L’angolo felice
Di Henry James
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Info su questo ebook
Prima della demolizione, Spencer comincia a visitare l’abitazione di notte, convincendosi sempre più che la casa sia abitata da un fantasma, e non uno qualunque, bensì lo spettro di ciò che sarebbe potuto essere nella vita e non è stato.
Dopo Il giro di vite, L’angolo felice è la più riuscita ghost story del maestro americano, che mescolando autobiografia e paranormale riflette sul senso da dare alla vita.
Henry James
Henry James (1843-1916) was an American author of novels, short stories, plays, and non-fiction. He spent most of his life in Europe, and much of his work regards the interactions and complexities between American and European characters. Among his works in this vein are The Portrait of a Lady (1881), The Bostonians (1886), and The Ambassadors (1903). Through his influence, James ushered in the era of American realism in literature. In his lifetime he wrote 12 plays, 112 short stories, 20 novels, and many travel and critical works. He was nominated three times for the Noble Prize in Literature.
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Anteprima del libro
L’angolo felice - Henry James
I LEONCINI
frontespizioHenry James
L’angolo felice
ISBN 978-88-9296-871-4
© 2012 Leone Editore, Milano
www.leoneeditore.it
Prefazione
Questa è una storia di fantasmi. Non parlo di apparizioni sinistre o del ritratto di un epoca al tramonto, colta quando il cambiamento inevitabile la sta ormai travolgendo con la forza della sua novità. C’è anche questo nel libro, ma in The Jolly Corner i fantasmi – quelli veri, di cui si fa fatica a tracciare i contorni e percepire la reale sostanza – sono le parole. Confrontandomi con il testo originale, iniziando a pensare a come tradurlo, mi sono dovuto muovere come il protagonista di questa storia: con i sensi all’erta, consapevole che ogni dettaglio, ogni cigolio della prosa fosse come lo scricchiolare di un passo nell’ombra, una spia di qualcosa di più grande e profondo.
Ho capito quindi che quello che non si può tradurre davvero, di Henry James, è il vocabolario: personale, idiosincrasico, immaginifico, dall’aggettivazione dettagliata e quasi materica. Sospettiamo perché abbia preferito quella precisa parola e non un’altra, ma possiamo star certi che solo lui avrebbe potuto operare una selezione simile. Non c’è un termine banale, scontato e messo a caso nelle sue descrizioni, non c’è una scelta che sia facile e non abbondantemente riflessa, setacciata da un’interiorità ingombrante, che filtra la realtà oggettiva attraverso le maglie di un io unico e ipertrofico come quello dell’autore. Avrei potuto «tradurre» quel sentimento, cercare di fare mio quel lessico dell’anima, innescare qualcosa di simile nella mia sensibilità, ma in questo caso il lettore sarebbe stato messo di fronte alla mia visione, che per quanto interessante e modellata su quella dell’autore originale, non è quella di Henry James. Pertanto ho cercato di essere il più fedele possibile al testo, penetrando per quanto mi è riuscito nel significato non superficiale che ogni scelta, così mirata e raffinata, potesse offrire all’interpretazione.
Quel che invece si può tradurre – che si deve tradurre – è l’aspetto forse più unico e al contempo universale della prosa del romanziere newyorchese, è l’andamento di una prosa letteralmente frantumata dalla sintassi, strabordante di incisi, allocuzioni, deviazioni, depistamenti, dall’alternanza quasi arbitraria di modi e tempi verbali che conducono il lettore nei meandri contorti e angosciati della psiche di Spencer Brydon. Come dire, è una questione di ritmo, e un valzer – che lo suoni un’orchestra viennese o una big band di New Orleans – resta pur sempre in tre quarti: puoi dilatarlo, sincoparlo, è questione di gusto, di stile, di cultura (o di grammatica, nel nostro caso); ma chiunque lo ascolti presto o tardi attiverà i collegamenti sinaptici della propria memoria musicale fino ad approdare alla categoria del valzer interiore che anima le pagine di questo romanzo.
Perché questo è l’effetto che fa la prosa di James, esplicita con la sua forma meccanismi di riflessione e flussi di coscienza che ognuno – passato l’ostacolo formale di una scrittura personalissima, ipersoggettiva – finisce per riconoscere come profondamente, universalmente umani, arrivando a perdersi (proprio come Spencer Brydon) nei meandri di un terreno che fino a poco prima aveva considerato come casa propria.
R. G.
Testo in italino
Testo in inglese
Capitolo I
«Tutti mi chiedono lei che ne pensa praticamente di ogni cosa» disse Spencer Brydon «io rispondo come posso – esitando, sviando la questione, mettendoli fuori strada con una sciocchezza qualsiasi. A nessuno di loro importa veramente» proseguì «perché, anche se in questo modo così superficiale di parlare saltasse fuori una stupida domanda su un argomento veramente importante, quel cosa ne penso riguarderebbe quasi esclusivamente me stesso.» Stava chiacchierando con miss Staverton, con cui aveva sfruttato ogni occasione possibile di fare conversazione da un paio di mesi a quella parte; la sua disponibilità, le sue risorse, la sua ospitalità e il suo sostegno, così come si evinceva dalla situazione, avevano preso abbastanza in fretta il primo posto tra il considerevole numero di sorprese, in precedenza più stimolanti, che lo attendevano al suo ritorno in America, rimandato a lungo e senza motivo. In un certo senso, tutto era una sorpresa; era naturale, in fin dei conti, specie quando ci si era estraniati dal mondo per così tanto tempo e con tanta insistenza, facendosi violenza per lasciare poco margine all’imprevisto. Trent’anni – trentatré, per essere esatti; adesso sembrava che proprio allo scadere di quella vacanza, il teatrino fosse pronto a ricominciare. Aveva ventitré anni quando aveva lasciato New York, ora ne aveva cinquantasei; nonostante tutto – si trovò a riflettere – doveva fare il calcolo a mente, gli era già capitato altre volte dal rimpatrio; in ogni caso, avrebbe voluto vivere più di quanto è concesso a un uomo. Ci sarebbe voluto un secolo, diceva ripetutamente a se stesso, e anche ad Alice Staverton, ci sarebbe voluta un’assenza più lunga e una mente più distratta di quel che era toccato a lui, per passare in rassegna tutte le differenze, le novità, le bizzarrie e soprattutto gli eccessi, dal più affascinante al più terribile, che al momento lo assediavano ovunque volgesse lo sguardo.
In ogni modo, ciò che sembrava più evidente era l’impossibilità di valutare tutto questo; decennio dopo decennio aveva creduto che gli sarebbe stato concesso di assistere, nel modo più generoso e intelligente, a dei cambiamenti meravigliosi. Invece, ora cominciava a vedere che era tutto inutile; sentiva la mancanza di quel che era certo di ritrovare, mentre scopriva cose che non avrebbe mai potuto immaginare. Pareva che proporzioni e valori fossero stati invertiti. Gli obbrobri che si aspettava, gli stessi della sua lontana giovinezza, quando era stato iniziato prematuramente al senso del brutto – quei fenomeni inconcepibili, ora invece succedeva che lo ipnotizzassero; al contrario le novità più spregiudicate, moderne, incredibili e rinomate, che era andato a vedere da vicino come migliaia di ingenui visitatori ogni anno, erano per lui la principale fonte di spaesamento. Erano come trappole per catturare la tristezza, di cui continuava a far scattare la molla, innanzitutto per reazione. Lo spettacolo era senza dubbio interessante, ma sarebbe diventato sconcertante se non ci fosse stato un po’ di sano realismo a salvare la situazione. In quell’ottica più salutare, aveva evitato di visitare proprio tutte le mirabilia a disposizione; pensava – non solo in ultima analisi, ma anche mettendosi alla prova dei fatti – che l’aveva fatto obbedendo a un istinto che non aveva direttamente a che fare con quelle cose di per sé, ma che – in altri termini – ci era andato per dare un’occhiata ai propri «possedimenti», da cui era stato lontano decine di centinaia di miglia per un terzo di secolo; o meglio, per essere meno materiali, era dell’umore giusto per rivedere la sua vecchia casa, quell’angolo felice che di solito descriveva con passione, il luogo dove era venuto al mondo, dove diversi componenti della sua famiglia erano vissuti e morti, dove aveva trascorso le vacanze della sua infanzia di studente e colto i pochi fiori della sua adolescenza fredda e solitaria, che dopo un lungo periodo di abbandono, in seguito alla morte dei suoi due fratelli e al decadere di accordi precedenti, era ora tornata interamente di sua proprietà. Ne possedeva anche un’altra, non così bella – da molto tempo infatti aveva fatto assurgere quell’angolo di paradiso al livello di santuario; le due case costituivano il suo capitale principale, la cui unica rendita, negli ultimi anni, consisteva nei rispettivi affitti che (proprio in virtù della loro ottima fattura) non erano mai stati particolarmente bassi. Era riuscito a mantenersi in Europa, dove aveva deciso di trasferirsi, contando semplicemente sul folle mercato immobiliare newyorchese, passandosela anche meglio da quando, scaduto dopo un anno il contratto della seconda – una semplice voce di bilancio in una lunga lista – era stato possibile ritoccarlo in modo estremamente vantaggioso.
Si trattava di semplici proprietà, ma fin dal suo ritorno si era scoperto a trovare più di una differenza tra le due. Il palazzo lungo la strada, più a ovest, dopo due brulicanti isolati, era già in fase di ristrutturazione per trasformarsi in un’alta torre di appartamenti. Tempo prima aveva ricevuto delle proposte per la sua riconversione; si era stupito non poco – poteva dirlo, ora che i lavori procedevano – di scoprirsi all’altezza del compito, così su due piedi, senza un briciolo di esperienza pregressa: dirigeva i lavori con una certa intelligenza, o perlomeno