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Mauro
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E-book450 pagine6 ore

Mauro

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Il libro nasce fondamentalmente come un diario minimo o forse – per non fare torto ad Umberto Eco – semi-minimo, in cui attraverso dei racconti, estratti quasi accidentalmente da “il secchio dei ricordi tirato su dal pozzo della memoria”, si narra non solo dell’autore ma anche dei luoghi e delle persone che hanno scritto la storia quotidiana di una parte così vicina, ma contemporaneamente così lontana del nostro paese: Gorizia e il suo territorio, città di confine passata più volte- nel corso del secolo breve – dall’esaltazione alla polvere. Apparentemente nulla di originale; tuttavia, già dalla lettura dei primi episodi, emergono con forza la personalità, gli ideali e i principi etici dell’autore-protagonista che costituiscono non solo oggetto di confronto e riflessione ma – come si capirà alla fine del viaggio – un tentativo di mettere a nudo il proprio io. Il risultato è pertanto qualcosa di ben più articolato di un diario, con esiti forse inattesi anche per lo stesso autore: infatti le situazioni, le persone e i pensieri narrati suscitano un’immediata identificazione da parte del lettore, avendo in sé qualcosa di universalmente noto ed in ogni caso tale da fare uscire la narrazione da una dimensione localistica. Della serie: è successo a Gorizia, ma avrebbe potuto succedere a chiunque, dovunque. Inoltre se l’unico fine davvero premeditato è quello di indurre al sorriso – e, da questo punto di vista, l’obiettivo è sicuramente raggiunto, a volte con picchi di comicità esilaranti altre con sottile e tagliente ironia - nella bramosa ricerca della descrizione o della battuta deflagrante ci si rende ben presto conto dell’esistenza di un vero e proprio plot narrativo che riesce a far vivere di luce propria i singoli racconti. In altre parole si percepisce di non avere davanti un libro di storielle spiritose o una sorta di antologia del sollazzo.
I racconti corrono veloci, con un ritmo incalzante, tra piccole gag degne del miglior cabaret di un tempo – una fra le tante, le tragicomiche vicende dell’autore ritrovatosi, al temine di una cena conviviale, da solo, nella notte, in mezzo alla campagna vestito da donna - alla satira affilata sull’establishment - ad esempio l’episodio del canto “goliardico” durante un viaggio improntato all’estrema serietà (e cupezza) di fronte ad una platea di “intellettuali” locali - fino ad episodi di cronaca storica, forse a i più sconosciuti, come quello che nell’autunno del ‘53 vide l’esercito italiano schierarsi in assetto bellico a Gorizia, costruendo trincee, montando cavali di frisia, posizionando pezzi d’artiglieria e mezzi corazzati, in una folle quanto stolida esibizione di potenza a nemmeno dieci anni dal termine dell’ultimo catastrofico conflitto mondiale.
Naturalmente sempre e comunque accompagnati da quell’ironia – elemento centrale del libro - che, come diceva Wittgenstein, non è una mera disposizione dell’animo, bensì una visione del mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2014
ISBN9786050331158
Mauro

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    Anteprima del libro

    Mauro - Mauro Mazzoni

    Mauro

    Mauro Mazzoni

    MAURO 

    Cronache semiserie da una città di confine

    
Disegni: Bruno Crocetti

    In copertina: rielaborazione personale da immagine fotografica di Bambino con Arlecchino di Abrham Mintchine (1898-1931)

    L’autore è a disposizione degli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte.

    Ottobre 2014

    Prefazione

    Con questa opera fatta di racconti, prevalentemente autobiografici, estratti quasi accidentalmente da […] il secchio dei ricordi tirato su dal pozzo della memoria […] Mauro Mazzoni si ritrova ad affrontare un vero caso di serendipità.

    Possedendo l’innata dote del narrare e giungendogli da più parti la sollecitazione a riportare in forma scritta le proprie cronache di vita vissuta, spesso solo raccontate in maniera tragicomica nei contesti più disparati, l’autore ha intrapreso - circa due anni fa - la stesura di ciò che nella sua idea primigenia doveva essere un libro di memorie.

    Fin qui nulla di straordinario, anzi un esercizio forse inflazionato e a rischio di oblio in una pletora di opere simili; tuttavia, già dalla lettura dei primi episodi emergono con forza la personalità, gli ideali e i principi etici dell’autore-protagonista che costituiscono non solo oggetto ineludibile di confronto e riflessione ma – come si capirà alla fine del viaggio – un tentativo di mettere a nudo il proprio io, ricercando e in parte ritrovando alcuni degli archetipi dell’uomo contemporaneo.

    Il risultato è pertanto qualcosa ben più articolato di un diario minimo (o meglio semi-minimo, per non fare torto ad Umberto Eco), con esiti forse inattesi anche per lo stesso autore (e probabilmente anche per il lettore).

    Infatti l’unico fine davvero premeditato e in qualche modo dichiarato - e non potrebbe essere diversamente, conoscendo Mauro - è quello di indurre al sorriso; indiscutibilmente, da questo punto di vista, l’obiettivo è sicuramente raggiunto, a volte con picchi di comicità esilaranti altre con sottile e tagliente ironia. Tuttavia, nella bramosa ricerca della descrizione o della battuta deflagrante, il lettore attento non potrà non rimanere avvinto dal plot narrativo che, per i fatti e le circostanze descritte, riesce quasi a far vivere di luce – pardon - di trama propria i singoli racconti. In altre parole si percepisce di non avere davanti un libro di storielle spiritose o una sorta di antologia del sollazzo.

    Quindi un diario che non è strettamente un diario, un testo apparentemente leggero che non è affatto privo di contenuti e di idee: queste, quando sono espresse, non hanno mai velleità didascaliche ed anzi possono comunque ricondurre ai grandi temi, se non addirittura ai dilemmi esistenziali, propri del secolo breve. Ecco quindi la prima inaspettata uscita di strada.

    Proseguendo, il medesimo lettore appena un po’ meno disimpegnato scoprirà facilmente anche altri piani di lettura che, se non altro, contribuiscono a fare uscire la narrazione da una matrice tipicamente locale o localistica, sebbene i riferimenti e il lessico usati tradiscano questa originaria idea: i personaggi che diventano di volta in volta coprotagonisti sono persone comuni – ma mai banali - che rispecchiano, con il loro agire e sentire, un contesto storico, sociale e culturale conosciuto, quasi familiare, rendendo così ancora più spontaneo – quasi a livello inconscio – il processo di immedesimazione. Anche la mera cronaca di alcuni avvenimenti drammatici, ricordati attraverso l’esperienza dei genitori o dei fratelli, riletta in un contesto del tutto particolare come quello di Gorizia – città simbolo della retorica nazionalista prima e città divisa dopo l’epilogo del fascismo – fa intendere che nulla può essere dato per scontato e ricondotto linearmente a quanto appreso da generici manuali di storia. Certo il libro non ha né mai potrebbe avere la pretesa di essere noverato come romanzo storico; tuttavia fornisce al lettore - specie se non è di queste terre - un impulso all’approfondimento su fatti e situazioni quanto meno poco note. In ogni caso ciò che colpisce è la chiarezza con cui Mauro articola il suo pensiero e le sue convinzioni, arrivando più volte a sostenere che la diversità – culturale e linguistica in particolare - è ricchezza, è bellezza da coltivare, condividere e rispettare.

    Per capire meglio tale concetto, vale la pena citare un episodio fra i tanti: nell’autunno del 1953 l’esercito italiano si schiera in assetto bellico in città, costruendo trincee, montando cavali di frisia, posizionando pezzi d’artiglieria e mezzi corazzati, in una folle quanto stolida esibizione di potenza a nemmeno dieci anni dal termine dell’ultimo catastrofico conflitto mondiale. E tutto ciò mentre il mondo reale - la città in questo caso – continua la sua vita di ogni giorno, in uno scenario diventato surreale non-luogo di un’Italia che si sta preparando al suo più fulgido periodo di prosperità economica e sociale della sua storia recente.

    Infine una breve riflessione sullo stile usato: i periodi e la sintattica – tutt’altro che conformi a degli stilemi classici - contribuiscono a far materializzare davanti i nostri occhi il narratore nell’atto del racconto e a fondere indistintamente i diversi filoni narrativi in un vero e proprio stream of consciousness che travolge e avvince il lettore (e a volte anche l’autore, per dirla tutta).

    Tutto questo – specie per chi conosce Mauro - non può essere pertanto stato ideato a tavolino: ci piace invece pensare che il libro abbia conosciuto una sorta di auto-genesi e che l’autore, guidato dalla propria musa, abbia plasmato il flusso dei ricordi di getto, a caldo, così come di volta in volta questi riemergevano dal pozzo della memoria. Ciò che però alla fine la montagna partorisce non è un misero topolino, bensì un’opera aperta, tale da meritare più di una lettura e una disincantata riflessione su quali siano le cose per le quali valga la pena vivere.

    Naturalmente sempre accompagnati da quell’ironia – elemento centrale del libro e forse anche di questa prolusione - che, come diceva Wittgenstein, non è una mera disposizione dell’animo, bensì una visione del mondo.

    A.B. - Ottobre 2014

    A Pierina

    Sa lei perché

    Nella mia vita non ebbi mai la necessità di traslocare. Nato al numero civico 8, vissuto da ragazzo nel numero 6, sposato nel numero 2 e poi ritornato a vivere nel numero 6 della stessa via - M.M. - MM

    Diffidate da chi si prende sempre e solo troppo sul serio: è solo una persona in preda alla propria aridità - A.B.

    Scuola elementare

    …..se devo proprio incominciare, allora lo faccio dalla scuola. 

    I primi ricordi che riemergono dalle nebbie della memoria sono quelli dei cinque anni di scuola elementare. Anni difficili e allo stesso tempo, come per tutti i ragazzi di quella età, splendidi.

    Il primo giorno accompagnati dal genitore, poi basta. A piedi con qualsiasi tempo. Caldo o freddo l’abbigliamento era sempre lo stesso. Pantaloni esclusivamente corti. Grembiule nero. Per noi maschi con le righe sulla spalla a indicare l’anno scolastico. Quel segno era distinzione categorica. Una riga in più voleva dire diversificazione e separazione. Eravamo così tanti che un anno di età faceva davvero la differenza. Il nostro anno era trattato da nullità da quelli più vecchi e noi trattavamo da nullità quelli più giovani. Incominciava subito la lotta. L’arrangiarsi e il districarsi in quella marea di gioventù. L’esame continuo della vita incominciava fuori da casa, sulla strada e a scuola.

    Di questo periodo vado a ricordare, con simpatia e rimpianto, alcuni momenti. Questi episodi rispecchiano il mio allora carattere acerbo, ma che già aveva i tratti di quello che, forse inevitabilmente, sarei finto con il diventare: un discoletto.

    Eravamo in seconda elementare, scuola mista ma con classi di soli maschi. L’insegnante era una donna: maestra sì, ma forse anche nostra seconda mamma. Di noi conosceva tutto. Sapeva come trattarci e come bloccare sul nascere le nostre intemperanze. L’esperienza le permetteva di conoscere, già subito, il nostro destino scolastico. Sapeva benissimo dove dovevamo andare e dove saremmo arrivati. Le sue valutazioni erano, naturalmente, già a conoscenza dei nostri genitori che, nei loro limiti, cercavano di tamponare una falla già ben aperta. Forse per questo aspetto, in determinati momenti, la riconoscenza dei genitori nei confronti dell’insegnate era proporzionata alla fatica di quest’ultima nel gestire l’alunno. Per i miei genitori, che ben conoscevano la bestia, bisognava dimostrare, con un pensiero tangibile, la stima nei suoi confronti.

    Natale. Anzi prossimità del Natale. Mia madre andò a prendere - cosa che mai avevo visto prima - un’orchidea. Fiore splendido, sconosciuto, originario di mondi lontani, fiabeschi, raccontato nelle cronache di naviganti o da pirati, che parlavano di abbordaggi, draghi, personaggi immortali.

    Nei colori, poi, si trovavano sfumature mai viste prima; nella forma, nell’eleganza, tutto era misterioso e affascinante. Tutti questi commenti e collegate fantasie erano espresse per lo più dai miei fratelli perché io puntavo già ad altro. Attorno al tavolo, la sera quando mia madre tornò dal lavoro, eravamo tutti intenti ad osservare questa meraviglia. Però…a me non il fiore, non i colori, non il nome lasciava esterrefatto, bensì il contenitore. Scatola trasparente di plastica. Una meraviglia. Vedevo già là dentro tutti i miei giochi: le biglie di vetro e quelle di terracotta (pegno delle sconfitte!), i tappi a corona delle bottiglie con i nomi dei corridori del ciclismo, con le varie nazionali, con i percorsi che si modificavano ogni giorno come tappe di un fantastico giro o tour, i sorpassi effettuati con l’effetto dato tappo per superare l’avversario che era, come sempre, un campione straordinario, leggendario e con quel sorpasso si passava non un tappo ma un campione arrancante su una famosa salita, poi il ferro della pirola, la fionda, le figurine di animali o giocatori e tutto quel poco, ma tanto che avevamo. In una scatola trasparente si vedeva e si trovava tutto senza aprirla. Avrei lasciato tutto per quella scatola. Per me quello era il vero regalo da custodire gelosamente.

    Ma quel dono non era per me. Anzi era una sorta di risarcimento per tutto quello che avevo causato: confusione, disubbidienza, negligenza. Per tutto questo l’orchidea era quello che ci voleva. Il fiore era decisamente proporzionato al trambusto arrecato.

    Alla mattina, dopo aver ripassato più volte la filastrocca che dovevo dire alla maestra, le prometto che mi comporterò meglio, che studierò e non darò fastidio ai miei compagni - frase che dopo cinque minuti mi sarei sicuramente rimangiato – andai come sempre a piedi a scuola, con la confezione nella mano e continuando a ripetere la poesia come una litania. Finita la lezione, prima delle vacanze, tutti in fila a portare, o meglio offrire, il pensiero personale. Io come altri in fila, emozionato per quello che dovevo dire e per quello che andavo a dare. Arrivò il mio turno. Dissi quello che dovevo, o almeno penso, vista ancora l’attuale difficoltà del recitare cose d’altri a memoria. La maestra prese il pensiero, ringraziò i miei genitori e mi salutò. A quel punto, però, il mio estro prese il sopravvento facendomi dire quello che non avrei dovuto dire, un’aggiunta che non mi ero preparato e che non c’entrava nulla, anzi. Signora maestra, la se la tegni da conto perché costa un mucio. Signora maestra, la tenga da conto perché costa tanto.

    Arrivato a casa, come era prevedibile, i miei genitori mi chiesero se il pensiero era stato gradito e apprezzato. Dissi di sì e, ingenuamente come sempre, dissi anche quello che avevo aggiunto alla mia poesia. Anche quel giorno mi presi la mia buona rata di un mucio, ma non di carezze.

    La seconda elementare, forse per il fatto che in prima dovevo ambientarmi, fu un anno molto proficuo in quanto a distinzione. Vado a raccontare il fatto.

    Giornata come tante altre. Compiti, riassunti, dettati, matematica e via dicendo. Tutte cose che non mi piacevano. Naturalmente, quando a uno non piace una cosa, disturba gli altri ed io non ero certo l’eccezione a tale regola. La maestra, dopo i soliti rimproveri, chiamò il bidello per farmela pagare. Questi entrò in classe e chiese il motivo della chiamata. Signor bidello, porti questo bambino in pasto al coccodrillo. In pasto al coccodrillo! Tutta la classe spaventata, io in fase confusionale. Il coccodrillo, animale conosciuto solo sulle figurine, ma mai visto. L’aspetto preistorico dava l’idea di un mostro orribile. Le sue dimensioni erano calcolate in metri, se non addirittura in chilometri da qualche compagno più fantasioso. L’aspetto terrificante. Le fauci spaventose. In un solo boccone non sarebbe restato niente di me. Il bidello mi prese per mano e mi portò negli scantinati della scuola. Nelle legnaie. Anche questo luogo era per noi sconosciuto, tetro, da brividi. Piangendo e supplicando, trascinato come un sacco di patate, per tutto il tragitto spergiurai che mi sarei comportato benissimo per tutta la vita. Il bidello mi condusse dove doveva condurmi. Arrivati davanti ad uno steccato di legno, che non era altro che la porta della legnaia, si fermò e disse la frase che forse ogni giorno aveva detto ad altri alunni discoli come me: Se non farai il bravo ti mando in pasto al coccodrillo. Sì, signor bidello, le prometto che sarò buono e mi comporterò sempre bene. Allora torna in classe e comportati bene rispose. Dopo la prima rampa di scale - ero solo a salire - mi ero già pentito della promessa e studiavo come risolvere la situazione. L’entrare in classe e deludere i miei compagni, che mi facevano già pasto per il coccodrillo, mi disturbava assai. Mi avrebbero preso in giro ancora di più e, per quel giorno, sentivo di averne già avuto abbastanza. Cosa fare? Scappare, sì, ma dove? Nascondermi, sì, ma dove? Ma sì, certo, naturale: nel bagno della scuola, nel cesso!

    I gabinetti, come in tutte le scuole elementari di questo mondo, avevano le porte con la parte bassa aperta. Ci si poteva guardare dentro e sapere se era occupato. Io andai in uno di questi e mi fermai lì. Dopo un po’ di tempo, entrò il bidello che mi aveva accompagnato dal coccodrillo e, bussando alla porta, chiese chi diavolo ci fosse dentro. Io mi chiamo Mauro e lui sperava che rispondessi Mauro. Ingenuo sì, ma non troppo. Bussò alla porta a fianco della mia e rispose uno che si chiamava Bruno. Passò alla mia e bussò. Io zitto. Quello tornò a bussare e l’altro, pensando che non avesse capito, rispose di nuovo Bruno con altra tonalità. Il nome Bruno, a quei tempi, era molto usato. Il bidello, convinto ci fosse un altro Bruno la dentro, andò via. Io, invece, sempre fermo in cesso. Così, senza averne bisogno, passai quasi tre ore in piedi sulla turca.

    Alla fine delle lezioni, al suono della campana, come niente fosse, uscii dal piastrellato ambiente e mi incolonnai con gli altri miei compagni. Fatte le scale, sulla porta, il bidello mi prese per l’orecchia (quella destra, ricordo ancora) e mi tirò fuori dal gruppo. Mi consegnò alla maestra che ringraziò calorosamente. Preso per mano mi condusse a casa. Mi teneva così stretto che non sarei mai riuscito a sfuggire o divincolarmi. Il mio destino era segnato.

    Durante la mia prolungata permanenza nel regno delle maioliche, il bidello, preoccupato dalla mia scomparsa, era andato a cercarmi per la città ed aveva avvertito i miei genitori. Ero sì il quinto fratello, ma per loro era comunque importante che tale numero rimanesse invariato. Arrivai a casa, dopo aver consumato per strada tutte le lacrime. Supplicai ancora di lasciarmi, ma invano. La maestra bussò alla porta. Speriamo non ci sia nessuno. Delusione. Aprì la porta mio padre. Peggio di così non poteva capitare. Signora maestra cordialmente e affettuosamente mio padre la salutò grazie di avermi portato mio figlio, vuole salire a prendere qualcosa? No, grazie. Peccato, pensai io. Ma lo stesso c’era qualche cosa che non quadrava. Mi sarei aspettato una reazione completamente diversa. Che gli sia passato il bollore e che alla mia vista sia stato sopraffatto da un senso di ringraziamento verso il Padre Eterno, tale da trasformare l’inevitabile condanna in un comprensivo perdono? Mah, strano ma vero. Spiegato il tutto e venuto a conoscenza dell’andamento della giornata, la maestra si congedò da mio padre che, tenendomi sempre per mano, la salutò. Poi chiuse la porta.

    Dio, quante!

    Dopo i primi due anni di scuola elementare, ci spostammo in una scuola per soli maschi, maggiormente adatta agli studenti con determinate qualità. Per farla breve: una scuola per discoli. In verità l’edificio era lo stesso ma questi terremoti a due gambe venivano smistati in classi diverse a seconda delle loro attitudini: i più turbolenti in una dove il maestro era particolarmente adatto al contesto e via dicendo. Io, per fortuna, ero stato piazzato in una sorta di via di mezzo. Non teppaglia, ma neanche bravi alunni. Come si potrebbe dire, eravamo sotto continuo esame. Ci giocavamo l’accesso alle scuole medie, il sogno di tutti. Da quella scuola si potevano trattare i coetanei con una certa sufficienza: io, vado alle medie. La strada era lunga, tre anni, pieni di insidie e distrazioni. Per me, come vedremo, la strada fu subito in salita.

    La scuola media era la strada maestra per fare, una volta terminata, di tutto e di più: infatti si poteva scegliere fra tutte le opportunità di studio. I licei erano quelli più ambiti, in quanto chi andava al liceo sapeva di potere (o dovere) poi proseguire per l’università. Il destino era segnato in partenza. Anche in partenza l’insegnamento era diverso. Se alle medie si studiava, nelle altre scuole si schivava. Si schivavano le legnate, i gessi, i calci dei professori e le note.

    In ogni caso per arrivare alle medie c’erano degli esami da superare, in quinta elementare. In pratica si veniva torchiati per capire se fossimo stati idonei per quel tipo di scuola. Il maestro, che ci conosceva come le sue tasche, sapeva benissimo chi sarebbe stato ammesso e chi no. Il passa parola esisteva anche a quei tempi. E anche la differenza sociale era un elemento importantissimo. Se di famiglia benestante il lasciapassare era garantito. Se di famiglia con problemi economici, c’era l’esame. Di famiglia povera, neanche ammesso. Detta così sembrava una regola classista e profondamente ingiusta (e lo era), ma dietro c’era anche una motivazione dettata dal realismo: prima si finiva la scuola e prima si dava una mano in famiglia. Una regola accettata da tutti senza discussioni. Io, per fortuna, non ero in questa ultima fascia. Ero in quella intermedia. Dovevo passare l’esame di ammissione. Cosa impossibile per quello che avevo studiato e, soprattutto, per quanto mi ero impegnato. L’esame fu un’umiliazione continua. Solo in matematica – e per questo poi andai alle commerciali - detti segno di scaltrezza e capacità. Non bastava. Bocciato. Nella prima, e non ultima volta della mia vita, la delusione fu cocente. Mi separavo da amici che non avrei più ritrovato per conoscere chissà chi.

    Le differenze si coglievano anche solo osservando gli edifici. Infatti l’agognata scuola media, l’Istituto Locchi – dove peraltro sostenni l’esame - dava fin da subito un’idea di serietà e rigore. La scala centrale che portava ai piani incuteva, già lei, timore e rispetto. Alle commerciali, invece, la scala centrale era solo per le femmine. I maschi, come bestie che potevano trasmettere malattie, entravano da scale esterne. La selezione partiva già da lì. I professori, senza togliere i meriti a nessuno, erano dello stesso livello della scuola. Se avevi voglia di studiare bene, altrimenti peggio per te. Andrai a lavorare da ignorante.

    Apro un piccolo inciso: forse è solo un mio sogno che non si realizzerà mai, ma secondo me nelle scuole elementari dovrebbero insegnare i migliori docenti. Il piacere dello studio, come mezzo per imparare, lo si dovrebbe trasmettere fin dall’inizio. Le basi si acquisiscono quando si ha la possibilità di apprendere con gioia, leggerezza e curiosità. Lo studiare diventa un gioco e non una imposizione. Certamente le diverse capacità ci saranno sempre, ma non ci saranno già all’inizio distinzioni. Diventerebbe forse più facile anche insegnare oltre che imparare. Le difficoltà all’inizio possono essere anche molte ed è soprattutto per questo che le capacità di quegli insegnanti dovrebbero essere maggiori. Invece, per quello che mi riguarda, e temo non solo per me, non c’è mai stato questo approccio: risultato? Le difficoltà non superate allora, al tempo della scuola elementare, rimangono tali e spesso si ripresentano più avanti nella propria vita. Comunque è solo un’opinione personale.

    Ritorniamo alle scuole.

    Gli insegnanti erano comunque di lunghissima esperienza e di grande autorità. Guai dare spazio o confidenza a ragazzi forgiati dalla strada, la sola scuola di vita che si conosceva.

    La famiglia, chi c’è l’aveva, aveva altri compiti - molto più importanti - da risolvere. Il dare da mangiare, ad esempio. Tutte o quasi tutte le famiglie erano composte da più persone. Se il padre lavorava, la madre doveva arrangiarsi a procurare tutto il resto, cioè quello che il solo stipendio del marito non riusciva ad acquistare. Doveva fare miracoli. Se anche la madre lavorava, come nel nostro caso, la strada era la nostra casa. Si passava tutto il tempo in mezzo alla strada o seduti sul marciapiede a contare le persone che passavano. Di mezzi ne passavano pochi e, di conseguenza, anche i pericoli erano pochi. Durante l’inverno o quando pioveva, si stava tutti in cucina a fare finta di studiare. Bastava poco per distogliersi e per abbandonare i quaderni. Tutte le scuse erano buone. Da noi, se non avevi fatto i compiti, era sempre colpa del fratello e viceversa.

    Se la strada aveva il compito di formare il ragazzo dal punto di vista dell’arrangiarsi, la scuola aveva sia il compito d’insegnare sia di sgravare i genitori da ulteriori problemi. Il maestro, come si diceva, era un ammiraglio di lunghissimo corso. Esperienza a non finire. Terrore anche per i più irrequieti. Non volava una mosca in classe. Se c’era della confusione era solamente quando si cantava. Tutti in piedi a intonare, di solito, inni nazionali o canzoni patriottiche.

    In piedi non solo si cantava, ma si stava anche quando entrava qualche persona. Questa bussava e entrava soltanto dopo l’intimazione del maestro ad alzarci e il suo perentorio entri. Il bidello o il preside era sempre la stessa cosa. Non faceva distinzione. O meglio, se era il preside qualcosa cambiava: assieme a lui entrava la paura, la paura d’essere interrogati.

    La mia classe, dalla terza alla quinta, era al piano terra della scuola, un antico convento francescano con volte e scale in pietra, cortile interno. In fondo a una campata, c’era la mia classe. Il motivo era che il nostro maestro era poliomielitico e non aveva l’uso di una gamba. La sua bicicletta aveva un pedale fisso. Era sempre pulita. Abitava a cento metri dalla scuola ma arrivava sempre in bicicletta, anche quando pioveva. La parcheggiava a fianco dell’abitazione della bidella sempre allo stesso posto. La bidella, a quei tempi, veniva considerata tanto quanto il maestro. Mai una qualsiasi forma di scortesia. Si sapeva benissimo che aveva un compito importantissimo e per questo rispettabilissimo. Come peraltro tutti quelli oggetti che costituivano l’essenza dell’intera scuola. Dalla legna ai gessi, dai banchi ai vetri delle finestre, che davano sul cortile interno, che peraltro erano sempre puliti. Era attraverso loro che noi guardavamo il mondo esterno, sognavamo, pensavamo ad altro: erano come la nostra fantasia, ancora pulita da cattiverie o malignità. Il vetro della finestra era la nostra anima. Il cortile i nostri sogni.

    La porta aveva i battenti superiori in vetro pertanto si sapeva, dall’ombra, che stava per arrivare qualcuno.

    Un giorno si intravide un’ombra. Solo dopo il bussare e l’alzata in piedi, il maestro disse: Entri. Non entrò né il preside né la bidella, che erano le sole persone che entravano in classe. Entrò mio padre.

    In quei tempi nessun genitore andava a scuola per parlare con i maestri. C’erano le note e i voti sui quaderni e queste bastavano a colloquiare a distanza, tra maestro e genitori. Neanche in una situazione tragica i genitori venivano a scuola perché le informazioni arrivavano attraverso la bidella. Un genitore in classe non era mai entrato. Quel giorno, solo quel giorno, mio padre sì.

    Nel vederlo mi prese un colpo e tantissimo imbarazzo nei confronti dei miei compagni. Era una situazione unica non facile da gestire. Perché era lì mio padre? Perché avevo fatto una cosa mai fatta da altri? Quale era il motivo di una visita così straordinaria? Il mio cuore batteva a mille. Dovevo essere bianco di paura e rosso di vergogna. Piccolo ero già e penso di essere diventato molto più piccolo.

    Il maestro, che conosceva molto bene mio padre, lo salutò cordialmente e chiese il motivo della sua presenza. Nel mezzo della classe, con un silenzio di tomba, mio padre disse: Signor maestro io, padre di Mauro, l’autorizzo, qualora se lo meriti, a mettergli le mani addosso. Condanna a morte pubblica. Era pubblico anche il castigo che, oltre in classe, mi sarei aspettato a casa. Le prendevo in classe ma, soprattutto, a casa. Che tempi fantastici. Che metodi limpidi e uguali per tutti. Si era tutti sullo stesso piano. Si sapeva benissimo che il castigo era la conseguenza di qualche nostra azione sbagliata. Non c’erano scuse che tenessero. La colpa era sempre ed esclusivamente sempre nostra. La difesa dei figli, che oggi vede spesso contrapposti genitori partigiani e iperprotettivi ed insegnanti, non esisteva. Anzi, all’inverso, erano sempre i genitori che si scusavano per il cattivo comportamento dei figli. La miseria o la difficile situazione economica rendevano tutti uguali. Pochi erano quelli che avevano una situazione diversa, migliore. Però erano loro ad essere diversi e quindi emarginati. La stragrande maggioranza era come noi. Si sapeva che si sbagliava e si sapeva che sarebbe arrivato inesorabile il castigo.

    Non faceva una grinza.

    Per dire il vero c’erano alunni che stavano peggio di noi. Quelli senza famiglia. Il collegio, con la divisa uguale per tutti, l’arrivare e il ritornare a scuola sempre in fila per due. Come militari. Di quelli si aveva considerazione. Anche loro avevano i loro castighi. Erano diversi, erano castighi di estranei che facevano molto più male di quelli dei genitori. Gratuiti e cattivi verso indifesi e già castigati dal destino. Quelli del Lenassi. L’unica consolazione per questi ragazzi era quella dell’esser liberi dal castigo del Walter.

    Lenassi, facoltosa famiglia goriziana, aveva lasciato in eredità una struttura che poi divenne un collegio. Questo era al servizio di ragazzi, rigorosamente maschi, orfani o in gravissima difficoltà economica. In quel tempo c’era tantissima gente che stava peggio di noi. Questi ragazzi venivano inquadrati, vestiti, educati in modo tale da sembrare appena usciti da un racconto del libro Cuore del De Amicis. Arrivavano in fila per due, con le mantelle grigie, pantaloni corti, quasi dei militari, accompagnati da educatori che erano a loro volta quasi dei gendarmi. Silenziosi e tristi. Questi erano quelli del Lenassi. Tra di noi c’era solidarietà nei loro confronti per il semplice motivo che ci si rendeva conto della nostra fortuna. Ma torniamo al Walter.

    All’uscita della scuola, sotto un arco in pietra di un vecchio portone, c’era il Walter, alunno come noi nella stessa scuola. Ragazzo difficile, come difficile era il tutto. Aveva il vizio, se così si può dire, di prendere uno solo al giorno all’uscita della scuola, un compagno, non della stessa classe, di solito uno più piccolo, delle classi inferiori. Lo prendeva, lo bastonava perbene, senza motivo, e basta. Era uno sfogo come tanti altri. Prendeva uno a caso senza motivazioni particolari. Un giorno, così il destino volle, mi puntò. Mi prese, mi bastonò perbene e, finito il tutto, mi lasciò andare a casa. Avevo pagato il mio tributo al Walter. Fuori il dente fuori il dolore. Oggi era toccato a me, domani ad un altro. Sì, perché quando si veniva presi, tutti gli altri si sentivano liberi per quel giorno. Toccava a me e basta. Non c’erano forme di difesa da parte degli altri. Ognuno si doveva arrangiare da solo. Era anche quella, come tante altre, una lezione di vita.

    A quei tempi era normale. Nel gioco, nel pericolo, nelle lotte, nei castighi. Soli nell’arrangiarsi a tirarsi fuori. Nel nascondersi bene, nel correre più possibile per non farsi prendere, nel capire la difficoltà, nel cercare di vincere o prenderle di meno. Era una forma di insegnamento ad affrontare a viso aperto le difficoltà, senza nascondersi dietro a qualcuno o qualcosa. Erano altri tempi. Erano, per noi, bei tempi non per i castighi, ma perché eravamo ragazzi con tutto quello che ne derivava.

    Di aneddoti, ognuno di noi, ne potrebbe raccontare tanti. Fra i miei preferiti ce n’è uno che ancora oggi, passati tantissimi anni, racconto senza vergogna.

    Il maestro un giorno, non ricordo quale fosse l’argomento, forse perché non ero proprio rapito dall’argomento, chiese chi sapeva cosa fosse la quaglia. Eravamo abituati a rispondere a questo tipo di domande a bruciapelo. Di solito erano sempre gli stessi che alzavano la mano. La lotta era impari. Su dieci domande, erano sempre quelli a rispondere, dieci volte su dieci. L’alzare la mano prima di loro era diventato l’obiettivo della vita scolastica degli altri, me compreso naturalmente. Bisognava anticiparli, bisognava dimostrare velocità e conoscenza, bisognava vincere per attirare lo sguardo e l’attenzione dei propri compagni di classe. Bisognava stupire. Non era un solo gesto fine a sé stesso, era una vittoria anche verso gli altri. Anche contro il maestro, che si aspettava le risposte dagli stessi alunni. Bisognava stupire anche lui. I tempi per fare questo erano brevissimi. Attimi. Battiti di cuore. Il ragionamento doveva essere immediato, ma nel contempo articolato per dare maggior sostanza alla risposta. Tutto in un momento. Tutto prima che altri alzassero la mano. Prima di essere sconfitto ancora una volta. Gli occhi dell’intera classe venivano rivolti verso i soliti. Però, in quel momento, forse appunto per la distrazione, poteva diventare il mio momento. Riuscire a stupire, salire agli onori della cronaca del giorno. Il destino mi aveva fatto incontrare la quaglia.

    Tra il ragionare e l’alzare la mano passarono millesimi di secondo, come millesimi di secondo per articolare la risposta. Era chiara, non avevo dubbi sul rispondere, il mio ragionamento era troppo limpido, logico e privo di dubbi. Solo uno sgaio (scaltro) poteva dare una risposta tale. Era la mia risposta. Nessuno doveva portarmela via. Sarei passato alla storia. E alla storia passai.

    Quando da ragazzi si giocava e si prendeva una botta in qualche parte del corpo, si diceva: Che quaia. Era l’imprecazione usata per manifestare il dolore e la sofferenza. Non solo. Era il ricordare, a chi ti aveva creato il dolore, la sua colpa. Avevo poi ben chiaro che nel dialetto goriziano, simile a quello triestino e veneto, la traduzione in lingua italiana dei termini dialettali era molto immediata e diretta, basandosi - nella mia testa, almeno - su delle semplificazioni che la lingua parlata aveva apportato per rendere più rapida la comunicazione. Il mio ragionamento fu la logica conseguenza del tutto. Se quaia si dice in dialetto, basta aggiungere la gl per farlo diventare il termine corrispondente della nostra madre lingua. Quaia - quaglia. Semplice

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