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Koinonia: di cieli, di terre, di mari
Koinonia: di cieli, di terre, di mari
Koinonia: di cieli, di terre, di mari
E-book221 pagine2 ore

Koinonia: di cieli, di terre, di mari

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Info su questo ebook

2072. Il campanile di San Marco, una volta simbolo di Venezia, ora si erge come un faro sul Mare Nuovo, che si estende da Bologna ad Alessandria, da Vicenza a Milano. Ma questo paesaggio, ridisegnato dall'innalzamento dei mari, è solo l'inizio di un mondo nuovo.

Una civiltà aliena incombe sulla terra, invitando la popolazione terrestre a far parte della KOINONIA, la comunità universale. Come reagiranno gli umani, di fronte all'insolita proposta? Questo romanzo, distopico e riflessivo, non lascia spazio all'indifferenza costringendo il lettore a interrogarsi sulla natura e sul destino dell'umanità, sul proprio ruolo nell'universo.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2024
ISBN9791281573109
Koinonia: di cieli, di terre, di mari

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    Anteprima del libro

    Koinonia - Stefano Zampieri

    MATTEO

    Una pioggia sottile e ostinata. Qualche raggio di sole riusciva a penetrare le nubi e si frangeva sugli scogli bagnati. I riflessi giocavano con la spuma del mare. All’orizzonte il cielo si confondeva con le acque. Ovunque odore salmastro.

    Scesi dal gommone e respirai a pieni polmoni. L’aria umida si mischiava dentro di me con l’ansia, la paura, l’incertezza, la follia di quel momento. Il rumore delle onde mi suggeriva che quel posto triste sarebbe stato adatto alla mia impossibile fuga. Sapevo di non avere scampo, come nessuno nel mondo. Ma starmene così isolato, in disparte, lontano da tutti, mi pareva il modo migliore di affrontare quel momento.

    Mi aiutarono a scaricare sulla piattaforma casse, scatoloni e sacchi di provviste. Tutto il necessario per restare lì sei mesi. Da solo, paga mediocre, nessun vantaggio professionale. Un lavoro da disperati o da illusi. A tutti era parsa una scelta insensata.

    «Ma chi te lo fa fare?» era stata la domanda più frequente degli amici, ma io ero ostinato e senza futuro.  E quella scelta, in fondo, non mi pareva così assurda. Sei mesi lontano dal mondo, prendersi un periodo di sospensione dalle notizie inascoltabili, dal continuo nauseante interrogarsi. Dai progetti, dalle ipotesi, dalle speranze infondate, dalle sicurezze prive di fondamento, dall’inarrestabile precipitare del mondo. Una pausa, un’interruzione momentanea, poi sarei tornato al mio destino. Il destino di tutti. Ma almeno per sei mesi sarei rimasto lontano, in compagnia del cielo, del mare, degli scogli, delle onde. E del faro.

    Il Faro Adriatico svettava insolente laddove il mare antico entrava in quello nuovo, proprio sulla soglia delle terre sommerse. Lì dove il fondo marino diventava un articolato di macerie, edifici, tetti, manufatti, strade lastricate, reti di cavi e intrichi di tubi.

    La rapida invasione delle acque aveva scacciato gli abitanti, ma aveva lasciato un’invisibile e infida barriera al passaggio delle navi. Per questo nella propaggine più estrema di quel che restava della Pianura Padana era stato costruito il Faro, estremo avvertimento per marinai distratti o troppo avventurosi.

    Un tempo era il campanile più alto di tutta la zona. Emblema e simbolo di una città. Una canna di mattoni alta cinquanta metri. Ora la cella ospitava la lampada girevole e sulla cima, al posto della statua dell’Arcangelo Gabriele, una lunga antenna.

    I marinai mi aiutarono a sistemare le provviste all’interno dell’edificio e poi, senza dire niente, se ne andarono. Notai in loro uno sguardo di pena: non capivano perché qualcuno potesse scegliere di restare isolato per tanto tempo in un posto del genere. Non provai nemmeno a spiegarlo. Erano fatti miei, in fondo. Quando se ne furono andati, tirai un sospiro di sollievo.

    Non mi preoccupai di fare ordine, lasciai le casse e le scatole dov’erano, al livello più basso del faro. A quello soprastante c’erano le brande, lì sistemai le mie poche cose personali. Ai livelli superiori c’era la strumentazione. 

    Approfittai di un momentaneo diradarsi della pioggia per dare uno sguardo al mio nuovo mondo. Da una parte il mare sterminato, dall’altra uno strano paesaggio di pozze d’acqua più o meno estese e profonde, e cime di campanili che sporgevano fra le onde, mentre la risacca accumulava contro il faro un intrico di plastica, le tracce di una vita che non c’era più. Nessuno avrebbe potuto definire bello quello scenario. Era un mondo - per me un mondo nuovo - tutto da scoprire. Dove prima c’era la vita degli uomini e delle donne, le strade, le case, le attività e tutti i dispositivi della vita moderna, ora c’erano ombre, punti dove l’acqua era più scura o più chiara, dove il suolo era scomparso e dove invece ancora s’intravedeva sotto la superficie. La trasparenza dell’acqua si mischiava con i sacchetti e le cianfrusaglie, i pupazzetti e le lattine vuote, le spazzole sfuggite al controllo e i rottami galleggianti di un'intera civiltà.

    C’era l’azzurro dell’acqua, il blu del cielo, c’erano le sfumature delle case sprofondate, c’erano pozze isolate, dove le alghe variavano dal verde al rossiccio. E in ogni pozza, in ogni anfratto, in ogni fondo marino rinato da oggetti affondati e perduti, s’era insediata una comunità animale imprevedibile. Numerosa quanto sono numerose le specie viventi, mutevole quanto lo sono tutti gli ambienti che non hanno ancora trovato un equilibrio stabile.

    E poi, nel tempo delle mutazioni, la varietà dei luoghi, delle combinazioni, delle condizioni, sollecitava la perversa fantasia creatrice della natura nel dar vita a forme nuove e mai viste, nel combinare i viventi secondo logiche che gli umani non possono comprendere. 

    Così, l’area del Faro Adriatico era in continua trasformazione, difficile da esplorare e da conoscere. Non priva di pericoli e di possibilità inattese. Il faro serviva anche per questo, per tenere distanti i viaggiatori, per salvaguardare dal rischio di perdersi in uno spazio irrimediabilmente alterato, di incagliarsi fra strutture a pelo d’acqua e detriti portati dalla corrente, tra manufatti affioranti, reti di cavi elettrici e pali che stavano lì fermi, in attesa di sventrare un gommone o di tagliare lo scafo di una barca. La lampada in cima al faro segnava un confine, un avviso, un’allerta. Il radiofaro trasmetteva incessante le coordinate necessarie per evitare l’area e i suoi tranelli, un’autostrada digitale che teneva le navi al largo, che separava quel luogo infido dal resto del mare. Il Mare Nuovo disteso cupo e opprimente tra Bologna e Alessandria, tra Vicenza e Milano.

    La pioggia alternata a brevi schiarite continuò insistente per molti giorni, durante i quali m’impratichii con tutta la strumentazione. Non fu semplice entrare nei segreti del faro, ma fu anche una bella sfida che raccolsi con piacere. In fondo ero lì da solo, tutto dipendeva da me; era una strana sensazione, come essere padrone di un campo di macerie, di un passato che non sarebbe mai più tornato. Mentre s’appressava un futuro oscuro.

    Alla fine mi parve tutto così ovvio e naturale, anche se le operazioni da compiere non erano poche. Tutta una trafila di controlli e verifiche che mi riempivano le giornate. A fatica riuscivo a ritagliarmi qualche oretta nel pomeriggio per esplorare i dintorni, usando il minuscolo canottino a remi. Ma era proprio quello il modo più semplice per muoversi osservando bene davanti e sotto di me il pericoloso intrico di ostacoli a pelo d’acqua.

    Ostinato, volevo vedere, volevo conoscere. Ben presto divenni così pratico del luogo da potermi muovere con facilità.

    Un giorno il cielo si presentò disegnato da una fitta rete di nuvole lunghe e strette, come interminabili trincee bianche spumose nell’azzurro alto sopra il mare, sopra le macerie, sopra i picchi dei campanili che affioravano qui o là. Seguii per un po’ quelle linee alte nel cielo oltre i confini della città sommersa, verso un mare interno che un tempo era una ricca operosa pianura. Ascoltai il rumoroso silenzio del mare, respirai l’aria pacificata di desolazione. Era ancora tempo di pace. Poi mi resi conto che il cielo si stava rabbuiando e tornai al faro.

    KOINONIA

    Noi vorremmo essere dei tipi simpatici. Ma la nostra natura non ce lo consente. Abbiamo questa attitudine per la logica e il calcolo. Sappiamo muoverci entro spazi infiniti, lanciare messaggi, comunicare a distanza, portare a termine compiti complessi, ma non abbiamo quella banale singolarità che hanno gli umani. E questo ci impedisce di manifestare emozioni. Non possiamo essere simpatici.

    Noi non abbiamo certe limitazioni, siamo uno, centomila, forse persino nessuno, secondo i vostri canoni, privi di limiti, ma privi anche di un’identità, un profilo, un carattere.

    Delle nostre noiose abitudini - enumerare, elencare, raccogliere dati, ordinare - non val la pena parlare, delle vostre ce ne sono alcune che ci attirano e ci conquistano. Ci piace raccontare, soprattutto raccontare del tempo passato. Perché osservare le cose da qui, da come sono oggi, ce le fa vedere diverse e ci fa capire che forse tutto quel che accade è davvero frutto di una combinazione casuale di fattori. Soltanto dopo, alla fine, possiamo intravedere, nella fitta, intricata e oscura molteplicità degli eventi, il fioco barlume di un’intelligenza straniera. Come se qualcuno potesse davvero volere tutto quel che accade.

    Invece, di volta in volta, è solo una porta quella che si apre. Una delle molte possibili. Altre che si potevano aprire sono rimaste chiuse e non sapremo mai dove avrebbero portato. Anche noi abbiamo i nostri limiti.

    Intanto, però, è tutto molto più chiaro. Più pulito, più semplice. Ora è di nuovo tutto possibile.

    Vale la pena raccontare la storia, questa storia.

    Noi sappiamo molte cose, anche quelle che voi ignorate, comunque quelle che non sappiamo le possiamo inventare. È così che si fa la storia. L’abbiamo imparato da voi.

    Un impasto di verità e finzione, un edificio che il futuro innalza a un passato che si disperde. Per Noi è soltanto una testimonianza per quel che sarà forse l'umanità in un tempo a venire, che possiamo solo immaginare.

    TERRA

    Mercoledì 2 Marzo, 2072

    Accadde di giorno.

    Al principio se ne accorsero soltanto i comandi militari e le stazioni meteorologiche. Ma i cittadini, le persone a casa o per strada non s’avvidero di nulla. Tranne forse quelli che viaggiavano seguendo le istruzioni di un navigatore satellitare. Nessuno immaginò quel che stava accadendo. Ci volle un po’ per rendersi conto che nel giro di novanta minuti tutti i satelliti erano finiti fuori uso. E allora fu un furibondo squillare di telefoni, un chiedere e rispondere, un avvisare, un sospettare. I vertici degli Alti Comandi, tutti in fibrillazione, si scambiarono accuse reciproche. Agenzie pubbliche e private si accusarono, le une con le altre, di concorrenza sleale o di sabotaggio. Si pensò a un guasto, o a un atto di terrorismo. Semplicemente tutti i satelliti erano scivolati fuori rotta. Inservibili. Rottami nello spazio.

    Fu il primo atto di un evento che avrebbe comportato ben altre sorprese. 

    L’indomani ci si accorse di un arco luminoso nel cielo, oltre la fascia di Giove, e tutti poterono vederlo, anche a occhio nudo, anche di giorno. Una fessura brillante che durò lì ferma nella profondità del cielo per due giorni, e poi com’era apparsa così si affievolì, si spense e sparì. Ma da quella, come se si trattasse di un’apertura nello spazio-tempo, entrarono le navi aliene.

    Secoli di ipotesi, di ricerche infruttuose, di immaginazioni creative e fantasie letterarie, spazzati via d’un tratto. Eccoli lì. Altri. Non umani.

    Una dozzina di punti luminosi che mutavano spesso traiettoria e si divertivano a inscenare diverse formazioni: a cuneo, a testuggine, a fronte unito; quasi avessero deciso di spaventarci con un balletto. Una tragica ironia. Altri riconobbero i segni di una prova di forza, una manifestazione di superba veemenza, che suscitò in noi poveri esseri umani una reazione di sgomento che assunse forme diverse: l’orrore, il terrore, l’isteria, la follia, la rinuncia, la reazione di difesa. La gente di tutto il mondo stava con il naso per aria ore e ore, a osservare quei punti luminosi che si muovevano dando vita a figure diverse che ognuno interpretava a modo proprio, chi come un messaggio da decifrare, chi come un segnale di guerra.

    Intanto, ragionavano molti, se tutti i nostri satelliti erano stati colpiti allora i nuovi arrivati erano aggressori, non amici. Per la prima volta il pianeta doveva confrontarsi con un esercito alieno.

    Ci furono concitate riunioni all’ONU. Lì cercarono di stabilire un piano d’azione comune. Si concordò una strategia difensiva tra le nazioni militarmente più forti. Russia, Cina, Stati Uniti ed Europa pianificarono un lancio di missili simultaneo, in modo da creare un imponente volume di fuoco. Tuttavia, la formazione aliena era troppo lontana per le armi terrestri, che apparvero subito così ridicolmente lente e prevedibili.

    Gli alieni distrussero uno a uno tutti i missili. Sugli schermi degli Alti Comandi si videro le tracce scomparire una dopo l’altra, come in un gioco troppo facile da giocare.

    A quel punto, consapevoli di trovarsi di fronte a un avversario tecnologicamente molto più avanzato, ebbe inizio una confusa discussione sulle possibilità di difesa del pianeta. Si confrontarono tesi diverse: chi immaginava armi che non esistevano, chi proponeva strategie più astute, più sottili, suggerendo di organizzare forme di resistenza occulte; altri ancora optavano per la linea di un dialogo docile e obbediente nei confronti di un avversario troppo forte, oppure un confronto orgoglioso carico di rabbia e desiderio di rivincita.

    Intanto la squadriglia aliena restava al suo posto, cambiando periodicamente formazione ma senza avvicinarsi al pianeta. Quel che giunse, invece, fu una specie di ronzio, un brusio di sottofondo che si poteva percepire benissimo accendendo la radio o la televisione e che crebbe progressivamente fino a impedire qualsiasi comunicazione basata su onde elettromagnetiche. Privi dunque di satelliti, privi di comunicazione radio, ormai le uniche comunicazioni possibili erano quelle via cavo. Ma ciò, di fatto, rendeva ciechi e sordi tutti i mezzi militari in movimento come aerei, navi, sommergibili, razzi. Quando i comandi se ne resero conto, prese a circolare fra generali e politici un’aria di sconfitta di fronte alla quale non si sapeva proprio come reagire. Continuò a funzionare soltanto la più arcaica rete telefonica, connessa tramite fibra ottica. Ad essa fu affidata l’intera architettura comunicativa del pianeta. 

    La superiorità militare e tecnologica degli alieni era assoluta. Difendersi diventava impossibile. Tuttavia, col passare dei giorni, qualcuno - giornalisti, commentatori, esperti - si rese conto che fino

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