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Le lettere di Zio Oreste
Le lettere di Zio Oreste
Le lettere di Zio Oreste
E-book226 pagine3 ore

Le lettere di Zio Oreste

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Info su questo ebook

Quando andò in pensione nei primi anni novanta, Romolo Malatesta lasciò l’incarico di corrispondente del Messaggero, di cui, in verità non era mai stato un prolifico collaboratore, e iniziò a scrivere in proprio. Riordinò mentalmente tutti i suoi ricordi e le sue impressioni della sua infanzia più remota, quella che confinava e si confondeva con i racconti dei vecchi, delle storie dei briganti e di una miseria spaventevole, e scrisse di getto, così come faceva con i suoi quadri, una storia d’amore infelice, ambientata nella Rocca di Fabrica di Roma (ma il nome del paese non viene mai nominato) in quel tempo in cui la Rocca era tutti il paese. “E una realtà romanzata e non varrebbe nemmeno la pena di perderci il tempo… un pensiero una volta espresso è una bugia”
LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2017
ISBN9788878534940
Le lettere di Zio Oreste

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    Le lettere di Zio Oreste - Romolo Malatesta

    Romolo Malatesta

    LE LETTERE DI ZIO ORESTE

    Romolo Malatesta

    Le lettere di

    zio Oreste

    Ogni riferimento a cose e persone è puramente casuale.

    isbn: 978-88-7853-338-7

    isbn ebook: 978-88-7853-494-0

    Edizioni Sette Città

    Via Mazzini 87 - 01100 Viterbo

    tel 0761304967 fax 07611760202

    www.settecitta.eu

    ebook realizzato da Fabiana Ceccariglia. Stage del Dipartimento di Scienze Umanistiche/Lettere (DISUCOM) dell'Università degli Studi della Tuscia presso le Edizioni Sette Città.

    ISBN: 9788878534940

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Dedica

    Introduzione

    Le lettere di Zio Oreste

    Dedica

    È una realtà romanzata e non varrebbe nemmeno

    la pena di perderci tempo...

    Un pensiero,una volta espresso, è una bugia

    Introduzione

    Passata la buriana della guerra, non trovandosi in mano nessun titolo di studio che poteva farlo accedere nel mondo del lavoro, frequenta le Scuole Magistrali a Viterbo e ottiene l’abilitazione all'insegnamento. Nel frattempo aveva aiutato la famiglia in vari lavori, specialmente in quelli estivi della trebbiatura, e aveva cominciato a scrivere articoli come corrispondente locale del Messaggero.

    Il suo primo incarico didattico sarà a Calcata, dove ha occasione di conoscere il parroco di quel paese, Don Mario Mastrocola, che qualche anno più tardi, precisamente nel marzo del 1961 verrà nominato alla guida spirituale di Fabrica.

    Il nostro autore approderà alla scuola elementare di Materano a metà degli anni Sessanta, dopo aver insegnato per un certo tempo alla scuola rurale di Saletti, nel Comune di Sant’Oreste. La scuola di Materano – appena cinque classi – era guidata allora – e sarà guidata per circa trent’anni ancora – da una pattuglia di giovani docenti, tra cui i fabrichesi Silvano Polidori e Verena Baldassi, Linda Cristofari, proveniente da Carbognano e sposatisi con un fabrichese.

    Fin dall’inizio dell’attività di maestro rivelerà quelle sue doti innate di pedagogo informale, non irrigidito negli schemi ministeriali. Non pretenderà mai dagli scolari la ripetizione a pappagallo della lezioncina, ma cercherà sempre di stimolare le loro facoltà intellettuali e artistiche, mediante anche il coinvolgimento in attività teatrali. Le recite del maestro Romolo erano veri e propri spettacoli, ai quali chiamava a collaborare gli artisti del luogo, in particolar modo utilizzando il genio di Remo Morelli che sapeva suonare tutti gli strumenti e comporre in proprio o arrangiare musiche famose. Le sue lezioni, piene di inventiva e allegria, non hanno mai annoiato o impaurito le classi, e intere generazioni di scolari la mattina si alzavano contente di recarsi ogni giorno a scuola.

    Insegnare nelle scuole elementari aveva ancor più stimolato in se stesso la passione per la pittura, che a dire il vero era innata e aveva sempre coltivato. Per decenni, e decenni il maestro Romolo, finite le lezioni scolastiche, invece di passare il tempo al bar o a coltivare un pezzi di terra, preferiva mettersi a dipingere nel balconcino di casa. Con la sua tecnica da macchiaiolo espressionista dipingeva a getto, senza un disegno preparatorio, vedute e scorci di Fabrica di Roma, ritraendo figure umane o animali appena abbozzate, in una esplosione di colori. Questa tecnica ha fatto un epigono nell'autodidatta Corino Bianchini, il quale, sia per l’amicizia creatasi, sia per il fatto di gestire il distributore di benzina vicino alla sua casa e avere molte occasioni di vederlo, proprio da Romolo ha appreso la passione per la pittura e fatto tesoro di tutti i suoi consigli.

    Per decenni, nel cartellone dei festeggiamenti di San Matteo, fu segnata a caratteri cubitali mostra di pittura del maestro Romolo Malatesta – e l’aggettivo non si sapeva mai se si riferisse alla sua arte, alla sua attività di docente o ad entrambi.

    Nei primi anni Ottanta i pittori Malatesta di Fabrica di Roma – l’anziano Decio, i nipoti Ernesto e Romolo, e Umberto, figlio ormai grande di Romolo – hanno tenuto una mostra all’aperto nella piazzetta della Rocca, che ha avuto tanti visitatori e apprezzamenti.

    Non c’è casa di Fabrica di Roma che non abbia in salotto un quadro o un quadretto di Romolo.

    Quando andò in pensione nei primi anni novanta, Romolo Malatesta lasciò l’incarico di corrispondente del Messaggero, di cui, in verità non era mai stato un prolifico collaboratore, e iniziò a scrivere in proprio. Riordinò mentalmente tutti i suoi ricordi e le sue impressioni della sua infanzia più remota, quella che confinava e si confondeva con i racconti dei vecchi, delle storie dei briganti e di una miseria spaventevole, e scrisse di getto, così come faceva con i suoi quadri, una storia d’amore infelice, ambientata nella Rocca di Fabrica di Roma (ma il nome del paese non viene mai nominato) in quel tempo in cui la Rocca era tutti il paese. E una realtà romanzata e non varrebbe nemmeno la pena di perderci il tempo… un pensiero una volta espresso è una bugia scrisse l’autore in epigrafe al libro, Un paradiso per poveri diavoli, pubblicato nel giugno del 1996. Invece Romolo, in questo lungo racconto, ha felicemente mostrato la sua capacità di raccontare le storie di vari personaggi che s’intrecciano su di un fondale realistico, usando una lingua arricchita di espressioni e locuzioni del nostro dialetto, con un tono per niente crudo ma miracolosamente fiabesco, che eleva la narrazione in un tempo mitico. Lo stesso tono che terrà nello scrivere i suoi altri due romanzi inediti, Le lettere di zio Oreste e Il paese di coso. I romanzi, ambientati negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, in una Fabrica di Roma, mai nominata, risultano più dettagliati nella descrizione dei luoghi e delle usanze paesane, su cui comunque non indugia con lo spirito dell’etnologo. Il fine dei due libri, non è quello di descriverci la vita di un tempo, ma certi sentimenti d’amore che riescono a vivere seppure contro un ambiente sfavorevole, i pregiudizi e la malignità della gente, (direi fatale), come un temporale o una forte gelata.

    Quattro anni dopo la sua morte, la Giunta Comunale, su richiesta di oltre quattrocento ex alunni e estimatori, nella seduta del 21 ottobre 2011, ha deciso di intitolargli un piccolo triangolo di giardino pubblico, adiacente Viale degli Eroi, in prossimità della casa dove aveva abitato per tanti anni.

    Biografia autorizzata scritta da Gualdo Anselmi in occasione della mostra: Fabrica di Roma e i suoi scrittori – poeti narratori e saggisti, editi e inediti dal 1700 ai nostri giorni – Curatore Gualdo Anselmi su idea di Roberto Felicetti.

    Sabato 28 settembre 2013 sala dell’orologio in piazza Duomo, aperta dal giorno dell’inaugurazione al 6 ottobre.

    Gualdo Anselmi

    Le lettere di Zio Oreste

    Sora Nina uscì dal letto in fretta e furia al primo trillo del campanello. Arrivò all'uscio incespicando: colpa del sonno appena interrotto, dell’apprensione che la prendeva ad ogni chiamata, della camicia da notte che doveva starle lunga o di tutte e tre le cose messe insieme.

    «Chi è?» chiese da dietro l’uscio.

    «Siamo due comari,» dissero ad una voce.

    «Per chi venite?» chiese la mammana alle due donne subito riconosciute nello spicchio di luce che usciva dalla porta di casa un poco aperta.

    «Per Giulia di Silverio,» disse una.

    «E per Benilde di Lorenzo,» aggiunse l’altra di rimando.

    «È dubitata, è dubitata,» esclamò Sora Nina.

    Le due donne, per nulla sorprese di essere state licenziate così alla svelta, erano già sulla via del ritorno con la fregola che avevano di riferire che la missione era stata compiuta.

    Pensando alla sua di missione, Sora Nina si approntò in un momento, cercando già con gli occhi la vecchia borsa da lavoro di pelle nera che pure teneva sempre in evidenza, e bella e pronta, con tanto di camice bianco stirato a puntino. Appena l’ebbe trovata infilò la porta. Le scale di casa le discese zoccolando. Così, a batti tacco, fece anche il selciato della via del Borgo ripetendo è dubitata, è dubitata.

    Intanto, al ritmo di quel rumore cadenzato che risuonava più cupo nella notte, Sora Nina pensava al suo destino di ostetrica di paese. Ricordava il tempo passato, anche mesi, senza tagliare un solo cordone. Senza legare un ombelico. Ed ecco invece che nella stessa notte una chiamata per due partorienti.

    «Per fortuna di casa poco distanti una dall’altra» si disse Sora Nina tanto per consolarsi. Infatti Giulia e Benilde abitavano sulla stessa piazza che lei dovette attraversare più volte per le due donne già in travaglio, con i segnali di via libera ugualmente parti, con quei due là dentro già messi sulla postazione di sortita per affacciarsi sul mondo, in gara a chi avrebbe tagliato il nastro per primo.

    Avanti e indietro con quel suo lungo e svolazzante camice bianco Sora Nina dava l’impressione di uno spirito vagabondo, un’anima santa in pena, che a dimenticato da che parte stava l’altro mondo.

    «La mammana ha detto che anche l’altra sembra proprio che voglia fare tutto alla svelta,» disse Lorenzo.

    «Anch’io voglio fare alla svelta,» disse a sua volta Benilde al marito con una smorfia di dolore.

    «No, Benilde, no! Nostro figlio non può nascere nello stesso giorno del figlio di quelli là. Magari alla stessa ora e, peggio ancora, proprio allo stesso momento,» la riprese Lorenzo con mal celata calma.

    «Ma chi ti dice poi che il nostro sarà un maschio?» ribatte Benilde con un’altra smorfia di dolore.

    «Perché a me serve un figlio maschio. Perché solo i maschi sanno portare avanti certe faccende di famiglia,» disse convinto e risoluto Lorenzo andando verso la finestra affacciata sulla piazza dove la luna ci stava sopra, attaccata al soffitto del cielo come un grosso globo di cristallo opaco con il lume acceso dentro.

    Per ironia della sorte, in una strana gara di nascita fra due partorienti dirimpettaie sulla piazza, anche se solo per pochi minuti, vinse la femminuccia di Benilde sul maschietto di Giulia. Di primo mattino a informare la piazza dei due lieti eventi e che tutto era andato bene, provvide una delle due comari: la più maneggiona.

    «Sono nati due soli, uno femmina e uno maschio,» annunciò a bella voce, indicando dove, affacciata alla finestra di casa sua.

    Le altre comari della piazza di sotto, con un orecchio già messo fuori durante la notte, gioirono a quell’annuncio. Così mattiniere erano state troppo a lungo ugualmente preoccupate per le urla a perdifiato che venivano da una casa e il prolungato silenzio di nemmeno un vagito dall’altra, fino a quando al nato in silenzio non pensò lei, la mammana, a fargliene fare uno. Con una mano lo tenne per le gambette a testa in giù come fanno i pastori con gli agnellini appena nati, con l’altra gli diede più d’una bella pacca a fargli rosse le chiappette scure.

    «Sicuramente in si bemolle, da 4° Sinfonia di Beethoven,» disse soddisfatta Sora Nina. Amante della musica come era le piaceva definire le tonalità del pianto di ogni creatura che aiutava a venire al mondo.

    Anche l’altro sole, quello grande, si era appena affacciato sul mondo e sulla piazza. Un raggio di luce di ritorno dai vetri di qualche finestra a specchio sulle case più alte del paese, doveva avergli già riportato la novità di avere due fratellastri.

    Tutto era andato bene, ma no per due galline, le più grasse, senza nemmeno il tempo di mettere il becco fuori come ogni giorno.

    Perché così voleva la tradizione, erano già finite in pentola a far brodo per le donne che avevano partorito i due soli.

    «Un vero peccato però che sia toccato proprio a noi il sole femmina,» disse Lorenzo sorridendo alla moglie.

    Però, appena uscito dalla camera da letto, si morse il labbro inferiore. Ripassando l’annuncio dato dalla maneggiona, «sì, saranno pure nati due soli,» si disse scorato, «ma il mio è quello falso.» Un pensiero che lo tormentò non poco fino a quando non si concesse la speranza che qualche volta anche le femmine sanno fare certe cose meglio dei maschi.

    Invece nella casa dall’altra parte della piazza, a finestre di rimpetto, Silverio era felice per quel figlio maschio. Orgoglioso quando lo vide nudo, come lui bruno di carnagione, visibilmente soddisfatto perché anche il segno del maschio era quello con la sua caratteristica piccola gobba. Una sorta di segno araldico. Suo padre l’aveva pensato di lui e lui lo pensava di suo figlio, un figlio sicuro che non avrebbe potuto tralignare con quel marchio di fabbrica evidenziato che durava da sempre, una garanzia in più per la faccenda del malanimo, dell’astio, di una ruggine tra due uomini, nata quando erano ancora giovincelli, per motivo che solo loro sapevano e ancora tenuti a caro, nascosti a tutti da durare nel tempo, da lasciare come un’eredità.

    Così era, così doveva essere anche per le mogli. Un cattivo sangue che a rinnovarlo bastava il solo sospetto di ripicche, di dispetti che ognuno era convinto di patire dall’altro, di tutte quelle cose, anche le più piccole, che non andavano per il verso giusto.

    Una notte ci volle all’interno dell’una e dell’altra delle due famiglie per trovare il nome ai due soli. Chi voleva rinnovare quello dei nonni e chi invece era contro il vecchiume in una ridda di nomi nuovi. Ma poi, proprio perché le cose vanno sempre come debbono andare, per la femminuccia vinse Dora e per il maschietto Matteo.

    Per il battesimo stabilì il prete. Stessa chiesa grande, stesso giorno, alla stessa ora appena dopo la messa alta.

    Una cerimonia tirata avanti quasi nell’indifferenza reciproca anche tra i padrini e le madrine dell’uno e dell’altra che pure erano all’oscuro di tutto.

    Alle prime gocce d’acqua santa del prete, alle parole io ti battezzo, gli strilli di Dora, nata gridando, fecero il giro della chiesa mettendo in apprensione perfino i Santi dipinti sull’abside. Che, dato che ormai c’erano, furono ugualmente sorpresi per il silenzio dell’altro battezzando, quel Matteo nato senza fare un fiato, e ora indifferente all’acqua, al sale e quanto altro.

    Intanto tutto andava secondo copione, con qualche improvvisa variazione dopo la combinazione dell’evento dei due soli, nati, secondo la piazza, con certi segni del destino. I padri dei due soli, erano contadini. Coltivavano ciascuno la propria terra, poca roba avuta in eredità, e manco a farlo apposta, perfino confinanti di quel campo al quale tenevano di più.

    A delimitarne la proprietà erano quattro sassi bianchi di calce che però non trovavano pace nemmeno essi perché ognuno dei due contadini, credendo di vederli spostati, provvedeva a rimetterli a posto. A modo suo.

    Due uomini dal vivere che si poteva dire simile. Uscivano da casa prima che il sole si tirasse su. Vi rientravano quando già era andato sotto. Raramente si vedevano in giro per il paese. Santificavano le feste solo se c’era qualche gara di poesia e così anche per questo la vita di uno sembrava la copia di quella dell’altro. Tutti e due erano abili nel canto di grandi opere mandate a memoria. Come era naturale che uno fosse antagonista dell’altro nelle bevute per le feste dei vari Santi del paese con altri cantastorie che venivano da via.

    Lorenzo e Silverio avrebbero potuto evitarsi, ma per l’occhio della gente e per la tigna che avevano, uno più dell’altro, erano sempre lì a sfidarsi, a contendersi la palma del vincitore con quel forestiero che era davvero bravo, facendo bella mostra di medaglie, di attestati e di riconoscimenti vari di bel canto in poesia.

    Solo se Lorenzo e Silverio passavano al bernesco, cantato in terza rima, bastava loro proprio un nonnulla per tracimare. Era il momento che la gente presente si beava. Frugava tra i versi alla ricerca di quel qualcosa che fra i due arrivavano le mogli preoccupate, sempre solerti, a portarseli via, anch’esse molto abili a fingere per quel onnipresente occhio della gente, a volte grande come quello di Dio.

    La piazza di sotto, vista dalla consorella di su era come un grande cortile di sampietrini in parte saltati via, accidentato dagli anni che gli davano un aspetto dimesso. Una mano enorme, aperta con i segni del tempo. Due vie, due viuzze e un vicolo cieco erano le sue dita da vecchiaia ossuta, le sue vene del vai e vieni.

    Era la seconda centrale nel vissuto dei paesani, racchiusa da case alte, impettite, a ricordarsi l’un l’altra la propria antica nobiltà.

    Una piazza dove i bambini vi giocavano in libertà sotto gli occhi vigili delle donne più anziane simili ad elefantesse. Protettrici accorte che mentre lavorano a maglia coltivano il pettegolezzo come un’arte che dà vita al dialogo, che apre a nuove ipotesi verso la conquista della verità, vanto poi della propria supposizione, lasciando ad altre donne la maldicenza ritenuta il pettegolezzo incattivito.

    Quella di sotto non era un grande piazza, ma quasi a spregio di una ventilata ricchezza aveva di tutto per la sopravvivenza e per i vizi: il pane e la pasta, il sale e il fumo. Dove si passava dal fiasco al fisco, come disse un uomo uscito dall’osteria andando a pagare le tasse.

    I vecchi ci stanziavano messi fuori a cercare quando il soli e quando l’ombra. Chi più e chi meno intossicato dalla noia. Chi inquinato dall’ozio, raggiunta la pace dei sensi o no a guardare le ragazze che passavano, morsicati dentro dalla rabbia di non essere giovani. Anime in pena, da valle di Giosafat, in attesa di giudizio.

    Piazza e vicoli dove anche i polli ci stavano indisturbati: i maschi con il conto alla rovescia fino alla festa del Santo Patrono dietro alle galline dal vistoso nastrino colorato cucito su una zampa per quel segno di riconoscimento che usavano tutti. I polli femmine erano galline padovane, livornesi o nostrane , tenute in vita per l’uovo fresco da sbattere per il figlio più gracilino e per altre uova da cova o da vendere o da barattare. Da mettere da parte, quando per l’anno nuovo ogni gallina torna all’uovo, conservate sotto la semola per le pizze di Pasqua e per il prete il giorno della benedizione annuale delle case.

    Una piazza da piccolo parlamento delle ciance. A darle colore pensavano i tanti gerani, diadema e chioma della fontana bella, con i rami penduli che cercavano di coprirne l’età. Come a una signora, dagli anni scalpellati nel marmo con la conchiglia dei tritoni da dove l’acqua scendeva silenziosa: una sequenza di gocce che si tengono per mano, per cadere in punta di stilla nel vascone di sotto. Senza far rumore.

    Quando era tempo ad ingentilire la piazza di sotto pensava la primavera con il grande glicine aggrovigliato sotto la casa di Dora che le dava altro colore, altro profumo, da richiamo per api e farfalle, come lo era per la gente quello forte del baccalà e delle aringhe esposte dai negozianti.

    Le donne, simili a uccelli di passo, o dall’acqua o per la spesa quotidiana, tanto per dire o per sapere, una sosta a piazza di sotto ce la facevano tutte.

    Da sul balcone faceva piazza anche il pappagallo di Sora Sofia tanto triste dopo la morte della sua padrona. Povero Loreto, erano anni e ancora non se ne dava pace. Non parlava più: il modo dei pappagalli di portare il lutto. Ma quando gli prendeva la smania tirava via per ore a chiamarla per nome. E non dava retta e nessuno. Neanche ai

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