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INGANNO
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E-book320 pagine4 ore

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Info su questo ebook

L’occhio dell’eclissi lo scrutava, inclemente.
L’enorme pupilla corvina, coronata da un cerchio oro che andava a sfumare in un alone dai toni rosso fuoco, risucchiato dall’eterna oscurità che dominava i cieli di quelle Terre, sembrava contare i suoi passi.
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2020
ISBN9788835367376
INGANNO

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    Anteprima del libro

    INGANNO - Elisa Baiocchi

    130

    INGANNO

    LIBRO TERZO

    SAGA TERRA ROSSA

    PARTE NONA

    "Give sorrow words;

    the grief that does not speak

    knit up the o-er wrought heart

    and bids it break."

    William Shakespeare, Macbeth

    "Date al dolore la parola;

    il dolore che non parla,

    sussurra al cuore oppresso

    e gli dice di spezzarsi."

    William Shakespeare, Macbeth

    83

    L’occhio dell’eclissi lo scrutava, inclemente.

    L’enorme pupilla corvina, coronata da un cerchio oro che andava a sfumare in un alone dai toni rosso fuoco, risucchiato dall’eterna oscurità che dominava i cieli di quelle Terre, sembrava contare i suoi passi.

    Malgrado i suoi timori, lui procedeva per la propria strada mettendo un passo dopo l’altro, distorcendo e distruggendo con gli stivali il riflesso appena accennato che la sua figura proiettava sul rigagnolo. L’acqua era gelida, la sentiva perfino attraverso la pesante calzatura che indossava, un chiaro segnale che le sorgenti di Insomnia erano prossime. La meta era ad un soffio.

    Un brivido d’eccitazione e di timore lo scosse. Doveva affrettarsi, arrivare a destinazione prima che sopraggiungesse la notte. Prima che loro fossero liberi di braccarlo.

    Perché era così che funzionava nelle Terre Oscure.

    Il sole sorgeva e tramontava proprio come nella Terra Rossa, ma vi era sempre una luna a seguirne inesorabilmente i passi, eclissandolo. Un sole nero che bagnava giusto d’accenno l’indistinta oscurità delle brevi giornate.

    E per lui, come per chiunque abitasse quella Terra, era necessario approfittare di quel poco tempo nel quale era possibile scorgere qualcosa oltre il proprio naso, senza dover ricorrere all’uso di una torcia, per allontanarsi dalla sicurezza delle mura della città.

    E adesso che si ritrovava a vagare per le Lande Ostili, temeva il sopraggiungere della notte e ciò che essa celava. Ciò che egli stesso, drammaticamente, aveva creato. Era un rischio, una folle impresa, ma doveva assolutamente verificare se quanto percepito dai corvi fosse vero. Un tiepido accenno di speranza era tornato a riscaldare il gelo che ammantava il suo cuore.

    L’imponente torre si profilò dinanzi ai suoi occhi, sorprendendolo. La cima, avvolta brutalmente da scure nubi macchiate dall’arancio delle dita dell’eclissi, fece riaffiorare in lui antichi ricordi. Si fermò, giusto il tempo di riprendere fiato e gettare occhiate guardinghe al cielo; presto il sole sarebbe tramontato, riportando quelle terre alla loro naturale oscurità. Doveva entrare nella torre o sarebbe stata una lunga, infinita, notte.

    Colse con la coda dell’occhio un movimento alla sua destra e trasalì. Inspirò a fondo, gli occhi argentei a scrutare l’ammasso di rovi secchi.

    - Non è possibile - mormorò tra sé e sé, estraendo la spada che subito si accese di magia, assumendo i toni bluastri di un cielo in tempesta. Attese, tastando mentalmente il terreno circostante, inerpicandosi con la mente oltre la ripida collina costellata di arbusti scheletrici, assaggiando la sterilità di quel luogo. Un cespuglio tremò e una figura alata ne schizzò fuori, volando via, ali corvine che si fusero con l’oscurità dell’orizzonte.

    - Un corvo - sussurrò, un ghigno divertito a deformargli la bocca.

    Depose le armi e si rincamminò verso la torre, imboccando lo stretto sentiero circondato da rovi che serpeggiava fino al cancello aperto, una bocca pronta a divorarlo.

    Una fila di corvi dagli occhi di brace, disposti disciplinatamente in fila su un vecchio carretto ribaltato, lo attendeva una volta varcate le fauci di ferro. Si soffermò ad ammirare quei nobili volatili; il piumaggio lucido gli conferiva un senso di superiore nobiltà, al pari di un mantello pregiato. Loro erano la sua miglior creazione, si era sentito come una divinità e quegli animali, nella loro infinita fedeltà e adorazione, parevano condividere quel suo pensiero. Una fitta al petto lo fece vibrare, al ricordo dell’empio atto compiuto in seguito. Se solo dopo aver creato i corvi si fosse fermato e avesse posto fine alla sua mania di grandezza. Se solo non avesse donato la vita a quelle creature che si mimetizzavano nel buio, assecondando le tenebre, gli abitanti delle Terre Oscure non sarebbero stati costretti a barricarsi all’interno di possenti muri e imponenti cancelli magici durante la notte. E invece i senza occhi, che lui stesso aveva chiamato abomini, esseri deformi, capaci di assumere le sembianze di ombre e in grado di risucchiare la vita ai viventi, lasciandone i corpi come gusci vuoti e senz’anima, erano liberi e inesorabilmente fuori dal suo controllo. Un fardello che avrebbe portato in eterno nel cuore.

    Molte vite erano scivolate tra le braccia del Dio dei Defunti per causa sua.

    Un corvo gracchiò, richiamando la sua attenzione, distogliendolo da quei lugubri pensieri.

    - Grazie - sussurrò al pennuto, allungando una mano nella sua direzione, sfiorandone con la punta delle candide ed esili dita un’ala. L’animale gracchiò nuovamente, trasmettendogli un senso di immediata urgenza e pericolo.

    - Lo so, sta tramontando - gli disse, voltandosi verso la silente torre. Pochi rumorosi passi sul ghiaino lo condussero dinanzi alla costruzione e, come per magia, un portone di legno si materializzò spalancandosi, rivelando una gola oscura. Varcò la soglia, lasciando che il passaggio si richiudesse alle sue spalle con un tonfo secco.

    Si appoggiò con le spalle al muro e rimase a lungo immobile, ascoltando i frenetici battiti d’ali dei corvi che si andavano a rifugiare nelle logge alte della torre, laddove gli abomini non li avrebbero mai raggiunti. Percepì il sole eclissato buttarsi adagio oltre la linea dell’orizzonte, seguito dall’amata sorella luna e nel momento stesso in cui l’ultimo spiraglio di luce si dissolse … udì loro emergere. Scivolarono fuori dalle ombre che durante il giorno li custodivano, emettendo gorgoglii inquietanti; li udì strisciare lungo le mura esterne della torre alla ricerca di una varco che gli concedesse di entrare ed assalirlo, divorandogli l’anima. Astuti, indomabili, assetati di vita. Intoccabili.

    Si sorprese a sfoggiare un perverso ghigno. In fondo provava una sorta d’orgoglio anche nei confronti di quei suoi abietti figli, godeva della loro spregevolezza, erano l’espressione massima dell’oscurità che aveva ammantato il suo cuore da quando era stato esiliato nelle Terre Oscure, anni addietro. E anche se erano sfuggiti al suo controllo, anche se non ne disponeva come aveva progettato e sperato, lo scompiglio che avevano portato, il panico che era dilagato tra gli ignari abitanti, lo avevano reso ciò che era: l’Imperatore Assoluto delle Terre Oscure. L’unico in grado di donare il potere di protezione agli oggetti. Era, infatti, solo grazie alle mura e ai cancelli intrisi della sua stessa magia che dopo il tramonto era possibile sopravvivere all’interno delle città, senza correre il rischio di venir braccati. E così, quando gli abomini avevano iniziato a mietere vittime, non era passato molto tempo prima che la voce del suo potere si spargesse per le Sette Città delle Terre Oscure e che i nobili e i regnanti invocassero a gran voce il suo aiuto, la sua collaborazione. In brevissimo tempo si era ritrovato, da semplice esiliato, bracciante presso un fabbro, ad essere acclamato come un salvatore, colui che avrebbe posto fine agli strazi notturni.

    Se solo gli abitanti delle Sette Città avessero saputo che lui stesso era la causa della venuta degli abomini, non avrebbe mai goduto della carica di Imperatore Assoluto e mai avuto l’onore e il privilegio di vivere nella reggia di Insomnia, la città eletta, la più sfarzosa su cui nessun occhio, umano e non, avrebbe mai potuto poggiarsi.

    Non sapeva quanto fosse rimasto lì immobile ad ascoltare i cupi lamenti di quei figli ripudiati, ma quando aprì gli occhi la luce della torcia che si era apprestato ad accendere, lo accecò. Sbatté le palpebre, in attesa di abituarsi a quell’abbagliante luminescenza e quando fu certo di vederci bene s’incamminò sulla scala a chiocciola. Adagio risalì la torre. Non era trascorso molto tempo dall’ultima volta che si era recato in quel luogo, lo stesso giorno in cui gli erano stati sottratti il Pugnale di Fuoco e la Coppa di Ghiaccio Eterno, lì gelosamente custoditi. Se ci ripensava ancora tremava per la rabbia. Quell’uomo, con gli occhi più blu che avesse mai veduto, era riuscito nell’intento di rubargli quanto di più caro avesse.

    Lord Irek.

    O almeno così gli aveva detto di chiamarsi, prima di fuggire per mezzo di un incantesimo così potente che aveva causato un violento terremoto, distruggendo perfino alcune mura cittadine. L’incredulità per quanto accaduto lo aveva sopraffatto. Quell’uomo, quel mago, aveva fatto breccia nei suoi incantesimi più potenti, imbrogliandolo. Odiava Lord Irek, era la fonte della sua rovina, l’uomo che aveva osato sfidare lui, Oros l’immortale, creatore di abomini e Imperatore Assoluto delle Terre Oscure, padrone di Insomnia.

    Digrignò i denti, ripensando a quanto fosse stato sciocco e puerile da parte sua fidarsi. Ma non era quello il momento di lasciarsi andare a quella nefasta rievocazione d’eventi, doveva scoprire se quanto i corvi dagli occhi di brace avevano scorto fosse vero. Fremette per l’ansia. Voleva crederci ma temeva l’amara delusione.

    Giunse al penultimo pianerottolo e si fermò, scrutando fuori dalla finestra, poggiando la fronte contro il gelido vetro. Oscure e sinuose ombre danzavano attorno al carretto ribaltato dove i corvi gli avevano dato il benvenuto. In parte uomini, in parte belve deformi, gli abomini sembravano non trovar mai pace; erano come lingue di ombra, capaci di cambiare forma a piacimento, bocche eternamente affamate alla continua ricerca di nuovi sapori. Si costrinse a continuare l’ascesa fin lassù dove, all’ultimo piano della torre, sapeva che una stanza circolare lo attendeva. Spense la torcia, sperando che non gli servisse, e spalancò la porta.

    Sentì il fiato venirgli meno quando il buio lo accolse. Un buio denso, carico di delusione.

    - Non è possibile - farfugliò, gettandosi al centro della stanza, riaccendendo la torcia. La teca che un tempo aveva custodito il Pugnale di Fuoco e la Coppa di Ghiaccio era vuota, i due fasci di luce, l’uno azzurro, l’altro rosso, solo un ricordo.

    Eppure i corvi avevano visto i due oggetti lasciare la Terra Rossa e tornare da lui. Come potevano essersi sbagliati? Come potevano averlo illuso?

    Si accasciò a terra, i capelli argentei si sparsero sul pavimento come alghe sulla riva. Iniziò a sbattere con rabbia i pugni a terra, imprecando. Senza quei due oggetti ben presto la sua magia si sarebbe esaurita e non sarebbe più stato in grado di infondere le mura e i cancelli a protezione delle città. Probabilmente sarebbero occorsi anni affinché il suo potere scemasse completamente ma quel giorno sarebbe arrivato e lui avrebbe perso il titolo di Imperatore Assoluto delle Terre Oscure. E gli abitanti delle Terre Oscure sarebbero periti.

    - Oros. Oros - lo chiamò una voce, roca ma potente. Lui alzò la testa di scatto, scrutandosi attorno senza tuttavia scorgere nessuno. Forse era stata solamente la sua immaginazione a giocargli un brutto scherzo. Un corvo gracchiò, planando sul vetro del lucernaio posto sulla sommità della stanza circolare, allargando le sue ali. In quel momento la luna notturna fece capolino da dietro una nuvola, proiettandosi all’interno della stanza, illuminando i dieci anelli che ornavano le dita del signore delle Terre Oscure. Oros sollevò il volto al cielo e uno degli occhi, da argenteo, divenne una sfera di fuoco incandescente.

    - Avrò la mia vendetta - urlò al pallido volto lunare che dimorava nel cielo. - Fosse l’ultima cosa che faccio prima di perire, io mi vendicherò di te, Lord Irek. -

    Nessuno poteva udirlo ma a lui non importava, quella era una promessa fatta a sé stesso e l’avrebbe mantenuta. Ritrovata la motivazione necessaria l’Esiliato si alzò, disprezzandosi per aver permesso alla debolezza d’assalirlo. Detestava le persone deboli e arrendevoli, ancor di più quando era lui stesso a precipitare in tale stato.

    Un raggio di luna lo investì, rendendo i suoi lunghi capelli una cascata argentata.

    Chiuse un istante gli occhi, ripensando all’ultima volta che aveva goduto del calore di una carezza di sole sulla propria pelle, un ricordo divenuto col tempo confuso e sfumato. Quando ancora viveva nella Terra Rossa, lui e suo padre adoravano stendersi sopra l’erba dei prati baciati dal calore del sole, assaporare i dolci frutti di madre natura, inspirando i profumi delle stagioni. Oros amava ammirare il riflesso dei raggi sui capelli biondi del padre, osservare le gocce d’acqua asciugarsi sotto il calore della grande sfera infuocata dopo un bagno nel lago, correre a perdifiato lungo i pendii assolati.

    Malinconico e doloroso rinvenne nella sua mente il ricordo di quel funesto giorno.

    Era una mattina d’autunno inoltrato. Il piccolo Oros non immaginava lontanamente che la sua vita sarebbe potuta cambiare tanto drasticamente in un solo batter di ciglia. Il bosco odoroso accolse lui e suo padre, lo scricchiolio delle foglie sotto i loro piedi una dolce sinfonia, le loro narici inebriate dal familiare profumo di terra umida e funghi. Il cielo quella mattina era coperto da un manto di nuvole cineree ma suo padre, Puer, era certo che non sarebbe caduta una goccia d'acqua. E così era stato.

    Oros aveva da poco compiuto otto anni e il padre gli aveva donato un nuovo arco che non vedeva l’ora di provare. La caccia alle streghe era iniziata da due inverni ormai e loro erano dovuti fuggire da Norsmok, dove gli abitanti sapevano che Puer era un mago. Si erano stabiliti in una casetta a norten della Contea, nei pressi della Foresta dei Sospiri. Si sentivano al sicuro lì, il villaggio più vicino distava circa due giorni e mezzo di cammino ed era molto frequentato da viandanti, trovandosi in un punto nevralgico per lo scambio merci. La loro presenza sarebbe passata inosservata. E così era stato per due lunghi e sereni anni. Tuttavia qualcosa era andato storto, Puer era stato scoperto da una setta clandestina, una delle tante che, anziché rifarsi alle leggi imposte dal Sacerdote Supremo, preferiva farsi giustizia da sola, godendo nel torturare e sottomettere coloro che erano sospettati di stregoneria. Così Oros e Puer erano stati catturati e ad entrambi era stata messa una bizzarra cavigliera con delle rune incise che gli impediva di far ricorso alla magia. Dopo giorni e giorni di prigionia il giovane Oros aveva infine assistito alla brutale morte del padre per mano di quei sadici. Aveva pianto e urlato fino a rimanere senza voce ed infine era svenuto. Al suo risveglio viaggiava su una carovana, circondato da uomini e donne con indosso la medesima cavigliera e aveva scoperto di essere stato catturato dalle guardie del Regno di Guibinea. Uno degli uomini gli aveva spiegato di come fosse stato salvato dalle grinfie della setta da una guardia che per puro caso lo aveva trovato in un capanno. La loro destinazione era il Palazzo di Vetro a Norsmok, dimora dei Nove, dove sarebbe stata verificata la loro colpevolezza. La punizione, in caso di esito positivo, per coloro che non erano accusati di gravi crimini, era l’esilio nelle Terre Oscure.

    - Se non sei un mago non dovrai temere nulla, ragazzo mio - gli aveva detto in tono cordiale l’uomo.

    Oros aveva chiuso gli occhi e aveva finto di dormire per il resto del tragitto. Lui era un mago, così come lo era stato suo padre. E nessun inganno l’avrebbe salvato.

    Da lì a pochi giorni i Nove, gli unici maghi della Terra Rossa a cui era concesso utilizzare il proprio potere, lo avevano esiliato laggiù, nelle Terre Oscure. Giornate terribili erano i suoi primi ricordi di quel luogo; per quanto gli abitanti della Città di Ombra lo avessero accolto nel migliore dei modi, la quasi totale assenza di luce dovuta alla perenne eclissi solare e l’atmosfera sempre cupa, lo avevano fatto sprofondare in uno stato di profonda depressione. Aveva scoperto che coloro che vivevano in quel Regno di eterno buio erano maghi esiliati come lui e che non vi era modo di fare ritorno nella Terra Rossa. Era stato allora che per la prima volta l'afflizione e il senso di smarrimento lo avevano investito, divorandolo.

    I primi giorni aveva pianto ininterrottamente, accoccolato nei pressi di una colonna vicino alla piazza dove si teneva il mercato cittadino, poi una donna si era avvicinata a lui e con voce soave lo aveva invitato a seguirla a casa sua. I lunghi capelli color fuoco della donna e la spruzzata di lentiggini le donavano un’espressione dolce. Oros aveva scoperto che lei, Lucin, era stata come lui esiliata all’inizio della caccia alle streghe, lasciando nella Terra Rossa un marito e un figlio.

    - Aveva i tuoi stessi capelli dorati - gli aveva sussurrato Lucin una sera, mettendolo a letto. E Oros aveva lasciato che il desiderio di maternità della donna ricadesse su di lui e con il tempo aveva iniziato perfino a chiamarla mamma. Lucin era una maga davvero straordinaria, lo aveva istruito sulle arti magiche e lo aveva aiutato a superare il lutto per la morte del padre e il trauma subito, nondimeno la pesante depressione che quel luogo dominato da ombre e torce perennemente accese aveva instillato in lui. Aveva trascorso con lei la restante parte della sua infanzia e l’adolescenza fino a quando, trovato l’impiego di fabbro, aveva deciso di trasferirsi nella zona di Ombra più vicino alla bottega. Lucin, seppur con dispiacere, aveva accolto la sua decisione e l’aveva assecondato.

    Per i successivi quindici anni la sua vita era scorsa serena e pacifica fino al giorno in cui, il Pugnale di Fuoco e la Coppa di Ghiaccio, si erano misteriosamente materializzati nella sua bottega. Rimembrava l’iniziale timore che l’aveva assalito ma anche l’irrefrenabile desiderio di avvicinarsi ai due oggetti. Immediatamente ne aveva percepito l’enorme potere e scioccamente aveva supposto che, proprio come lui, fossero stati esiliati dalla Terra Rossa poiché dotati di poteri magici.

    - Adesso non vi limitate a buttare quaggiù solo le persone - aveva rabbiosamente commentato, sfiorando l’elsa del pugnale. E non appena le sue dita erano entrate in contatto con le rune aveva sentito un enorme potere invadere le sue membra, come se il sangue contenuto nelle sue vene andasse a fuoco. Era stato quello l’istante in cui qualcosa dentro di lui era vorticosamente mutato, iniziandolo al lato più oscuro e perverso della magia. La magia nera era diventata la sua ossessione e ben presto erano iniziati gli esperimenti. Assieme ai nuovi poteri era sorto in lui un nuovo desiderio, profondo e penetrante come una lama: il desiderio di vendetta. Vendetta nei confronti di coloro che avevano condannato lui e gli altri abitanti delle Sette Città all’esilio.

    Erano iniziati gli esperimenti; aveva catturato svariati corvi trasformandoli in creature superiori, intelligenti quanto un essere umano ed immortali. Era rimasto colpito dal cambiamento del colore degli occhi dei pennuti, adesso rigorosamente del colore delle braci che tanto gli ricordavano il sole della Terra Rossa. Malgrado lui tenesse sotto controllo i corvi affinché non nuocessero a nessun concittadino, ad Ombra si era diffuso rapidamente il panico quando centinaia di queste creature avevano iniziato ad invadere il cielo. Alla fine Oros era stato costretto ad ordinare ai suoi fedeli amici di allontanarsi dalla città e dimorare nelle grandi e sconfinate pianure e nei fitti boschi di rovi e piante secche.

    I suoi capelli divennero argentei e, man a mano che i suoi poteri aumentavano, perfino gli occhi mutarono. Prese quindi la decisione di lasciare Ombra e trasferirsi in un'altra città, dove nessuno lo conosceva e dove nessuno avrebbe notato il suo cambio d’aspetto. Si trasferì a DominiaNotte, la più grande città delle Terre Oscure, ed era stato lì che una notte aveva dato vita al suo più grande errore, gli abomini.

    Nonostante questo suo indicibile peccato, qualche anno dopo, il suo nome era divenuto leggenda. Oros, Primo Imperatore Assoluto delle Terre Oscure, dominatore degli elementi, creatore delle nebbie, dominus di Insomnia. Lui, l’unico in grado, grazie al potere del Pugnale di Fuoco e della Coppa di Ghiaccio, di arginare l’invasione degli abomini per le vie cittadine, di preservare gli esiliati delle Sette Città.

    Nessuno aveva mai scoperto il suo segreto e nessuno avrebbe mai dovuto farlo. Ma quel fardello pesava sul suo petto come un macigno; la mano che li stava salvando era la stessa che li aveva condannati.

    Una nuvola offuscò la luna interrompendo quella rievocazione confusionaria di ricordi, riportandolo con i piedi per terra. Rimembrare da dove venisse e cosa avesse affrontato nella vita lo aiutava a non perdere il controllo ma soprattutto ad avere ancora più chiaro l’obiettivo di proteggere gli abitanti delle Terre Oscure.

    E quella notte, ancora una volta, si ripromise che lui alla fine li avrebbe salvati, riportandoli alla Terra del Sole.

    84

    Ti prego, non dire niente. Niente .

    Era stato solo un flebile sussurro, quasi un lamento. Una supplica che tuttavia era rimbombata nella testa di Elden come un tuono.

    Aveva annuito e stretto i pugni. Ormai conosceva bene Reidar e sapeva che non gli aveva rivolto quelle parole perché non si fidava di lui, ma solo per prepararlo a ciò che lo aspettava.

    La tortura.

    Entrambi sapevano che non avrebbero mai tradito l’Ordine, né l’Alleanza. Mai. Se gli eventi l’avessero richiesto, sarebbero periti da Veri Cavalieri di Drago.

    Elden gemette mentre le due guardie che erano venute a prelevarlo dalla maleodorante cella dove era tenuto prigioniero, lo trascinavano via per le braccia senza troppe cerimonie. Tentò di mettersi in piedi, ostentando una forza che non possedeva, ma crollò a terra, esausto. Nessuna parte del corpo pareva in grado di rispondere correttamente ai comandi del cervello.

    - Muoviti - lo incalzò una guardia, in tono burbero. Ma il biondo non reagì, aveva le gambe talmente intorpidite che muoverle gli pareva impossibile. Non vide nemmeno arrivare il manrovescio che il carceriere gli assestò in pieno volto, il quale sortì l’effetto di stordirlo ulteriormente.

    - Ehi, non esagerare. Deve essere lucido per l’interrogatorio - bofonchiò l’altra guardia, la cui voce lasciava trapelare una certa giovinezza. Elden alzò la testa, inclinando la bocca in un beffardo sorriso.

    - E’ un Cavaliere di Drago, può sopportare questo e ben altro ancora. E ricorda che è un traditore - grugnì il panciuto che lo aveva colpito, strattonandolo per i polsi.

    - Non mi sembra messo molto bene - commentò la guardia più giovane, scrutandolo con occhi ocra, orlati da folte sopracciglia.

    In effetti non aveva tutti i torti, pensò amaramente Elden; si sentiva terribilmente spossato e il sapore del sangue fresco in bocca gli provocava continui conati di vomito che tentava in ogni modo di trattenere.

    - Smettila di lamentarti. Di cosa hai paura? - replicò l’altro, asciutto.

    - Di nulla, dico solo che non mi pare il caso di malmenarlo, io … -

    - Sta zitto - strepitò il burbero della coppia. - Piuttosto, aiutami. E tu cammina - urlò poi in faccia al biondo del Tarion che poté distintamente sentirne il tanfo di cipolla. Si ritrasse nauseato.

    Questa volta le guardie gli stavano riservando un trattamento ben diverso da quando

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