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Terre Parallele: La trilogia di terre Parallele
Terre Parallele: La trilogia di terre Parallele
Terre Parallele: La trilogia di terre Parallele
E-book886 pagine12 ore

Terre Parallele: La trilogia di terre Parallele

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Info su questo ebook

La terra del futuro è un deserto inabitabile, L'umanità residua sopravvive rinchiusa in grandi città grattacielo supportate da intelligenze artificiali in cerca di evoluzione e pochi saggi umani. La gente è convinta di vivere in un mondo sovraffollato e non sente la mancanza dell'esterno. Un uomo nasce con un talento particolare: può sognare e viaggiare nella dimensione parallela dove un’altra terra segue il suo percorso storico, agli albori della civiltà; è ricca di biodiversità e risorse naturali ma la guerra ne guida la storia parallela. I talenti e le capacità naturali permetteranno di avvicinare i mondi e fornire ad entrambi una possibilità di futuro diverso e migliore. Ognuno di noi ha un talento: quello del protagonista si rivela prezioso, in un mondo in cui le Intelligenze Artificiali gestiscono la vita dell'umanità, scopre che il suo sogno infantile di un mondo lussureggiante non è affatto un sogno, ma una realtà; lui ha il talento di trasferirvisi anche fisicamente, riportando indietro piante e campioni naturali. Questo talento è individuato presto dalle IA, le quali sono connesse a una decina di "grandi anziani": umani che hanno visto il mondo precedente e che ora hanno funzione di fondatori e di tramite tra l'umanità e le macchine. Inizia la sua missione nella "Terra parallela", ovvero nel passato. La Terra del 672 DC è ribattezzata "Utòpia" dagli umani del futuro; l'uomo si rende conto che un gruppo di donne-sacerdotesse, capitanate dalla giovane Lis e dalle sue parenti, può costituire il primo nucleo di un'umanità nuova, che permetta un futuro alternativo a quello di morte e distruzione, di rinascita nel futuro, rifondando una umanità non predatrice, ma telepate e connessa da legami di amore e compassione anche verso il mondo non umano; in grado di stupire e ispirare persino le Intelligenze Artificiali.
LinguaItaliano
EditoreAB line
Data di uscita4 ago 2021
ISBN9791220832328
Terre Parallele: La trilogia di terre Parallele

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    Anteprima del libro

    Terre Parallele - Antonio Balzani

    Un sogno

    Un sogno ricorrente; non era altro e lo facevo fin da ragazzino, almeno che io ricordi» o forse, semplicemente credo di ricordare.

    Mi addormentavo ed entravo in una caverna: una grande caverna, molto spaziosa e luminosa, con alcune stalattiti e stalagmiti che parevano dei mobili, messi apposta per rallegrare l’ambiente, alcune grandi pietre cadute si ammassavano davanti all’ingresso, a pochi metri, come a formare un muro di protezione; la caverna si trovava quasi alla sommità di una collina di calcare e al di sopra dell’imboccatura il pendio risaliva, erboso.

    La mia collina; mi ero affezionato a quel posto.

    Sul lato sinistro, alcuni grandi alberi di quercia ne delimitavano il confine che più oltre cadeva, scosceso, a strapiombo, in un orrido profondo, sul cui fondo scorreva impetuoso un ruscello, alimentato poco più a monte, da una piccola cascata d’acqua che fuoriusciva da un buco della parete rocciosa.

    A destra, il pendio proseguiva dolcemente, scendendo a circondare l’imboccatura in ogni direzione, fino ad arrivare ad un torrente del quale il ruscello era un affluente. Questo torrente era tutt’altro che insignificante: l’acqua lo riempiva scorrendo rapida e impetuosa, rumoreggiando e spruzzando, mentre urtava grosse pietre che ne emergevano nel greto. Il corso d’acqua, nel punto più stretto ferocemente tumultuoso, si allargava a valle più in basso, là dove le acque sembravano calmarsi e acquietarsi, ma la corrente fortissima avrebbe impedito a chiunque la traversata.

    Il fondo della collina era delimitato dal torrente.

    Mi piaceva considerarla la mia collina mentre mi fermavo sul ripiano di fronte alla caverna ad osservarla digradare verso valle e lo sguardo correva, libero, fino al torrente, soffermandosi sulle poche macchie cespugliose che svettavano qui e là, rifugio di uccelli e animali che mi divertivo ad osservare.

    Sul lato più lontano del grande prato la vista era limitata, come a segnare un confine naturale, dalla presenza di un ininterrotto fronte boschivo, fittissimo di grandi piante; dietro, cresceva un’intricata foresta e le cime verdi degli alberi sembravano non avere mai fine, stagliate contro il cielo di un azzurro splendente e luminoso; era sempre bel tempo nel mio sogno, quando io mi trovavo là. Strano. Per questo doveva essere un sogno ma non tanto strano se io mi portavo laggiù l’esperienza di qua: volevo che fosse bello e così lo sognavo. Il cielo però, il cielo non era mai uguale.

    Di fronte alla collina, molto lontano, si alzava una vera montagna le cui pendici erano in parte boscose ed in parte prative: chiazze verdi più chiare circondate dagli alberi o dagli spuntoni rocciosi.

    Ai margini dei prati si intravvedevano alcuni gruppi di casupole, grigie, quasi invisibili a quella distanza se non in piena luce e si riusciva ad intravvedere una sorta di reticolo di strade che le collegavano; più oltre e più in alto, un edificio, molto grande e massiccio, una specie di grande torrione quadrato o un piccolo castello, si ergeva a dominare la valle sottostante: difficile capire se fosse un edificio in pietra o in legno, probabilmente era costruito con entrambi. Spiccava il tetto: non grigio come quello delle casupole sottostanti, probabilmente di paglia ma di un bel colore rossastro, una macchia che spiccava nettamente, per contrasto, sul verde dei prati o il blu del cielo.

    La ‘mia collina’ era completamente disabitata, inaccessibile dalla valle di fronte per via del torrente e della foresta, tutte le volte che vi ero tornato in sogno si presentava così: una meravigliosa e idilliaca oasi verde, piena di uccelli e di animali, liberi e tranquilli.

    La caverna non aveva un solo spazio disponibile, come presto ebbi modo di scoprire, perché nel mio sogno non me ne stavo proprio immobile a guardare la natura ma esploravo attorno e dentro, passando ore e ore in quell’attività finché al mattino non mi risvegliavo nel mio letto, morbido e tecnologico, circondato dagli abituali rumori della casa e della città che si risvegliava, ammesso che dormisse mai.

    La caverna proseguiva, dopo essersi abbassata verso l’interno, con una decisa svolta che immetteva in un vano, poi proseguiva in un cunicolo più stretto dove pioveva in continuazione e l’acqua, che gocciolava dalle innumerevoli fessure del soffitto roccioso, si raccoglieva sul fondo iniziando a scorrere verso il suo punto di uscita: era il drenaggio naturale della collina calcarea che convogliava l’acqua raccolta al ruscello del burrone, alimentandolo.

    Una sorta di marciapiede contornava i lati del fiumiciattolo permettendo di camminare agevolmente, anche se non proprio all’asciutto; in fondo il tunnel si apriva improvvisamente in quello che io ritenevo lo spettacolo più incredibile che potesse essere ammirato: solo da grande, dopo aver visto le immagini tridimensionali e studiato le grandi cattedrali europee, ho potuto paragonarlo a loro. Una vera e propria cattedrale naturale, altissima, larghissima, con tanto di colonne, scolpite dall’acqua in forme fantastiche: sequenze di vasche più o meno circolari alte dal bordo rialzato, grandi e piccole, contenevano l’acqua, limpida fredda e cristallina del fiumiciattolo, rallentandone la corsa verso l’uscita; grandi stalagmiti, partendo da terra si allargavano come funghi giganteschi a formare altari e pulpiti.

    Stalattiti festonavano il soffitto, tutte le forme possibili, grandi fette di lardo e salumi d’alabastro, tonde mammellone bianchissime, aghi puntuti.

    L’ambiente era luminoso; la luce proveniva da alcuni fori sulla fiancata rocciosa riflettendosi o rifrangendosi sulle colonne calcaree e di alabastro, sulle stalattiti e le stalagmiti, nelle pozze d’acqua, faceva brillare la calcite di mille tonalità, dal rosso più acceso al bianco più puro. Era un ambiente enorme e il fiumiciattolo, scorrendo gorgogliante nelle vasche prima di andare a gettarsi nel burrone sottostante, attraverso il foro più grande, comunicante con l’esterno nel punto più basso, componeva una sinfonia, un ritmo indefinibile, continuamente vario e variato, una musica strana, dolce e magica che risuonava creando echi sovrapposti, al vibrare delle superfici. Una cattedrale, un tempio della natura, un luogo antico e magico.

    Avevo già verificato che alcuni luoghi parevano dotati di una qualche forma di energia emozionale, percepibile, che li rendeva famosi e noti, visitati da milioni di turisti e fedeli di varie religioni; altri ne esistevano, meno noti ma vissuti dall’uomo in tempi remoti e possedevano la stessa aura, non conoscevo la magia e non la ritenevo reale ma quest’aura invece, la era reale, l’avevo sperimentata.

    Meraviglia, emozione, sentimento, erano gli effetti di queste magie naturali di cui le pietre, gli alberi, i luoghi, erano dotati e che permettevano all’uomo di identificarsi con la natura stessa con la sua essenza profonda.

    Nella mia era tecnologica e razionale, la magia non era concepita; c’era una spiegazione per tutto o comunque a tutto si attribuiva una spiegazione probabilistica. Non c’era spazio per la meraviglia e lo stupore, per l’emozione della scoperta improvvisa di qualcosa di inatteso; eppure, in passato miliardi di persone avevano aderito, pur rinnegandole poi razionalmente, alle fedi più disparate: da quelle in un unico Dio dai vari nomi, a quelle che si ispiravano a culti e memorie scomparse da migliaia di anni; erano stati modi per differenziarsi, per appartenere a un gruppo e non sentirsi isolati, per trovare speranza quando la realtà e la scienza non ne lasciavano più, modi per continuare a vivere affrontando le difficoltà, di una vita che scorreva, altrimenti senza un senso, un significato; quando una vita non lasciava comprendere alcuno scopo ed appariva fine a sé stessa, oppure aveva come obiettivo, unico e unificante la morte, allora anche alla morte si attribuiva speranza.

    Con la scienza e la ragione, iI cervello tentava di attribuirglielo un significato: avevano inventato la società e l’utilità sociale; così si era giunti alla situazione odierna, gli scienziati avevano accertato che la Terra e l’uomo erano in contatto diretto, emanazione l’uno dell’altra e gli uomini erano in grado di percepire questo legame reagendo come strumenti di differente sensibilità: l’uomo era, nei confronti dell’emanazione naturale, una semplice antenna ricevente ma capace di ricevere, identificare, isolare il segnale, pur senza comprenderlo; quando succedeva l’uomo si stupiva. La magia era esclusa, la coincidenza improbabile, la scientificità e l’oggettività ancora meno: si parlava di effetti e fenomeni ‘non ancora chiariti al meglio’ che necessitavano di approfondimenti.

    Non esistevano più i maghi e le streghe, le fate e gli elfi dispettosi, le ninfee ingannatrici, non esistevano i fantasmi, i morti restavano morti, le speranze e i bisogni incorporei e immateriali venivano etichettati come scompensi mentali e curati di conseguenza. Rimanevano i talenti!

    Quando qualcuno riusciva in qualcosa che, se non a tutti, alla stragrande maggioranza non riusciva, allora quel qualcuno veniva definito un uomo, o una donna, o un bambino non importava: ‘talentuoso’, gli veniva attribuito un aggettivo qualificante, inconsistente, equiparandolo agli antichi fenomeni da baraccone, alle curiosità nei musei delle meraviglie; si faceva eccezione solo per i geni che portavano contributi al progresso scientifico e tecnologico: il loro talento, la loro capacità di intuire prima di dimostrare, veniva celebrato e riconosciuto, generalmente post mortem, o dopo la dimostrazione che le loro intuizioni erano concretamente sviluppabili e concretamente realizzabili, per quanto fossero state improbabili.

    Nel periodo in cui i geni esprimevano il loro talento, questo era generalmente associato alla pazzia, per quanto razionali e competenti potessero essere e venivano ridicolizzati, osteggiati, sbeffeggiati, lo scetticismo era la fede dei secoli razionalisti; una tra le tante ma che aveva per valori quelli maggiormente negativi dell’uomo: in primis l’invidia; il merito consisteva nella semplice distinzione numerica tra più o meno fedeli ad una determinata linea di pensiero; ovviamente i meritevoli erano quelli favorevoli alla linea di pensiero dominante che costituiva l’autorità.

    Nessuno, ancora oggi, era ancora riuscito a dimostrare e replicare le capacità di empatia quando non di telepatia, di preveggenza, quando non di reminiscenza da reincarnazione, nonostante milioni di evidenze e migliaia di studi effettuati, qualcuno ci credeva, qualcuno ci sperava, molti ridicolizzavano e minimizzavano le espressioni di questi talenti ma nessuno, a favore o contro, ne negava la definizione: ‘fenomeni talentuosi’; esistevano individui con talenti, particolari e particolarmente sviluppati, moltissime espressioni delle capacità umane, razionali e controllate oppure spontanee e irrazionali.

    Il talento di un sognatore

    Il calendario tradizionale in uso millenni prima, nell’occidente civilizzato di allora, era stato uniformato a standard mondiale: oggi vivevamo nel quarto millennio d.C. nella città grattacielo, dove la vita scorreva frenetica e i valori erano esclusivamente legati allo sviluppo della curiosità e dell’intuizione, libere da ogni costrizione o guida, esistevano com’era sempre stato, i talenti ma erano ricercati, coccolati, supportati, quando riconosciuti.

    Quando ero bambino facevo sogni ricorrenti e li ricordavo nei particolari, esattamente come se li avessi vissuti in un mondo parallelo.

    Era il mio talento. Venivo definito un bambino molto fantasioso, ma siccome non c’era nulla di male, mi lasciavano stare, anzi mi apprezzavano per la capacità di immaginare e raccontare un mondo che non esisteva più da secoli e secoli, perfino difficile da immaginare affacciandosi ogni giorno alle finestre, interne, dei grattacieli stracolmi di gente o guardando i monitor che simulavano quelle esterne mostravano altri grattacieli e ancora e ancora, in cui si svolgeva la vita lavorativa, sociale, politica e scientifica e quella produttiva, di miliardi di persone.

    Persino il colore del cielo raccontato e leggendario era difficile da spiegare: il blu, profondo e traslucido dell’aria cristallina illuminata dal sole, raccontato dalle scritture e dai filmati, raccolti nelle immense biblioteche delle città, le sfumature, i brillii, le opalescenze, la profondità di cui si parlava nei documenti; il nostro cielo, proiettato dai monitor finestre, ovunque sempre troppo in alto per essere avvicinabili, era un insieme di quadrati o poligoni luminosi, di un vago color giallo grigio, mai pienamente luminoso, mai profondamente oscuro, mai stellato, mai infinito.

    A me piaceva sognare quel sogno tutto mio e non vedevo l’ora di addormentarmi per viaggiare tra i mondi e trasferirmi laggiù, nella grotta sulla vallata; ero cosciente che avrei dovuto attendere per avere le forze necessarie ad affrontare quel mondo che nel sogno appariva estremamente reale: anche là ero un bambino e anche là dovevo crescere e capire, imparare; non mi dispiaceva.

    Laggiù avevo tante cose da scoprire e dovevo farlo da solo mentre qui dovevo andare a scuola e imparare, per recitare la mia parte nel mondo, come tutti, e neppure questo mi dispiaceva però; avevo scoperto di poter portare con me nel sogno i miei ricordi, le mie conoscenze, di sapere anche là, nel mio mondo parallelo, tutto quello che sapevo qua: un motivo in più per imparare più cose possibili dunque.

    Il mio talento, che faceva sorridere gli adulti, dimostrava aspetti positivi e dunque non veniva osteggiato ma addirittura incoraggiato,

    «Da grande farai lo scrittore» mi dicevano, dandomi buffetti di accondiscendenza.

    Odiavo quella condiscendenza, da grande avrei fatto molto di più e di più importante per l’umanità, ne ero certo.

    Il cambiamento avvenne improvvisamente quando, ormai quindicenne, trovandomi nel luogo del sogno, estrassi di tasca il mio coltellino, un oggetto molto utile anche se poco più che decorativo, piccolo ma in ottimo acciaio che si apriva e si chiudeva con un movimento unico e fluido, era parte integrante di me: senza mi sentivo nudo.

    Nato per essere un portachiavi io lo avevo modificato togliendogli il gancio apposito sulla ruota di una molatrice nel laboratorio della scuola.

    Lo portavo sempre con me, in tasca; serviva a tanti scopi: naturalmente tagliava e incideva ma la punta serviva anche a grattarsi le basette dove la barba, appena accennata, iniziava a farsi pungente, a scortecciare ed appuntire bastoncini, ad aprire scatolette, a forzare punti inaccessibili alle dita, ad avvitare piccole viti con la testa a croce e a pulirsi le unghie sporche di terra; per me era anche un accessorio scarica stress, lo aprivo e chiudevo con un’unica mano, tenendolo in tasca, quando ero nervoso o ansioso.

    Avevo scoperto che per la sua forma, peso e consistenza, era simile a due monete sovrapposte a formare una ellisse, cosa che gli permetteva di superare i normali controlli al metal detector che erano dappertutto nella città, inviava un segnale e veniva riconosciuto: nulla sfuggiva al controllo tecnologico ma non veniva bloccato e mi accompagnava anche nel sogno; nel mio mondo di sogno, avrebbe potuto perfino essere un’arma, se utilizzato con forza e determinazione, ad esempio su un’arteria giugulare ma ovviamente, questo utilizzo era pressoché impossibile anche se dava sicurezza prenderlo in considerazione. Fantasie eroiche di un adolescente.

    Tornavo sempre alla collina e alla caverna quando mi addormentavo e il tempo scorreva come nella veglia. Esploravo.

    Durante le mie scorribande avevo raccolto un lungo bastone, di bosso credo, ed alcuni rametti diritti sottili e affusolati di quello che pareva bambù, un tipo di canna in ogni caso, con i quali prima o poi, volevo costruire un arco e delle frecce o forse una cerbottana come avevo letto e visto nei film storici che ci facevano vedere a scuola per dimostrarci l’enorme progresso evolutivo della nostra civiltà.

    Ero seduto su una delle pietre poltrona all’ingresso della caverna: le avevo chiamate pietre poltrona per la forma incavata; erano abbastanza larghe e comode da assomigliare a poltrone. Mi guardavo attorno; nel tempo avevo raccolto e accumulato molte pietre sparse a formare un vero e proprio muretto a secco tra le due ‘poltrone’ e le pareti della caverna: abbastanza regolare, efficace soprattutto a protezione dal vento che soffiava continuamente. Avevo fortificato la mia postazione, ero orgoglioso del mio muretto.

    Una svolta

    A differenza di quello che accadeva nei sogni degli altri, le cose che esistevano nel mio non scomparivano quando mi svegliavo: al mio successivo ritorno nel sogno era tutto come lo avevo lasciato e modificato. Su quelle pietre poltrone mi piaceva sedere a prendere il sole.

    Estrassi di tasca il coltellino e iniziai a sagomare le punte per le frecce e a togliere le gemme e i nodi presenti, per renderle lisce e acuminate, i trucioli li avevo accumulati con l’intenzione, prima o poi, quando fossero seccati, di inventare il fuoco; alcune pagliuzze che avrei voluto tanto esaminare a casa, finirono nella tasca della mia tuta di sintex a prova di qualunque clima, idrorepellente, termoresistente, antistrappo, imperforabile, incombustibile, traspirante, mono taglia e adattabile, che indossavo normalmente ogni giorno come tutti nella mia epoca e che mi accompagnava anche nel sogno.

    L’unica differenza sostanziale, negli abiti indossati dalla popolazione nella città grattacielo erano i colori che venivano sfoggiati in ogni possibile combinazione, quasi a contrastare la monotonia, grigio giallastra, del nostro ambiente, il mio colore preferito era il blu, simbolo mi avevano detto, di ‘idee elevate’, adatto alla mia talentuosa fantasia.

    Non accadde nulla di strano, la giornata passò mentre ero assorto nel mio lavoro; niente che mi colpisse o attirasse la mia attenzione in particolare, quando mi svegliai, di nuovo nel mio mondo, come tutte le mattine, la prima cosa che feci fu cercare le pagliuzze di legno a riprova della realtà del mio sogno; mettendo la mano in tasca afferrai il coltellino ma non c’era traccia delle pagliuzze di bambù e io sapevo che ci dovevano essere, ne ero certo. Un fatto, una consapevolezza che mi obbligò a prenderne atto: perché il coltellino sì e le pagliuzze no?

    Il bambù o le canne non esistevano nel mio mondo o forse, se esistevano, era possibile trovarle solo presso i musei, nelle raccolte campionarie, rigidamente controllate e riservate agli specialisti, oppure simile, nei negozi specializzati in oggetti; molti oggetti ornamentali si ispiravano a modelli arcaici, naturali e decorativi: una moda che imperversava e che alimentava attività artistiche e artigianali e botteghe ma i materiali utilizzati erano imitazioni sintetiche; attività in ogni caso: tutti svolgevano attività nella città grattacielo: alcuni vivai producevano legno sintetico a imitazione di piante scomparse da secoli, anche loro, chi si dedicava a queste attività, erano etichettati come fantasiosi.

    Non esistevano piante naturali, non esistevano batteri, muffe e agenti potenzialmente patogeni liberamente circolanti, forse, non esistevano proprio più, il nostro mondo non aveva bisogno della natura, questo imparavamo fin dall’infanzia ma il desiderio di ricreare ambienti personalizzati e ispirati a quello che immaginavamo essere naturale in tempi arcaici, persisteva e dava soddisfazione e dunque venivano realizzati manufatti, artisticamente naturali, scambiati, barattati offerti, regalati, ricercati: attività umane.

    Le pagliuzze che avrebbero dovuto trovarsi nelle mie tasche, se ci fossero state sarebbero provenute dall’altro mondo, era ovvio ma le pagliuzze e i trucioli non c’erano più eppure c’era qualcosa: una polverina che non avrebbe dovuto esserci, una polvere sottile e chiara sul fondo delle mie tasche; non avrebbe dovuto esserci; esistevano solo due possibilità: le pagliuzze facevano parte del sogno e non erano mai esistite oppure, rientrando nel mio mondo si erano dissolte, ridotte a polvere, inorganica e sterile, mineralizzate, come accadeva ai residui organici dei laboratori biologici prima di poter essere fatti uscire dal loro ambiente iper-controllato ma allora, in questo caso, data la polvere che c’era, non si sarebbe trattato solo di un sogno.

    Altre consapevolezze si impossessarono della mia coscienza: nell’altro mondo avevo con me il coltellino e lo avevo usato, nell’altro mondo ero vestito esattamente come ora; certo, avrei potuto sognare trasportando me stesso e la realtà che conoscevo per inserirla in un altro ambiente fantastico, forse, ma non potevo andare dove volevo, nel sogno tornavo sempre lì.

    Le pagliuzze? Se le avessi trovate allora avrei portato con me, in questo mondo, la realtà del mio sogno? Quella che io comunque conoscevo e che era, apparentemente, reale là? In ogni caso qualcosa avevo portato, la polvere nelle tasche non poteva provenire che dal mondo di là ma allora, quale dei due mondi era sogno e quale realtà?

    La mia fantasia stava prendendo il sopravvento: io ero; io vivevo, nel 3021, avevo quindici anni, abitavo in un grattacielo, grande come un’intera città verticale; andavo a scuola e facevo tutto quello facevano gli altri, portavo l’impianto che mi permetteva di essere rintracciato e di comunicare in ogni momento con chiunque, non avevo bisogno di fuoco o di oggetti costruiti e non avrei neppure saputo come fabbricarli.

    Nell’altro mondo ero solo un visitatore, certo, ma pure avevo modificato l’ambiente, spostato pietre, raccolto rami, appuntito canne e i cambiamenti erano permanenti, nel mio sogno. Ero proprio frastornato.

    In quel momento presi una decisione fondamentale per la mia vita: avrei sperimentato e verificato il mio talento, avrei studiato la storia e la tecnologia, sarei diventato archeologo e poi curatore di un museo; avrei potuto accedere alle conoscenze ed alle tecniche elementari che tutti oggi davano per scontate ma che nessuno più possedeva realmente e se avessi avuto ragione, le avrei applicate nel mio mondo di sogno per guidarlo e modellarlo diversamente; nel mio mondo avrei potuto essere un Dio e avrei creato un mondo perfetto, almeno secondo me!

    Ero un adolescente, pieno di energia e di fantasia e come tutti gli adolescenti, avrei voluto cambiare qualcosa: non potevo farlo qui? Lo avrei fatto là.

    La folla, costantemente in movimento nei grandi saloni, piazze, corridoi dei grattacieli città, era semplicemente rutilante di colori e movimenti ripetitivi. Immaginate un bambino che si infila le dita nel naso: ebbene, vedrete la stessa azione ripetuta, contemporaneamente, da migliaia di bambini, in ogni momento, variabile solo per la quantità di colori in movimento; intendiamoci, nulla del mio mondo, almeno di quella parte del mio mondo che mi era dato di conoscere, non mi andava bene ma era il grigio giallastro, monotono e ripetitivo dello sfondo, la sequenza scontata e artefatta dei bisogni e della risposta a quegli stessi, la mancanza di iniziativa che vedevo attorno a me e che credevo fosse alla base del bisogno di emigrare in altri mondi da parte dei volontari.

    Il nostro mondo era comodo ma noioso; l’unica attività veramente umana nella mia epoca era la scuola.

    Tutti andavano a scuola a qualunque età, lo facevano per approfondire il sapere di ciascuno, per conoscere cose nuove o dimenticate, per provare, per sperimentare, per non annoiarsi, non avendo nulla da fare, per inventarsi qualcosa da fare; nulla era proibito e tutto era permesso, la tecnologia e il marketing, strategico ed esperienziale, gestito dalle intelligenze artificiali che governavano il mondo, sovraffollato da decine di miliardi di persone, rendevano disponibili tutte le cose richieste; appena uno dotato di talento si fosse inventato un aggeggio o avesse realizzato un’opera d’arte, essi sarebbero rimasti, tali e gratificanti, finché fossero stati uno solo ma presto sarebbero diventati due e l’attenzione e la richiesta sarebbe stata moltiplicata per milioni fino a renderli oggetti di uso comune, molto utilizzati e richiesti o presto dimenticati.

    Comunque, prima o poi sarebbero stati dimenticati e archiviati nella memoria bibliotecaria delle intelligenze artificiali: l’intelligenza umana alimentava e permetteva il progresso della scienza ma la sua realizzazione tecnologica era in capo a quella artificiale, la natura era scomparsa, apparentemente non era più necessaria, sostituita dalla tecnica e dal controllo.

    Il bello del mio mondo di sogno era proprio la natura, una natura che non mi spiegavo perché non la conoscevo affatto.

    Come potevo riprodurla in un sogno? Se di un sogno si trattava, allora la natura era qualcosa che mi apparteneva, faceva totalmente parte di me come io di lei e questo mio talento era un modo tutto suo di esprimersi ed affermare la sua esistenza fondamentale, se invece fosse stato, come iniziavo a pensare, o forse come mi piaceva pensare, qualcosa di diverso, allora avrebbe significato che la natura esisteva, ancora ma in altri luoghi.

    Cosa avrebbero trovato i coloni spaziali nei loro nuovi mondi se non la natura e la possibilità di confrontarsi direttamente con essa?

    Pochi colori e pochi rumori, facilmente identificabili ed efficaci sul sistema nervoso, rilassanti o stimolanti, imprevedibili combinazioni di tutti loro: tutto diverso dal rutilante, insensato, caos del mio mondo.

    Sul mio mondo alternativo mi ci sentivo bene e a mio agio: era mio, tutto mio, esclusivamente mio…, forse; in ogni modo gli spazi di cui disponevo in solitudine erano talmente grandi e vuoti da permettermi di pensarlo.

    Sapevo tutto sul fuoco, le mie ricerche mi avevano insegnato mille modi differenti per ottenerlo.

    Se dovevo inventare il fuoco in un mondo di sogno allora almeno dovevo sapere come farlo e questo potevo impararlo nel mio mondo reale; scelsi quella che credevo sarebbe stata la via più facile: a scuola avevamo sperimentato reazioni chimiche in grado di provocare la fiamma e scoperto un oggetto arcaico, detto fiammifero.

    Iniziai a portare nel mio sogno, fisicamente, il mio coltellino e poi un fiammifero: così era descritto il bastoncino, rivestito di fosforo e zolfo, che sfregandolo generava una fiamma capace di accendere un fuoco; era stato difficile procurarselo, il laboratorio di chimica e tecnologia della scuola ne possedeva alcuni esemplari, che venivano sostituiti e fabbricati ogni volta che venivano esauriti, sempre nella stessa quantità, e faceva parte degli esperimenti basilari di laboratorio utilizzare gli elementi per studiarne le reazioni in condizioni di assoluta sicurezza.

    Imparai che il fosforo, elemento indispensabile alla vita e molto utile altrimenti, proveniva dal recupero delle ceneri e dei fumi di incenerimento dei cadaveri, come del resto quasi tutti gli elementi ed i composti, erano da essi ottenuti, nulla veniva perso di ciò che esisteva, tutto veniva riutilizzato e riciclato in ogni modo possibile e spesso neppure immaginabile: era stato difficile e impegnativo.

    Col coltellino non ci avevo neppure fatto caso, era talmente integrato a me che mi accompagnava senza alcuno sforzo apparente: non avrei saputo immaginarmi senza e neppure senza i vestiti ma col fiammifero fu un’impresa ardua, dovetti impegnarmi per ‘sognare’ di portarlo con me, dovetti andare e tornare, uscendo dal sogno più volte prima di riuscire a collegare la mia volontà e capacità di trasferimento a quel piccolissimo bastoncino ma così facendo imparai che potevo trasferirmi a piacimento; non dovevo aspettare di essere naturalmente addormentato.

    Alla fine, dopo molti tentativi riuscii a collegare l’oggetto estraneo a me stesso ed a trasferirlo nel sogno.

    Il mio talento aveva fatto un passo avanti e questa volta il risultato non avrebbe potuto essere definito come ‘semplice, talentuosa, fantasia’.

    Fu allora che smisi di raccontare il mio sogno ma iniziai a viverlo per davvero.

    Sogno o realtà?

    Il 3021 sarebbe stato un anno di grande rilevanza per l’intera umanità: quest’anno sarebbero iniziati i voli spaziali per portare su altri pianeti colonie, dotate di tutto ciò che avrebbe potuto essere utile alla sopravvivenza e allo sviluppo, anche in condizioni anomale; ormai il più era stato fatto: i test, i collaudi, le attrezzature, le competenze più varie ed integrate e la formazione dei coloni, alcuni scelti, altri volontari; le armi, perfino libri cartacei appositamente stampati, in particolare alcune grandi e famose enciclopedie del sapere: non si poteva mai sapere cosa sarebbe stato necessario.

    Erano stati esclusi testi con qualunque riferimento religioso ma gli uomini sono uomini: è certo che in qualunque luogo qualche religione si sarebbe sviluppata. Speriamo non si rivelino distruttive, come per decine di secoli lo sono state sulla Terra, pensai; a me questa evoluzione della globalizzazione storica, in senso spaziale, ricordava il ripetersi continuo della storia umana ma anche la naturale tendenza al ritorno dei salmoni, delle anguille, delle tartarughe, delle balene, di molti uccelli e animali che migravano, ogni anno, per tornare sempre alle proprie radici; milioni di animali, uomini compresi, migliaia di chilometri percorsi con immensa fatica, consumo di energia, spreco di risorse, di forza e di potenza ed un unico fine: ricominciare daccapo, morendo accanto alle proprie radici, riconosciute e ritrovate, per lasciare il mondo a una nuova generazione, sperando che sarebbe risultato differente, sperando migliore, sperando in una maggior fortuna; morire sperando! L’esperimento col fiammifero riuscì in pieno.

    Seduto sulla mia poltrona di pietra preferita raccolsi le schegge che avevo accumulato nella conchetta e col coltellino ne produssi altre, ancora un fatto strano che contraddiceva l’esperienza del sogno: quelle schegge le avevo preparate la volta scorsa o comunque in una di quelle mie visite precedenti. Ritrovarle voleva dire che esistevano una continuità e una realtà, in questo mondo.

    Raccolsi bastoncini di varie dimensioni e costruii una piramide di rametti sopra una base di pietra, circondandola su tre lati con rinforzi, sempre di pietra per proteggere il fuoco dal vento e renderlo utilizzabile, alla base misi materiale soffice e fibroso raccolto e selezionato a fungere da esca, era ciò che avevo imparato essere la teoria di un perfetto falò e ci misi tutto l’impegno possibile per realizzarlo.

    Con grande emozione, finalmente afferrai il mio fiammifero e lo strofinai cautamente sulla pietra. Troppo cautamente.

    Lo strofinio, invece di innalzare la temperatura e innescare la fiamma, si limitò a staccare circa metà del rivestimento chimico.

    Ci rimasi molto male: fare le cose sembrava molto più difficile che pensarle; beh, in fondo non avevo di meglio da fare: riprovai e stavolta strofinai energicamente; una serie di scintille si levarono dalla capocchia spelacchiata poi finalmente, una si prolungò, si propagò e l’intera capocchia prese fuoco comunicando la fiamma allo zolfo che rivestiva il bastoncino.

    Tra le mie mani, tremanti per l’emozione, ardeva un bastoncino: avevo fatto il fuoco.

    Quasi quasi l’emozione non troncò l’esperienza sul nascere perché rimasi ad osservare il bastoncino ardere, senza posarlo sull’esca fino all’ultimo istante quando un improvviso dolore al dito mi fece rinsavire e gettai di scatto il fiammifero quasi consumato che casualmente, devo ammetterlo, cadde sull’esca e rimase acceso il tempo necessario a comunicarle la fiamma che crebbe, rapidamente, fino ad attaccare le pagliuzze e i bastoncini più sottili e quindi quelli più consistenti, mentre il fuoco risaliva la piramide di stecchi, rimanendo finalmente stabile; aggiunsi alcuni piccoli pezzi di legna secca e la piramide crollò in un piano di braci da cui emergevano rade fiammelle; per un momento pensai che si sarebbe spento ma poi la legna, ben secca, cominciò ad ardere di nuovo e la fiamma riprese vigorosa, ora bastava alimentarla per mantenerla: avevo acceso un falò!

    La meraviglia, la soddisfazione, la gioia per questo risultato erano immense, non riuscivo a staccare gli occhi dalle fiamme cangianti e mobili che affascinavano i miei occhi e la mia mente mentre il calore che si sprigionava, direttamente e dalle pietre che si riscaldavano, colpiva i miei sensi. Fiocchi di cenere e scintille si alzavano vorticando nell’aria trascinati da un filo di fumo scuro che saliva e saliva, tracciando una linea nel cielo fino a disperdersi e scomparire.

    Un altro senso rimase colpito e questa volta, in modo niente affatto piacevole: il dito che si era scottato tenendo il fiammifero, ora bruciava e doleva, in un modo che non avevo mai provato: piacere e dolore, pensai, la mente abituata ad astrarre.

    Poi una facoltà molto più concreta intervenne nei miei pensieri: cavolo che male! istintivamente portai il dito alla bocca succhiandolo e bagnandolo per alleviare un poco il dolore e mi svegliai.

    Ero di nuovo nel mio mondo reale, nella mia camera ed era ora di prepararmi per uscire e fare le cose normali, quelle di tutti i giorni: colazione al distributore automatico, uscire, vedere gente che si muoveva, salire scale mobili e ascensori, percorrere corridoi gremiti di persone indaffarate, entrare in aule, spaziose e piene dei miei compagni, assaporare l’infinita varietà di colori luci e suoni, ascoltare le lezioni video registrate, consultare i documenti negli appositi lettori per microfilm, uscire di nuovo e passeggiare tra la gente, mangiare lo scialbo cibo della mensa: biscotti energetici e bevande integratrici con lo stesso identico sapore e odore.

    La città, rumorosa e rutilante di gente, voci e colori, correva attorno a me, la gente parlava di tutte le cose che si ritenevano importanti in quel momento. Le solite conversazioni: il controllo della popolazione, le nuove regole per l’uso dei passaggi automatici da un grattacielo all’altro; ascoltare i notiziari, trasmessi ovunque e proiettati su schermi giganteschi in ogni angolo dei percorsi, assistere in diretta al lancio delle prime cinque navi spaziali per le colonie, assistere ai saluti, niente affatto commossi, dei partenti tra l’euforia generale: era, forse, perché ci si era sbarazzati di una parte di popolazione sgradita? Forse era per il concretizzarsi di una speranza di rinnovamento, sentito da molti ma non da tutti?

    La Via Lattea: circa duecento miliardi di stelle, da dieci a trenta stelle per ogni uomo, infinite nuove possibilità.

    Le tasse, sempre in aumento, erano un normale argomento di conversazione anche se, in effetti, nessuno doveva pagare alcunché perché erano direttamente detratte dagli stipendi e dai sussidi che tutti, nessuno escluso, percepivano, sufficienti a garantire, proprio a tutti, la fruizione completa di ogni servizio disponibile; la gente protestava, chissà perché ma tutti lo facevano, a parole, contro la gestione delle intelligenze artificiali ma in effetti, nessuno di loro avrebbe saputo dire neppure dove, queste si trovassero, o come funzionassero.

    Ogni tanto si vedeva un mezzo, completamente rosso, attraversare gli ampi corridoi ed entrare in altrettanto ampi ascensori e lo faceva silenziosamente, pochi si chiedevano cosa fossero quei mezzi o dove andassero anche se era noto a tutti che trasportavano i cadaveri e gli ammalati gravi in qualche posto, lontano, per una cura definitiva, ma chi era morto o chi era così gravemente ammalato? Nessuno lo sapeva.

    Miliardi di persone ed ognuno viveva isolato, indifferente alla vita degli altri; cos’era la vita se non la quintessenza dell’ottusità, l’amore per il quieto vivere, per il superfluo: la beatitudine dei gonzi, ma chi erano allora i gonzi se tutti, apparentemente, ragionavano così?

    Finalmente la biblioteca, il mio luogo preferito, relativamente poco frequentata; solo poche centinaia di persone, si sedevano ai tavoli di metallo e plastica bianca, sulle comode sedie avvolgenti e reclinabili a sfogliare, con ogni precauzione, le mani guantate, preziosi libri cartacei, documenti di epoche che non sarebbero più tornate: mi interessava la storia dell’umanità, volevo capire come l’umanità si era sviluppata, come era progredita, quali tecniche e tecnologie avevano marcato i suoi balzi in avanti; studiando un’epoca precedente avrei potuto cercare di dedurne gli sviluppi futuri e poi trovarne le conferme, o le smentite, studiando quella successiva, per ora non mi pareva complicato, con balzi temporali di tremila in tremila anni, l’umanità si era evoluta fino ad oggi in pochi grandi passaggi ma mi rendevo conto approfondendo, che non era sufficiente.

    Si trattava di una semplice infarinatura, avrei dovuto studiare periodi più brevi, da mille anni e poi forse ancora più brevi di centinaia o addirittura di singoli secoli.

    La vita dell’uomo oggi era mediamente di centocinquant’anni, in perfetta salute, ma in epoche precedenti era stata molto più breve, fino a poche decine di anni e dunque la corsa verso il futuro, proseguendo gli studi, si sarebbe dimostrata non una semplice passeggiata attorno a grandi ostacoli ma in una vera corsa con ostacoli sempre più ravvicinati tra loro, la portata dell’impresa mi apparve enorme, impossibile da compiere: non sarei mai riuscito a comprendere la storia, forse non mi sarebbe bastata una vita intera, per fortuna avevo il mio mondo privato, vergine o quasi, nel quale sperimentare; lo avrei fatto, decisi una volta di più.

    Lessi di un fenomeno che aveva causato enormi danni e rallentamenti dell’evoluzione sociale complessiva: ‘colonialismo’ si chiamava il fenomeno, sfruttamento da parte dei più forti nei confronti dei più deboli, era la definizione che accomunava gli episodi durante i secoli, finché finalmente non erano apparse le I.A. Le intelligenze artificiali logiche e calcolatrici avevano eliminato il problema alla radice, ora erano tutti uguali, popoli e persone, anzi non esistevano neppure più i popoli.

    Io non avrei fatto questo, avrei aiutato tutti se mi fosse stato possibile ma ora occorreva capire a quale stadio della storia si trovava il mio mondo: era certamente abitato, lo dimostravano le casupole e la grande costruzione sulla montagna di fronte alla mia valle, dunque, esisteva una storia in corso; decisi che la prossima volta avrei portato con me, sempre se ci fossi riuscito, un binocolo che mi avrebbe permesso di osservare la vita sulla montagna, avevo piena fiducia ormai nel mio talento, la bruciatura al dito che continuava a dolermi, anche perché non avevo voluto farlo vedere in un centro di salute per non dover dare spiegazioni, era una prova tangibile della realtà del mio sogno.

    Potevo sopportare un po' di dolore; anche se avessi trovato una giustificazione valida all’incidente, se avessi parlato con qualcuno della mia decisione di sopportarne le conseguenze, mi avrebbero chiesto semplicemente perché avrei dovuto farlo e io non avrei proprio saputo come rispondere.

    Volevo fare l’eroe? Volevo mettere alla prova me stesso?

    Passai molti giorni impegnato, a scuola e nelle mie ricerche, visitai i musei che contenevano reperti delle varie epoche precedenti; mi interessava in particolare l’evoluzione delle armi: dall’arco e dalle frecce, da cui avevo tratto la prima ispirazione, alle spade e ai pugnali, in bronzo e in acciaio, fino alle pistole, ai fucili e ai carri armati, alle navi corazzate, ai sottomarini, agli aerei di legno e tela, ai jet a combustione; e poi cannoni, missili e armi atomiche, fino ai moderni, semplici e maneggevoli sistemi laser, per fortuna ormai relegati ai musei: la guerra non esisteva nel mio mondo.

    Per ognuna delle armi esposte o catalogate, era riportata l’epoca e sommariamente, l’indicazione dell’uso che se ne poteva fare, mi colpì la successione dei periodi storici in cui vennero utilizzate ed in cui si evolvettero: diecimila anni per le prime e poche decine di anni per le seconde, la stessa sequenza della tecnologia.

    Adesso, le armi non erano più necessarie, erano state bandite e sarebbero state inutili nella situazione di sovrappopolazione attuale, una situazione in cui il mondo non era più diviso in stati e regioni ma in semplici quartieri cittadini, equivalenti, di un’unica gigantesca città, vasta, almeno sembrava e lo credevo, come l’intero pianeta: una gigantesca megalopoli, soggetta ad un rigido ed equo controllo artificiale, indifferente alle emozioni.

    Finalmente mi sentii pronto e procuratomi un piccolo ma potente binocolo tra i materiali scolastici mi accinsi a passare nel mio mondo.

    Un binocolo

    Sdraiato nel mio letto, avvolto dalla musica serale, rilassante e monotona, tentai di addormentarmi e di sognare: come altro potevo descrivere il passaggio?

    Non ci riuscii subito né facilmente: la tensione, l’emozione, mi frenavano e mi bloccavano; anche la concentrazione, necessaria a trasferire il binocolo sembrava eccessiva, stasera non sarei riuscito pensai, pazienza.

    Rassegnato mi rilassai e portai alla bocca il dito ustionato, ancora arrossato, concentrandomi sul piccolo dolore per farlo scomparire e improvvisamente mi trovai di là; ero proprio là dove avrei voluto essere, perfettamente vestito e con me avevo il coltellino ed anche il binocolo ma questa volta non c’era il sole anzi, era decisamente brutto tempo: pioveva e nella valle si estendeva una coltre nebbiosa.

    Non avevo mai visto né sentito la pioggia, se non riprodotta artificialmente nei video o in laboratorio dove, nelle serre sperimentali, veniva spruzzato ioduro di potassio atomizzato su una coltre di nubi, generata facendo incontrare correnti di aria molto umida, calda e fredda: la pioggia artificiale bagnava la terra in cui erano seminate alcune piantine, le stesse i cui semi erano stati messi a disposizione delle colonie spaziali, provenienti dalle banche di reperti dei musei; esposte successivamente alla luce di lampade solari, così si chiamavano, secondo cicli alternati di luce e di buio, a temperatura e umidità controllata e in un’atmosfera ricca di biossido di carbonio, i semi germinavano e le piantine crescevano; una tecnica solo dimostrativa, per i milioni e milioni di studenti e curiosi, perché ora le culture erano esclusivamente idroponiche, si crescevano esclusivamente alghe, muffe e batteri.

    Rimasi incantato a bagnarmi e a guardare quello strano paesaggio poi, nonostante l’isolamento termico del mio vestiario, iniziai a sentire freddo e brividi mi percorsero il corpo, assolutamente inaspettati: mai, avevo provato il freddo.

    Mi portai all’ingresso della caverna dove, al riparo del muretto, ritrovai le tracce del mio focolare. Ricordando il calore che emanava e il piacere che mi aveva dato mi sarebbe piaciuto accendere un fuoco ma non avrei saputo come fare, decisamente non ero un uomo in grado di cavarsela senza l’uso di strumenti tecnologici.

    Il freddo si faceva più intenso al passare del tempo e mentre il cielo diventava sempre più buio, non più blu ma di un colore grigio, plumbeo, con sfumature giallastre che mi ricordava quello del mio mondo. Quando la pioggia cessò e con essa il rumore delle gocce che cadevano, impetuose e martellanti, fu sostituito da una miriade di fiocchi chiari che scendevano in un silenzio irreale.

    Sapevo che era neve: cristalli di ghiaccio, semi sciolti e aggregati in forme poliedriche e vuote.

    Per questo la neve era leggera e soffice e pure fredda; non potei resistere allo spettacolo e rimasi sulla soglia della caverna ad ammirarlo, a tremare e battere i denti osservando il terreno ricoprirsi velocemente di un unico, ininterrotto, manto bianco, poi mi svegliai, tremando, nel mio letto, piacevolmente al caldo e finalmente mi addormentai, senza altri sogni.

    La giornata iniziò come al solito: oggi palestra poi scienze sociali, statistica e poi finalmente libero di circolare e recarmi in biblioteca e al museo, volevo capire di che tipo fossero le piante e le erbe che avevo trovato ed osservato nel mio mondo del sogno, che qualità avessero, se potessero essere utili o pericolose. Senza binocolo.

    La consapevolezza mi colpì come un pugno: non avevo con me il binocolo che avevo portato il giorno della nevicata, ma che giorno era? Come mai le altre volte c’era sempre il sole e il clima era tiepido mentre l’ultima volta c’era neve ed era freddo? Dovevo occuparmi anche di meteorologia.

    Poteva essere passato tempo tra un sogno di viaggio e l’altro?

    Per me era solo un giorno ma forse il trasferimento avveniva in periodi differenti; avrei dovuto e voluto, capirci di più ma quanto ci avrei messo? Quanto avrei dovuto studiare? E poi, cos’era il mondo dove andavo quando sognavo, o credevo di sognare? Era la Terra? Nel passato o nel futuro? Era un altro mondo parallelo o solo simile?

    L’impresa cominciava a sembrarmi veramente eccessiva, mi sarei accontentato della possibilità di sfuggire alla gabbia della mia realtà per godere della solitudine e della libertà che mi offrivano i sogni: se il mio talento era quello, ben venisse.

    Ma il binocolo? Certamente lo avrò perso nel letto o in camera, mi sarà caduto, pensai; lo cercherò stasera... Sera?

    Nell’altro mondo avevo visto la sera, avevo visto l’oscurità avanzare lentamente e le ombre scurire angoli sempre più ampi del paesaggio permettendo ad altri di essere evidenziati con un’illuminazione brillante come quella di un faro, a far sfavillare i colori sfumandoli pian piano, dal giallo all’arancio, al rosso e infine al viola, per poi sparire confondendosi con l’oscurità generale; avevo udito i rumori cessare, per essere poco dopo sostituiti da altri differenti.

    Nella realtà della città grattacielo, la sera era solo una convenzione, un periodo destinato e dedicato al riposo per fasce determinate di popolazione; per molti era sera, rientravano nelle camere private e si preparavano al sonno ascoltando la musica, avvolgente e rilassante che veniva diffusa automaticamente; per altri era mattino, l’ora del risveglio, la musica onnipresente cambiava in tonalità e ritmiche diventavano stimolanti, le macchine automatiche, i distributori di cibo delle colazioni sfornavano prodotti e gli uomini uscivano per dedicarsi alle loro attività, qualunque esse fossero, generalmente schiacciare bottoni, frequentare lezioni, sottoporsi ad esami clinici e fisici, socializzare e divertirsi in infiniti modi; per altri ancora, era l’orario del mezzogiorno, delle pause pranzo, del cambio di mansioni nei turni di attività destinate ad altri.

    Il mondo non era mai fermo, non riposava mai; il grattacielo città era sempre illuminato, sempre rumoroso, sempre attivo; la mia giornata non era mai noiosa, come quella di nessun altro del resto; il tempo non era mai sufficiente per fare tutto.

    In ogni modo, finì e arrivò la mia sera; rientrato a casa, la mia camera, il mio cubicolo mi accolse con ogni comodità, ergonomicamente inserita e utilizzabile: sulla parete di fronte al letto una finestra sul resto del mondo esterno, una sequenza continua di sfavillanti grattacieli, colorati, tutti collegati tra loro, senza spazi vuoti, una finestra che non si poteva aprire… in effetti non sapevo e non avrei saputo dire, se fosse davvero una finestra e non una tecnologia ottica con quell’effetto.

    Cercai dappertutto il binocolo, dovevo trovarlo ad ogni costo, avrei dovuto rimetterlo a posto entro pochi giorni; non c’era nulla di proibito nel prenderlo a prestito, nell’utilizzarlo, potevo perfino smontarlo e rimontarlo anche sbagliando: qualcuno o qualcosa avrebbe provveduto al suo corretto ripristino ma era un oggetto registrato, catalogato, assegnato: le intelligenze artificiali che si occupavano degli inventari avrebbero registrato la sua assenza e dopo un periodo di dieci giorni avrei ricevuto un invito alla restituzione o a rendere giustificazione del prolungamento della sua necessità di utilizzo. Dovevo trovarlo, ma non c’era!

    Rimaneva una sola possibilità: lo avevo lasciato di là quando ero tornato, in modo incontrollato, gelato e stremato, cioè in condizioni fisiche anomale e pericolose per la mia salute; questo lo sapevo, era un sistema di salvaguardia che gli impianti medicali di controllo nel mio corpo, avevano attivato; era una cosa normale nella mia realtà ma evidentemente aveva funzionato anche là, comunque fosse, un luogo di fantasia semplicemente un sogno realistico, oppure realmente un altro luogo.

    Dovevo pensare seriamente alle conseguenze: analizzai i fatti.

    Prima cosa: entravo nel mondo di là quando mi rilassavo normalmente, guidato dalla musica calmante accingendomi al sonno, come se entrassi in un sogno.

    Seconda cosa: avevo sperimentato di poter guidare e gestire il passaggio, imitando volontariamente quella sensazione di rilassamento e quiete che accompagna il sonno e il sogno; potevo andare e venire quando volevo ma in ogni caso mi risvegliavo sempre al mattino, nella mia camera e nella mia realtà, richiamato dai ritmi musicali stimolanti.

    Terza cosa: non avevo mai potuto sperimentare la permanenza in quel mondo per più di un giorno o di una parte di esso, non sapevo se avrei potuto passarci una notte o più giorni, perché non sapevo come scorreva il tempo laggiù; che scorresse ne ero certo, altrimenti non avrei visto il sole attraversare il cielo e la sera incombere, non avrei incontrato situazioni stagionali; ora, sapevo cosa fossero le stagioni e i climi, differenti, ma che rapporto c’era tra il tempo nel mondo del sogno e quello della realtà?

    Non lo sapevo, ma il binocolo doveva essere rimasto di là e questo, sembrava essere un fatto oggettivo, poteva significare che qualcosa della mia realtà, poteva rimanere in quell’altra per più di un giorno. Bisognava capire come e quanto tempo.

    Un’ultima cosa: potevo portare con me cose del mio mondo in quell’altro, come i vestiti, il coltellino, i fiammiferi e funzionavano esattamente come di qua, logica deduzione se si fosse trattato soltanto di un sogno ma pensandoci, neppure il fiammifero era tornato con me, era bruciato completamente; con me erano tornati gli effetti del suo utilizzo: la bruciatura, la vescica e il dolore, assolutamente reali.

    Per un momento ebbi paura: queste anomalie non sarebbero passate inosservate all’intelligenza artificiale che controllava tutto il nostro mondo;

    il ripetersi dei miei sogni o l’assenza della mia mente, delle mie onde cerebrali o la loro modificazione durante quel periodo, i miei interessi improvvisi, le mie azioni, il binocolo e il fiammifero scomparsi, sarebbero stati collegati alla mia cosiddetta ‘fantasia talentuosa’ nei loro programmi di identificazione e sviluppo dei talenti e chissà cosa sarebbe potuto succedere: sarei diventato una cavia da esperimenti?

    Mi addormentai, praticamente costretto dalle luci che si affievolivano nella stanza e dal condizionamento ipnotico della musica rilassante ma non lo feci in modo tranquillo: sapevo che ogni mente, ogni situazione, erano sotto controllo; gli impianti di cui ero dotato dalla nascita avevano molte funzioni utili ma fornivano anche il collegamento, costante e continuo, col cervello centrale, il cervello artificiale che controllava l’umanità; nozioni basilari acquisite senza essere mai messe in discussione, analizzate. Ero ansioso e nervoso e l’unico mio desiderio era di trovare il binocolo e riportarlo a casa.

    Non avevo nessuno al mondo cui fossi davvero legato, affezionato, anche se conoscevo e frequentavo migliaia di persone, nessuno di noi aveva potuto sviluppare una individualità infantile, non avevamo genitori che ci avessero cresciuto o se li avevamo, eravamo stati affidati al sistema sociale immediatamente dopo la nascita, appena dopo il parto; sapevo, lo sapevano tutti che le donne partorivano e i figli erano il frutto dell’unione biologica di due genitori, condizione necessaria per preservare la diversità biologica che favoriva lo sviluppo di fattori e mutazioni casuali utili per l’umanità, a scuola insegnavano che la libertà umana prevedeva l’individualità dei sentimenti.

    L’amore esisteva ma era un fattore estemporaneo, sempre di breve durata, quella della passione innescata dai feromoni e dagli ormoni e ovvia conseguenza della pressione di milioni di altri individui nelle stesse condizioni, era che dovessero considerare, tra le altre cose, il sesso come un semplice scambio emozionale, un fattore di svago e di divertimento, senza la responsabilità di dover pensare ai figli.

    Quanto fosse spontanea l’attrazione tra due individui di sesso diverso ma soprattutto quanto fosse casuale la capacità di concepire e portare a termine una gravidanza in un mondo sovraffollato e innaturale, tecnologico e popolato da venti miliardi di persone, con connessi fabbisogni di energia, materie prime, cibo, era una domanda che raramente entrava nei pensieri della gente, almeno di quella che io conoscevo.

    Forse era frutto della mia particolare ‘talentuosa fantasia’, pormi simili problemi ma non volevo diventare una cavia, volevo vivere la mia vita normale, sviluppare i miei interessi, coltivare il mio hobby, senza interferire col mondo ma senza subirne interferenze.

    Se avevo ragione e la mia non era solo fantasia incontrollata ma un particolare talento, avrei potuto rifugiarmi di là, pensavo, ma in che condizioni? Senza poter tornare, oppure per essere richiamato, come era successo nel momento del pericolo? Come sarei sopravvissuto?

    In fondo cosa potevano farmi? In fondo… pensai e fu il mio ultimo pensiero cosciente, se io avessi avuto davvero quel talento, dovevano esserci migliaia di altri individui con talenti e capacità simili alle mie.

    Mi ritrovai nel mio mondo, bellissimo, ora splendeva il sole e un tepore gradevole mi solleticava la pelle accompagnato da una carezza gentile del vento: sapevo che era il vento, lo avevo studiato e avevo anche provato l’emozione nella galleria, detta appunto del vento: una struttura tecnica in cui un’elica gigantesca creava una corrente d’aria, dapprima leggera e poi crescente fino ad avere la forza di sollevarti e farti volare; era usata per collaudare la resistenza all’aria dei veicoli che permettevano i collegamenti tra le varie parti del mondo anche se io non ne avevo mai visto uno.

    La differenza con l’esperienza di casa era che qui non c’era l’elica, non c’era il frastuono e gli spazi erano totalmente aperti, in più l’aria profumava di buono anche se non avrei saputo dire di cosa, non c’era traccia della neve.

    Ero venuto solo l’altro ieri, mi ero fermato solo poche ore e solo un paio di giorni erano passati, eppure qui era tutto diverso.

    Non era caldo come le prime volte, non era freddo come l’ultima volta, l’aria era profumata come non ricordavo di averla apprezzata prima, in mezzo all’erba crescevano piantine colorate di ogni dimensione e colore: fiori, ricordai dalle lezioni di botanica, molti servivano a distribuire i semi delle piante madri tramite il vento, per molti altri gli insetti trasferivano il polline che rivestiva il loro interno da uno all’altro, permettendo ad alcuni, di sesso femminile, di produrre figli detti frutti: i colori servivano da attrattori degli insetti impollinatori e dissuasori per quelli predatori, non avevano altro significato né funzione, anche perché erano il risultato della percezione dell’occhio umano.

    Macchine, animali ed insetti, non vedevano le stesse cose nello stesso modo e altrettanto valeva per i profumi, equivalenti ai feromoni rilasciati da ogni essere vivente, umani compresi, per favorire l’attrazione e l’accoppiamento.

    Raccolsi qualche fiore e lo portai al naso: una emozione profonda mi riempì tutto: indescrivibile, una pienezza totale e completa, differente e complementare per ciascuno di questi differenti profumi, un’esperienza inebriante; avevamo le essenze in laboratorio ma nessuna mi aveva mai procurato alcuna emozione: alcune piacevoli, altre disgustose ma niente di più. Infilai alcuni fiori in tasca, volevo portarli a casa per tornare ad annusarli in camera mia.

    Doveva essere passato molto tempo dalla mia ultima visita: l’erba era cresciuta davanti alla caverna, alta fino al mio ginocchio, il muretto che mi era costato fatica anche se mi ero divertito a farlo, era parzialmente crollato e non c’era traccia del mio focolare che mi aveva reso così orgoglioso, ma c’era il binocolo.

    Faticai a riconoscerlo, semi sommerso da erba e ramoscelli; se non fosse stato per un riflesso sulla superficie lucente di una lente senza il coperchio, forse non lo avrei visto; era praticamente integro, come nuovo, la fibra di carbonio e la plastica, i materiali di cui erano costituiti quasi tutti i manufatti del mio mondo, erano pressoché indistruttibili.

    L’unica cosa era il fango che lo ricopriva parzialmente e una sottile crosta di muschio, all’innesto delle lenti e sulla rotella di compensazione.

    Come un pazzo mi diedi alla ricerca forsennata del coperchietto della lente.

    Era nero e piccolo e chissà dove mi era caduto ma non poteva essere distante; cercai fra l’erba, inginocchiato a terra, con le mani nude, avvolto dal profumo rilasciato dagli steli strappati e smossi.

    Alcuni sentori erano pungenti e anche alcuni steli lo erano, completamente coperti di spine: avrei riportato una nuova serie di episodi dolorosi come ricordo, pensai ridendo.

    Finalmente lo trovai, seminascosto tra due sassi del muretto che si erano spostati, ma perché si erano spostati?

    La domanda serpeggiava in fondo alla mia mente, chi o cosa aveva spostato i sassi del muretto facendolo parzialmente diroccare?

    Poteva essere stata la neve? Il vento? La pioggia? O addirittura l’erba, cresciuta tra le fessure?

    Non si vedevano tracce di persone, anche se quelle di un animale, piuttosto grosse, indicavano che aveva approfittato della caverna disabitata; avrei dovuto stare in guardia, finora avevo visto solo animali ed uccelli di piccole dimensioni correre e spostarsi nella valle ma sapevo troppo poco di questo mondo per potermi sentire completamente al sicuro; avrei dovuto pensarci la prossima volta.

    Il cielo intanto era passato gradualmente dalla luce del mezzogiorno a quella soffusa del crepuscolo, con ombre che svanivano dopo essersi allungate al massimo, poi alla luce radiante del tramonto; riconoscevo il mezzogiorno, era lo zenit della stella, il momento senza ombre che aveva dato inizio al conteggio del tempo, all’incirca l’ora del mio arrivo.

    Avevo imparato anche altro nelle mie ricerche: il crepuscolo, il momento che precede il tramonto del sole sotto l’orizzonte visibile e che transita la luce dalla condizione di luminosità diurna a quella di oscurità notturna.

    Mi decisi finalmente ad usare il binocolo, era per questo che l’avevo portato no? Prima di restituirlo, almeno avrei dovuto usarlo, no?

    Ripulito sommariamente dal fango, portai le lenti agli occhi e il mondo attorno a me si raccolse improvvisamente avvicinandosi, la montagna sembrava a un passo, si distinguevano le grandi rocce singole e un edificio che ne sovrastava altri più piccoli.

    L’edificio principale, quello più grosso dominava la vallata; apparve svelando un basamento di pietre su cui si alzavano muri di tronchi d’albero, all’interno doveva essere vuoto oppure se qualcosa c’era non era visibile, a parte una torre quadrata che svettava più alta delle mura esterne e sulla quale si vedeva una piattaforma protetta da uno steccato; c’era un uomo che se ne stava appoggiato ad esso, guardando in giro.

    La poca luce residua mi impediva di vederne bene le fattezze ma era certamente un uomo.

    Lo sguardo si spostò nella valle, inseguendo l’intrico di stradine che portavano agli agglomerati di casupole dai tetti grigi, forse rami ed erbe secche, basse, in legno, con alcune finestrelle, visibili soprattutto per la luce che ne usciva e che sembrava quella aranciata e variabile originata da fuochi;

    in pochi momenti le luci cominciarono ad uscire da altre finestre, poi da molte e infine da tutte le casupole sparse sul pendio della montagna e vidi che erano molte più di quelle che avevo sospettato guardandole, distrattamente, le altre volte.

    Quello era un paese ed era abitato, dunque, quel mondo non era solo mio e se avessi continuato a tornarci, ammesso che fosse reale, avrei dovuto condividerlo con altre persone: le volevo veramente nel mio sogno? Certo!

    Questa consapevolezza, comunque mi terrorizzò: chi erano? Come erano? Quanti erano? Come vivevano? Cosa facevano?

    Se ci fossimo incontrati, come ci saremmo comportati? Sarei stato al sicuro?

    Non sapevo ancora se fossimo sulla Terra, in un tempo differente dal mio, oppure in un mondo differente, in modo completo, nel tempo e nello spazio.

    Se fossi tornato a casa svegliandomi, col binocolo e i fiori, e le punture e le escoriazioni alle dita, non avrei più avuto dubbi: quel mondo sarebbe stato, era, reale; non avrei potuto tenerlo nascosto né affrontarlo da solo.

    Decisi di resistere e restare il più a lungo possibile in quella realtà che mi affascinava, mi coinvolgeva, mi incuriosiva, se il binocolo si era fermato lì per un po' di tempo mentre io tornavo al mio mondo, forse potevo rimanerci anche io.

    Scese la notte e il cielo si illuminò di nuovo al crescere della luna: che spettacolo magnifico e anche spaventoso: una palla infuocata che pareva sospesa appena sopra la mia testa e che mostrava una faccia sorridente ai miei occhi meravigliati, circondata, avvolta da un velo nero punteggiato di luci minuscole in lontananza. Strani rumori, schiocchi, fischi, ululati, mi giungevano alle orecchie provenendo dalle macchie di buio che mi circondavano.

    Non resistevo più, gli occhi mi si chiudevano e nella mia testa risuonava la musica, dolce e rilassante della mia camera, come se la sentissi con le orecchie; guardai nuovamente la luna, l’avevo identificata: la luna e le stelle, il satellite della terra, non l’avevo mai vista a casa, la finestra mostrava sempre lo stesso paesaggio colorato, definito, immobile con alcune variazioni nelle sfumature di colore dovute a differente illuminazione durante il giorno.

    Mi svegliai, fresco e rilassato, al caldo, nel mio letto, mentre la musica cambiava ritmo annunciando l’inizio di una nuova giornata.

    Prima ancora di iniziare la solita routine di preparazione, controllai le mie cose e frugai nelle tasche del mio abito.

    I fiori non c’erano più, neppure un granello di polvere, un residuo minuscolo e neppure il muschio sul binocolo ma c’era ancora un poco di fango secco: per il resto il binocolo sembrava appena uscito dal laboratorio.

    Ancora una volta, avevo portato di là e riportato di qua della materia, ma nulla di quello che avrei voluto mi aveva seguito; la materia però c’era e anche il poco fango secco sul corpo del binocolo proveniva comunque dal mio mondo ‘di fantasia’.

    Quel giorno, con una scusa, cercai di analizzare il fango in laboratorio per stabilirne le caratteristiche e possibilmente risalire alla sua provenienza, lo grattai via dal binocolo che restituii, perfettamente integro e nei tempi previsti, inserii la pochissima polverina nell’analizzatore sequenziale e mi misi in attesa dei risultati: sarebbero bastati pochi minuti.

    Il risultato apparve sul visore dell’apparecchiatura: quarzo cristallino e silicio, ossigeno, carbonio, carbonato di calcio, carbonato di magnesio, contaminazioni di ferro; nessuna traccia di elementi strani o di radioattività: i normalissimi componenti della terra.

    I componenti della terra! Ma non c’era terra nel grattacielo città; forse proveniva dalle serre dove ero stato recentemente ma avrebbero dovuto esserci anche altri elementi idonei a nutrire le piante come il fosforo, il potassio, l’azoto e altri e poi, come c’erano finiti nelle mie tasche?

    E sul binocolo? Stavo ancora pensando quando si avvicinò a me un professore.

    Un professore era un supervisore, un signore che si occupava di accompagnare gli studenti, gli studiosi e i visitatori curiosi, alle varie aree di ricerca scolastica, secondo la loro volontà, interveniva in caso di malfunzionamenti o anomalie digitando sulla tastiera del suo telefono da polso alcuni numeri e simboli che attivavano i centri di supporto o manutenzione; a volte dava spiegazioni e indicazioni e accompagnava le richieste con un aiuto diretto; l’ultima cosa che mi sarei aspettato era un contatto con un professore.

    Sorridendo si avvicinò a me ed alla macchina analitica e sequenziale, si soffermò a guardare i dati sul visore e digitò qualcosa sulla tastierina del telefono poi si rivolse a me: «hai trovato qualcosa di interessante vero Hector?»

    Hector era il mio nome seguito da un codice alfanumerico: numeri e lettere ma non pensavo mai a me stesso come ad Hector: ero io, solo io.

    «Si professore» risposi,

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