alla contemporaneità ma meno fantasiosa, senza complotti o intrighi.

    È la storia di una vita vissuta fra due dimensioni, quella reale e un’altra, ugualmente reale, seppur rievocata in una cornice onirica, parallela ma attraverso le varie sequenze temporali o le diverse e tripartite età, che suddividono quella diversa narrazione, consequenzialmente in corsivo. Si tratta di due diversi piani narrativi, appunto: l’uno – al passato – è impersonale e si svolge nel tempo presente, pur se rammenta anche eventi e accadimenti trascorsi; l’altro – al presente – è in prima persona e si svolge nel tempo passato. È stata, sin dal faticoso inizio, una scelta particolare e, per certi versi, fuori dagli stessi schemi di una usuale e naturale cronistoria romanzesca.

    Il tutto è stato elaborato – ma, a tratti, anche subendone il condizionamento – in tempore claustri, ossia durante il secondo lockdown.

    Certamente e scientemente, di nuovo personaggi di un certo rilievo, morale o intellettuale, e di bell’aspetto… un protagonista di spessore, un accademico… donne di leggiadra bellezza: è un limite e va debitamente evidenziato, ma sovente alla fantasia di chi scrive – e anche di chi legge – non si può chiedere di immaginarli diversamente…

    Il rischio che, in base a ciò, prevalesse la fiction, o qualcosa di similare, s’è corso nuovamente, aggravato dalla preponderanza dei dialoghi, che fanno largo uso di puntini di sospensione – tipici del colloquiare reale –, a discapito della stessa esposizione descrittiva, a volte marginalizzata.

    Ed è stata – ancora – una scelta consapevole, come quel latino… che aleggia e incombe, pur senza – si spera – opprimere.

    Null’altro, tuttavia, va anticipato, se non l’obiettiva prevalenza di quegli elementi connaturati al proprio modo di essere e di concepire la vita stessa.

    Parte prima

    … dall’infanzia alla giovinezza…

    Raphaël si destò di scatto: ancora quei sogni! Da tempo ormai si susseguivano senza posa, rivelando e rammentando larghi squarci della sua vita passata, dall’infanzia e dall’adolescenza alla giovinezza e alla maturità. Sempre in coda, tuttavia, dopo la consueta ridda di immagini sfocate e di scenari immaginifici, vivide si svolgevano quelle rappresentazioni, già sepolte nei meandri più remoti della sua memoria. Ma si sentiva presente, partecipe, ben conscio di navigare fra sequenze, fin troppo modulate, di accadimenti ed eventi raffigurati secondo una razionale scia temporale.

    Conosceva l’esatta definizione del fenomeno, onironautica, ma solo sporadicamente l’aveva sperimentato in passato, senza mai rammentarne i contorni. Eppure…

    Sorseggiò dal thermos il caffelatte, diligentemente preparato – come sempre – la sera prima, accarezzando distrattamente la liscia peluria del suo gatto certosino, già balzato sul letto e in paziente attesa del pasto mattutino. Annotò sul taccuino i tratti salienti dell’ultimo sogno, poi s’alzò con indolenza, indossò l’ormai logora vestaglia cremisi e adempì a quel sacro e rituale dovere. Uscì sull’ampio terrazzo che circondava l’attico della sua dimora romana, un antico palazzo liberty nel quartiere Prati, e s’accese la prima sigaretta, per meglio riflettere e ragionare su quanto rievocato.

    Rabbrividì: l’aria del tardo autunno era quasi pungente ma stranamente tersa. Si sporse appena dal muretto, scostando la fitta trama della bouganville ancora ricca di fiori violacei, e gettò un fugace sguardo sull’ampio viale sottostante e sulle alberate strade laterali. C’era poco traffico e pochissima gente in giro, certamente a causa della maligna infezione, che imperversava dai primi mesi del 2020. Il tutto era desolante e deprimente e forse strideva con la ricca sovrabbondanza di fiori tardivi e piante multicolori, che ornavano l’intero perimetro del terrazzo. Con rassegnazione e sempre con la stessa indolenza lo percorse più volte, com’era sua abitudine, vanificando la salubrità del moto con lunghe sbuffate di fumo, ma dopo appena mezz’ora rientrò in casa.

    Più tardi, vestito di tutto punto, nella quieta solitudine del suo studio, sovraccarico di tomi e di libri disordinatamente stipati nei massicci scaffali di mogano, disposti lungo tutte le pareti, iniziò a riordinare quegli appunti sparsi e annotati su vari taccuini. Quel che più lo stupiva e, al tempo stesso, l’inquietava era una sorta di narrazione cronologica, quasi l’inconscio avesse riportato ordine negli avvenimenti più salienti e remoti della sua vita: intere sequenze, ricche di particolari e di precisi riferimenti, eventi, conversazioni e accadimenti vari ai quali partecipava (o aveva partecipato) attivamente come un improvvisato onironauta.

    Indugiò a lungo su quelle carte, vergate con una grafia non di rado indecifrabile, poi s’impose quasi a fatica di dedicarsi ad altri appunti: ai contenuti dell’ultima lezione, che in tarda mattinata avrebbe tenuto – rigorosamente online – agli studenti del suo corso universitario.

    Professore emerito di Letteratura latina, Raphaël Spoltri, dopo il virtuale pensionamento, aveva continuato a svolgere con maggiore entusiasmo e dedizione un’intensa attività didattica: il legame con il mondo accademico, con i suoi studi e le sue ricerche era inscindibile, insostituibile e necessario, perché potesse ancora rinvenire possibili motivazioni al naturale crepuscolo di un’esistenza declinante.

    Fissò per qualche istante lo schermo opaco del computer: riflesse la lucidità del cranio e i tratti di un volto appesantito dagli anni, dal fumo e da non rari stravizi alimentari, quasi l’iconica immagine di un sacerdote egizio. Sospirò, non immemore della perduta prestanza, e cercò di concentrarsi sul testo che aveva scelto di analizzare e commentare a beneficio dei suoi laureandi, il Somnium Scipionis di Cicerone.

    Di là dai contenuti filosofici e politici, quell’opera gli sembrava – a ogni rilettura – che disvelasse la percezione di una realtà possibile, forse alternativa e al tempo stesso profetica ma tormentata dal dubbio esistenziale: quoniam haec est vita… quid moror in terris? Ci aveva pensato spesso, specie dopo quei sogni che, tuttavia, nulla avevano di profetico o di alternativo alla realtà, anzi ne edulcoravano i contorni. Perché, dunque, attardarsi ancora a vivere su questa terra, se quella era la vita? Come Scipione, era partecipe della finzione onirica, ma non v’erano avi che gli potessero preannunciare il futuro o disquisissero di questioni cosmologiche. Tra l’altro, non erano finzioni ma rappresentazioni fedeli di ampi e articolati episodi già vissuti…

    Lasciò che i suoi pensieri vagassero nella vana ricerca di razionali spiegazioni e particolari connessioni: dannato Cicerone! e dannato anche quel Macrobio, l’oscuro grammatico della tarda latinità, che aveva salvato il Somnium dall’oblio! Eppure – considerò con più raziocinio –, proprio il primo lucido sogno s’era palesato contemporaneamente all’inopinata e casuale scelta di dedicare il corso a quell’opera… Oppure era avvenuto il contrario?… Irritato e contrariato, preferì rovistare nuovamente fra gli appunti alla ricerca delle sue prime annotazioni, provando a trascriverli al computer con maggior ordine e logica espositiva.

    Un’ampia stanza, ben arredata, le alte pareti dipinte a olio, le travi massicce del soffitto, un altro letto – più grande – a fianco, due alti comodini e un armadio a quattro ante di noce massiccia: avverto un rumore di passi e lo schiudersi della porta.

    «Sei sveglio, Raphaël?».

    La voce di mia madre! La vedo entrare, avvolta da una pesante vestaglia celeste: i suoi lunghi capelli biondi, la dolcezza di un volto grazioso e armonioso, ancora nel fiore degli anni, e il suo antico profumo! Nadine…

    «Sì…» balbetto.

    «Dobbiamo prepararci, mon trésor…» soggiunge lei sorridendo. «Le tue sorelle sono già pronte… anche tuo padre… stanno facendo colazione… Oggi è un giorno speciale… per te!».

    «Perché?».

    «È il tuo primo giorno di scuola! Il tuo grembiule è già pronto…» continua lei, uscendo dalla stanza. «Vedrai come ti starà bene!».

    Mi alzo dal letto e la seguo. Riconosco gli ambienti della casa paterna, non disadorni ma sovrabbondanti di mobili e soprammobili: tutto, tuttavia, mi sembra più ampio, ma forse è diversa la prospettiva. Così anche la cucina, surriscaldata da un’antica stufa di maiolica: una smisurata credenza in cipresso, sovraccarica di piatti e vasellame ben visibili dai vetri trasparenti delle sei ante superiori, occupa un’intera parete, ma il vetusto tavolo di radica, posto al centro dello stanzone, non sfigura dinnanzi a tanta mole. Quella bizzarra combinazione di stili mi ha sempre affascinato, come i paioli di rame appesi quasi a casaccio alle pareti…

    «Siediti, Raphaël!».

    Il solito tono imperioso della voce di mio padre: subisco il suo sguardo accigliato, espressione abituale di un volto austero dai lineamenti marcati e appesantiti da folte basette, baffi a fiammifero e capelli neri impomatati.

    Prendo posto in mezzo alle due mie sorelle maggiori, Geneviève e Arlette, bionde e leggiadre: mi sorridono e, quasi a stemperare quel burbero richiamo, mi baciano all’unisono sulla guancia. Rinfrancato, mi dedico a svuotare una scodella ricolma di latte e pane abbrustolito.

    Un breve lasso di tempo e mi ritrovo a percorrere, aggrappato alla mano di mia madre, le anguste vie e le ripide scalinate del centro storico di Narni, la mia città natale, infino all’atrio del grande edificio scolastico, ancora segnato dalle ferite della guerra. Trepido, assieme ad altre decine di bambini, nell’attesa di varcarne la soglia.

    Interruppe di colpo la discontinua lettura e la trascrizione di quei fogli e chiuse gli occhi, per meglio rammentare le sembianze dei suoi familiari…

    Per prima maman, come amava farsi chiamare: l’aveva vista sfiorire nel corso degli anni, seppur inalterata si conservava l’incantevole e civettuola leggerezza dei tratti e, soprattutto, dei modi espressivi, forse frutto di una giovinezza trascorsa sui palcoscenici di mezzo mondo. Era stata una cantante lirica, mai assurta a livelli di primo piano ma ottima comprimaria. Più volte aveva ascoltato da suo padre l’edulcorata narrazione del loro incontro e della romantica e appassionante relazione.

    Era il febbraio del 1940, solo due mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia: il giovane Riccardo Spoltri aveva da poco completato gli studi di giurisprudenza a Roma e, prima di lasciare la città eterna e di far ritorno a Narni per insediarsi nello studio legale di famiglia, s’era concesso – di là dalle sue abituali e più frivole frequentazioni – una serata di gala al Teatro Reale dell’Opera per una delle repliche della Bohème, diretta da Oliviero de Fabritiis. Nel ruolo di Musetta, Nadine…

    Al suo ingresso, nel secondo atto, s’era improvvisamente destato dal torpore che l’aveva già avvinto, nonostante la scena e la musica raffigurassero l’atmosfera festaiola del Quartiere latino. Sporgendosi oltre misura da un palco laterale, aveva fissato rapito quella graziosa creatura che bistrattava il povero Alcindoro e, di seguito, intonava quando m’en vo’ soletta per la via… Fino al quarto atto non aveva avuto occhi che per lei, senza curarsi del dramma di Mimì morente, ma beandosi solo, alla fine dell’opera, della straziante prece che Musetta rivolge alla Madonna benedetta

    Aveva atteso a lungo, poi, ch’ella uscisse dal teatro e, con un’abile manovra, era riuscito ad avvicinarla, esternandole con indomito coraggio – in un francese scolastico e raffazzonato – tutta la sua ammirazione. Nadine, con un disarmante sorriso, aveva accettato – in corretto italiano – l’invito a cena che quel bel giovane alto e bruno timidamente le proponeva. Si rividero nei giorni seguenti e divampò la passione…

    Ai primi di marzo Nadine lo seguì a Narni e non fece più ritorno a Nîmes, la sua città d’origine: convolarono a giuste nozze in tarda primavera, ma in autunno Riccardo, improvvisato ufficiale di artiglieria nella disorganizzata IX Armata, fu inviato sul fronte greco. Ferito seriamente alle gambe per lo scoppio di una granata sui monti dell’Epiro, a fine dicembre poté tornare a casa per una lunga convalescenza e, non più idoneo per altre avventure e imprese belliche, riprese a occuparsi di beghe, liti e querele, mentre Nadine dava alla luce la primogenita Geneviève. Seguì, a distanza di un anno, Arlette, ma l’attesa per l’erede maschio durò a lungo, quanto e oltre la guerra, fino alla promulgazione della Costituzione repubblicana.

    Raphaël s’era quasi assopito, mentre vagava fra i ricordi di quelle vicissitudini e traversie familiari, da sempre impresse nella sua memoria, frutto di squarci di vita vissuta e di discontinue narrazioni, intese a più riprese proprio in quell’ambito.

    La figura materna si sovrapponeva ad altre immagini, quasi riflessa, tuttavia, nelle delicate e raffinate sembianze dei volti adolescenziali delle due sorelle: ella aveva lasciato il teatro per amore e s’era confinata durante i duri anni della guerra in quell’antico palazzo della cittadina umbra, recidendo altri affetti e altri legami, ma dedicandosi all’educazione dei figli – ai quali aveva imposto nomi francesi – e all’insegnamento del canto.

    Pochi istanti di subitanee rievocazioni, nelle quali il tempo sembrava contrarsi: di contro, già in quel primo sogno lo spazio temporale s’era dilatato, acquisendo la spazialità originaria.

    Si scosse e riprese la faticosa decifrazione degli appunti…

    Mi trovo in un’aula grande e disadorna, dalle pareti frettolosamente ridipinte a olio, per mascherare crepe e incrinature, ma abbellite dai cartelloni delle lettere dell’alfabeto, disposti in fila e raffiguranti oggetti e animali, e da colorate e pre-belliche carte geografiche. Sono seduto su un banco di legno biposto, quel costrittivo monoblocco dal ripiano inclinato e munito di spazi e buchi per la penna e il calamaio: accanto a me Gino, l’amico del cuore, e tutt’intorno i passati e trapassati compagni di scuola. Ne posso scrutare e riconoscere i volti infantili, associandoli sia alle famiglie dei notabili, abituali e occasionali clienti dello studio paterno, sia ad altri nuclei familiari di più umili origini. Tutti timorosi, sotto lo sguardo vigile e severo del maestro: alto, segaligno e calvo, brandisce dalla cattedra una lunga bacchetta di legno e già preannuncia di usarla per imporre studio costante, rapido apprendimento e ferrea disciplina.

    Trascorro l’intera mattinata a tracciare malamente sul quaderno a righe aste verticali, orizzontali e oblique, pur se già so scrivere e leggere, nonostante abbia compiuto solo da pochi giorni cinque anni, frutto delle amorevoli cure di maman che – tra l’altro – ha voluto che, sin da piccolo, imparassi a esprimermi anche in francese.

    Stanco di imbrattare i fogli con linee tremolanti e discontinue e di doverne mitigare gli sbuffi con la carta assorbente, traccio senza altri indugi direttamente alcune lettere dell’alfabeto. Lo nota il maestro, mentre s’aggira fra le file dei banchi per osservare, correggere e redarguire.

    «Molto bene, Raphaël!» esclama, prendendo in mano il quaderno. «Vai alla lavagna, allora, e riscrivi per bene e in maiuscolo tutte le lettere che conosci! E voi», soggiunge, rivolgendosi alla classe, «cercate almeno di imitarlo!».

    Interruppe bruscamente quell’improba fatica, per meglio rovistare fra i ricordi. Era cominciato proprio così il suo calvario da primo della classe! Dal quel fatidico primo ottobre del 1953, sempre inviso ai compagni, tranne alcune eccezioni, additato come secchione e cocco del maestro, aveva vissuto per anni quella sorta di obbligo morale alla stregua di una condanna.

    Scorse velocemente le frettolose note, vergate al risveglio, degli altri sogni accumulati notte dopo notte, cercando ancora di ordinarle con più cura. Inizialmente s’erano susseguiti e affastellati con esasperante lentezza e con dovizie di particolari i momenti più esaltanti e, al tempo stesso, più deprimenti dell’intero ciclo della scuola elementare. I temi, soprattutto: li componeva e li svolgeva con estrema scioltezza, ma in gran parte non erano altro che il frutto di estenuanti e appassionate letture. A casa, rannicchiato in un cantuccio dell’ampio salone, Raphaël divorava i romanzi illustrati di Jules Verne e di Alexandre Dumas, imparava a memoria le poesie di Angelo Silvio Novaro e di Giovanni Pascoli, mentre ascoltava – non senza fastidio – i vocalizzi e le Arie antiche, che maman insegnava a svogliate fanciulle di buona famiglia. Così si formava e si adattava a quei temi un lessico variegato, forse privo di originalità e mutuato dalle descrizioni romanzesche o da espressioni poetiche barocche e decadentiste; poi lo riversava con ingenua noncuranza su altri più banali argomenti, suscitando sempre – ma ne era cosciente e voglioso – lo stupore del maestro, che correva dal direttore a mostrare l’ennesimo capolavoro letterario del suo discepolo prediletto. L’estro si esauriva, tuttavia, ogni qual volta doveva misurarsi con i numeri, con le figure geometriche e con quegli idioti problemi di compravendita, di rubinetti che gocciolavano, di mele e pere da sommare e di quant’altro supponesse quella retriva, seppur formativa, prassi didattica. Si esaltava, di contro, quando poteva discettare – pur nei limiti dei programmi – di letteratura e di storia, poiché il bilinguismo forzato l’aveva allenato a esprimersi con scioltezza e con precoce proprietà di linguaggio. Le sue mani non avevano mai ricevuto l’onta delle bacchettate che, invece, il maestro dispensava non senza recondito piacere a molti dei suoi compagni non in grado, per lo più, di articolare frasi e concetti nell’idioma patrio e di discernerli dalle espressioni dialettali.

    Sorrise a quegli altri ricordi, così vivificati dagli stessi sogni ricorrenti e incombenti, ma anche il dovere incombeva. Quasi con fastidio s’accinse a dispensare i lumi della sua cultura latina, assolvendo appunto l’ultima incombenza a beneficio dei suoi studenti, che vedeva attenti e assorti nei riquadri dello schermo. Brillante come sempre la sua dissertazione, non priva di frequenti digressioni, specie nell’illustrare la finale polemica ciceroniana contro l’epicureismo. Ne smontò abilmente le argomentazioni, come degno e convinto erede di quella tradizione che non disdegnava libidines e voluptates, commentando a suo modo i travagli e i transiti generazionali dell’anima.

    Terminata la lezione, Raphaël si alzò quasi di scatto, guadagnò rapidamente la sala da pranzo e s’immerse nei piaceri della tavola, generosamente imbandita dalla sua fida governante.

    Nel tardo pomeriggio, dopo un gratificante pisolino, riprese con più lena letture e trascrizioni.

    L’esame finale di quinta elementare: sto svolgendo il tema dell’addio alla scuola primaria, infarcendolo di edulcorate frasi deamicisiane, modificate a bella posta per stupire e commuovere. Lo svolgimento, direttamente in bella copia, procede senza intoppi, quasi segua un tracciato forse elaborato in precedenza: scrivo con estrema scioltezza e in cuor mio già pregusto l’effetto, che i mirati voli pindarici, le velate fantasie narrative di materna ascendenza e le retoriche reminiscenze dei momenti più salienti del lungo percorso scolastico, il tutto a corredo di un periodare ben congeniato, avrebbero sortito sulla commissione. L’esame stesso rappresenta, in fondo, il fatidico distacco dall’età infantile, proiettata verso la dimensione adolescenziale: così, nella susseguente e brillante prova orale, sto dando sfoggio di una capacità affabulatoria ancora in fieri, ma che si sarebbe sviluppata a dismisura nel corso degli anni, segno distintivo dei

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