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Mamme d'Italia: Chi sono, come stanno, cosa vogliono
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Mamme d'Italia: Chi sono, come stanno, cosa vogliono
E-book217 pagine3 ore

Mamme d'Italia: Chi sono, come stanno, cosa vogliono

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Diventare madri è sempre una sfida. Nel Paese delle culle vuote lo è ancora di più. Sono 10,4 milioni le donne che vivono in Italia con almeno un figlio, da sole o in coppia, biologiche o adottive, italiane o straniere. Un’incredibile miniera di saperi e di energie. Attraverso un viaggio in sette tappe - scelta, corpo, mente, coppia, amicizia, lavoro e diritti - questo libro prova a restituire un ritratto delle mamme ancorato ai dati e alla realtà, al di là delle rappresentazioni idealizzate e delle strumentalizzazioni di parte. Per capire chi sono, come stanno e cosa vogliono. E dare loro il valore che meritano. Perché il rifiuto del mito della maternità non si trasformi nel suo opposto: il mito del rifiuto della maternità.

"Un atto estremamente egoista, avere un figlio, diventa un atto di estrema generosità: dare la vita a una persona. Scegliere di essere madri in Italia è sempre più una scelta ponderata, e perciò tardiva. Un segno di fiducia nel mondo, nonostante tutto."
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2024
ISBN9791254843413
Mamme d'Italia: Chi sono, come stanno, cosa vogliono

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    Anteprima del libro

    Mamme d'Italia - Monica D'Ascenzo

    Prefazione

    di Alessandro Rosina

    Qualsiasi società per funzionare e darsi continuità nel tempo ha bisogno di persone che diventano genitori. Nel passato il numero di tali persone è sempre stato abbondante per il fatto che avere figli era considerato un elemento di natura, non l’esito di una scelta deliberata. Nascevano quindi molti bambini, ma elevati erano anche i rischi di morte in età infantile e lungo tutto il corso della vita. Poco più di due erano quelli che arrivavano alla stessa età dei genitori. La responsabilità di allevarli nei primi anni di vita era, inoltre, tutta a carico delle donne.

    Queste condizioni sono scomparse nelle moderne società avanzate. I genitori non sono più presenti in abbondanza: molte persone scelgono di non formare una vita di coppia stabile e molte coppie non sono interessate ad avere figli. Un bambino che nasce ha una probabilità praticamente pari a uno di arrivare all’età dei genitori, ma il numero di figli in media per coppia tende ad attestarsi sotto i due, quindi insufficiente a mantenere un equilibrio tra generazioni. Ne consegue una popolazione che invecchia e va verso il declino. Infine, impegno e responsabilità nell’allevare i figli riguardano oggi, almeno in via di principio, entrambi i genitori.

    Una conferma che questo è il nuovo standard di riferimento arriva dal cambiamento sull’affido dei minori in caso di separazione. Con la legge n. 54/2006 si è passati dal dare per scontato che dopo lo scioglimento dell’unione fosse la madre ad assumersi la cura quotidiana dei figli (cosa che avveniva in circa l’80% dei casi) a considerare come soluzione privilegiata l’affidamento a entrambi i genitori, con corrispondente riconoscimento del diritto del figlio di mantenere un rapporto continuativo del tutto equivalente, come tempo e modalità, con la madre e con il padre.

    Si tratta di una tappa importante in un percorso che ha progressivamente portato a equiparare il ruolo di entrambi i membri della coppia nella famiglia e rispetto ai figli. Un punto di partenza di tale processo può essere individuato nella riforma del diritto di famiglia del 1975, che pone per la prima volta moglie e marito sullo stesso piano in termini di scelte familiari, di successione, di aspetti patrimoniali, di potestà sui figli. Una riforma che arriva come conseguenza di un cambiamento culturale del ruolo della donna nel mondo del lavoro, nella società, all’interno della coppia che va a mutare le basi su cui era costruito il modello tradizionale degli anni Cinquanta e Sessanta. Tale modello prevedeva una forte asimmetria di genere, con percorsi di accesso alla vita adulta e ruoli da assumere molto differenziati. Dai giovani uomini ci si aspettava che trovassero presto un lavoro per diventare economicamente indipendenti e in grado di mantenere una propria famiglia. Le giovani donne, invece, venivano preparate ad acquisire capacità e competenze per i ruoli di moglie e madre. L’autonomia di scelta femminile era nel complesso limitata, sia all’interno della famiglia di origine sia dopo le nozze. La grande maggioranza delle donne passava, senza soluzione di continuità, dall’autorità paterna alla dipendenza dal marito.

    L’obiettivo delle giovani donne cresciute nei primi vent’anni del Secondo dopoguerra era quello di sposarsi presto, per uscire dalle ristrettezze e dalla rigidità della famiglia di origine e mettere le basi di una vita domestica più moderna, resa meno gravosa dal supporto casalingo dei nuovi strumenti tecnologici e meno grigia dalle nuove possibilità di consumo. Era in questa prospettiva che veniva pensato un proprio destino migliore rispetto a quello delle proprie madri.

    La generazione successiva, nata nel Secondo dopoguerra ed entrata nella vita adulta dalla fine degli anni Sessanta in poi, matura nuove aspettative. È cresciuta in un Paese che con il miracolo economico ha raggiunto nuove condizioni di benessere e che con il rafforzamento del sistema di welfare ha allargato i diritti sia di accesso all’istruzione sia relativamente alle condizioni lavorative. È anche la generazione che conquista maggiore libertà sessuale grazie ai mezzi di contraccezione moderni. I percorsi femminili e maschili nella transizione alla vita adulta iniziano quindi a convergere. In questo nuovo mondo che si apre, il capitale umano femminile raggiunge livelli simili, se non superiori, a quelli maschili. Inoltre, nuove opportunità per l’impiego femminile si aprono con l’espansione del settore terziario che porta a superare un modello produttivo basato sul maschio operaio. Questa è la generazione che non vuole liberarsi dalla potestà del padre per poi diventare dipendente dal marito. Può pensare alla propria realizzazione, a differenza delle proprie madri, anche oltre il ruolo di moglie e di casalinga. La legge sul divorzio è del 1970. Il lavoro femminile non è più un ripiego o complementare a quello maschile: può portare libertà, valorizzazione, indipendenza economica.

    Nei fatti, però, stenta a trovare piena realizzazione. Il sistema di welfare fatica a rinnovarsi, a superare la centralità del maschio adulto e a prevedere strumenti più in linea con le esigenze dei giovani di fine secolo e delle donne delle nuove generazioni. Le opportunità di lavoro per le nuove generazioni risultano limitate dai bassi investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione, dal basso investimento negli strumenti di effettiva valorizzazione del capitale umano e nelle politiche attive del lavoro. Per le donne la scelta di lavoro e carriera entra in collisione con quella di formare una famiglia e avere figli, con un sistema di welfare pubblico e aziendale che rimane debole sul fronte delle nuove necessità di armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro. Il modello di lavoratore rimane quello di chi non ha il carico di responsabilità familiari, dando per scontato che se si è padri tale carico è assunto dalle madri, mentre se si è donne che si lasci il lavoro appena si diventa madri o si rinunci a diventare madri.

    Negli altri Paesi si rafforzano i nidi, li si rende accessibili a tutti, il part-time è una scelta possibile e reversibile, si promuove una cultura della conciliazione. La conseguenza è che nel corso degli anni Ottanta e Novanta la relazione tra numero medio di figli per donna e occupazione femminile da negativa diventa positiva, ovvero i Paesi in Europa con più alta occupazione femminile sono anche quelli con fecondità sopra la media. L’Italia in tale processo di cambiamento rimane fanalino di coda, con le donne maggiormente poste nella condizione di rinuncia: al lavoro se si ha figli, ai figli se si ha un lavoro. L’Italia subisce un repentino crollo delle nascite nel corso degli anni Ottanta. Il numero medio di figli precipita a meno di 1,5 e rimane persistentemente sotto tale livello. Si ottiene così una struttura per età della popolazione sempre più squilibrata. Da un lato cresce la popolazione anziana, grazie all’aumento della longevità, dall’altro lato, però, più che negli altri Paesi si riduce la consistenza delle nuove generazioni e di conseguenza si indebolisce progressivamente la popolazione in età attiva.

    Ora non è più solo una questione di sacrifici e rinunce femminili, di nuove generazioni demograficamente deboli e con percorsi incerti, ma di squilibri che stanno compromettendo le possibilità di sviluppo del Paese e la sostenibilità del sistema di welfare complessivo.

    Ecco allora che il dibattito pubblico italiano scopre il tema demografico, individua la bassa natalità come problema, fa pressione perché le donne facciano più figli. Impostazione doppiamente sbagliata. Perché i figli hanno una madre ma anche un padre, quindi la questione del perché ci sono poche nascite va posta allo stesso modo a donne e uomini. Perché, in ogni caso, il processo decisionale è cambiato rispetto al passato e oggi avere figli è una scelta non scontata. Una scelta sulla quale non funzionano le ragioni negative dei timori sulla possibilità che saltino pensioni e welfare, ma che deriva da un desiderio personale che trova incoraggiamento dalle condizioni oggettive del presente e dalla visione positiva del futuro. Le nuove generazioni non vogliono sentire il dover avere figli come imperativo biologico o obbligo morale, ma come risposta al desiderio di vederli crescere in un contesto sicuro con prospettive di benessere e opportunità.

    Quindi il punto di partenza è la libertà di scelta. A cui segue strettamente la possibilità, per chi desidera avere figli, di rendere il diventare madri e padri una esperienza positiva, che non porta a eccesso di penalità in termini di costi economici e di complicazioni organizzative su tempi di vita e lavoro, ma condizioni e tempo per migliorare il benessere nella relazione di coppia e tra genitori e figli. In presenza di misure e strumenti che vanno in questa direzione, aumenta anche la libertà di chi non ha figli. Perché consente di non averli non come esito di una rinuncia, implicita o esplicita, ma come effettiva scelta, sapendo che se si decide di averli si troveranno le migliori condizioni possibili perché essa si integri bene con la realizzazione anche in altri campi. Inoltre, consente a chi ha figli di poter ridurre il rischio di povertà economica ed educativa, rafforzando quindi il contributo delle nuove generazioni a uno sviluppo più solido ed equilibrato del Paese a beneficio di tutti, anche di chi (qualsiasi sia il motivo) non li ha.

    I capitoli di questo libro offrono diversi e articolati elementi di riflessione che aiutano ad aggiornare le coordinate della discussione pubblica rispetto al senso, al valore e al significato di diventare madri oggi, mettendo in evidenza anche limiti di policy e resistenze culturali. Per superarli è necessario favorire, del resto, anche un cambiamento – sia sul piano individuale sia su quello collettivo – relativamente a come interpretare e vivere la nascita di un figlio in prospettiva maschile, che porti a un nuovo modo di essere padri, datori di lavoro, classe dirigente.

    Introduzione

    Fare il tè.

    Mentre chiudevamo questo libro continuavano a rincorrersi emergenze: genitori in ospedale, adolescenti con le bizze, colloqui con i professori dei figli, raucedini, trasferte improvvise, esami medici da incastrare tra un articolo e l’altro, compleanni da organizzare, speciali e interviste da sfornare, una corsa al pronto soccorso, una lavatrice che ha fatto allagare casa.

    Ci è sembrato spesso di soffocare, ingolfate.

    Un giorno ci siamo imbattute in un post di Labodif, il laboratorio di ricerca, formazione e consulenza fondato dall’economista Giovanna Galletti e dalla scrittrice e regista Gianna Mazzini. Una mamma raccontava del consiglio di un’amica che si occupa di progetti educativi e aveva appena lavorato con un gruppo di donne con neonati: «Bisogna non fare, – mi diceva – bisogna non proporre. Noi siamo bombardate di decaloghi della buona madre, dal primo momento che restiamo incinte. Il pediatra, il ginecologo, l’esperto. Io invece vado, le accolgo. E faccio il tè. E lì, sollievo».

    Fare il tè ci è parsa la metafora giusta: lo «spazio vuoto del non fare, insieme ad altre».

    Un rituale del fermarsi per ritrovarsi, in armonia, rispetto e semplicità.

    Sono questi, in fondo, i tre principi che ci hanno spinto a scrivere di madri, in un tempo in cui intorno alla maternità si consumano scontri culturali senza esclusione di colpi, come se avessimo bisogno di nuovi steccati tra le donne invece di vigorose (e furbe) alleanze.

    La editor Francesca de Lena, nella sua newsletter I libri degli altri, ha coraggiosamente condiviso l’impressione che «nel tentativo di rinvigorire il sempre sacrosanto tema donne che non vogliono figli – che ha illustrissime progenitrici romanziere e saggiste ed è vivo e vegeto anche oggi (esempi: Madri e no di Flavia Gasperetti, Pentirsi di essere madri di Orna Donath) – si cerchi forzosamente di ribaltare il paradigma, rappresentando non più come emancipatoria la libertà di scelta della non-maternità, ma come sminuente la scelta di maternità. Si rischia così di passare dalla legge del fare i figli al biasimo quando non allo scherno del fare i figli, rubricando il discorso e la scrittura attorno alla maternità a una pratica conformatrice – e, fuori dal dibattito formale e dentro le chiacchiere tra amici, la maternità a un’ambizione casalinga, provinciale e – perché no? – di destra».

    Contro questa riduzione ingenerosa le pagine che seguono si ribellano.

    L’insofferenza al discorso sulla maternità tradisce l’incantesimo collettivo di una società che tenta di cancellare l’origine per eliminare anche l’idea della fine, come se potessimo evitare di continuare a interrogarci sulla vita, sulla morte, sul tempo, sul corpo, sul mistero. Il sacrosanto rifiuto del mito della maternità non può e non deve trasformarsi nel suo opposto: il mito del rifiuto della maternità.

    Con questa convinzione abbiamo voluto raccontare e nominare, accostandoci alla maternità non come questione astratta, buona per divagazioni intellettuali e dispute ideologiche, ma come molto laica e concreta incarnazione nelle mamme d’Italia. Il risultato è un tentativo di fotografia, per forza parziale, dei 10,4 milioni di italiane che abitano questo Paese e hanno figli. Non importa nati come; importa nati. Un insieme di donne diverse, a cui si chiede di lavorare come se non fossero madri, pena l’espulsione dal mercato, di essere madri come se non lavorassero, pena lo stigma, e poi di essere nonne come se la massima e unica vocazione al tramonto dell’esistenza fosse quella di occuparsi dei figli dei figli. Un caleidoscopio di persone a cui chiunque si ritiene in dovere di fornire consigli o imputare responsabilità. Un giacimento incredibile di risorse. Creature sempre più rare – nel 2021 i single (33,2%) hanno superato le coppie con figli, che ormai costituiscono soltanto il 31,2% delle famiglie e che nel 2045 saranno superate dalle coppie senza figli – in un mondo che a parole esalta la maternità e nei fatti la allontana e la disincentiva, talvolta con disprezzo.

    Sono sette le tappe del nostro viaggio: scelta, corpo, mente, coppia, amicizia, lavoro e diritti. Come Alice Walker, siamo andate alla ricerca dei giardini delle nostre madri, per cercare di vedere e far vedere le donne oltre le mamme. La luce oltre la siepe. Lo stare al mondo oltre al mettere al mondo. Per stanare, senza pretesa di esaustività, l’essenziale che accomuna – tanto nella discriminazione quanto nel potere della generazione e dell’accompagnamento della vita nuova – madri italiane e straniere, biologiche e adottive, sole e in coppia.

    Lo spazio del tè è il vuoto che invochiamo, la zona di libertà in cui poter chiedere alle madri chi sono, come stanno, cosa vogliono. E, finalmente, ascoltarle.

    Capitolo 1

    Scelta

    Grazie a dio,

    che forse esiste,

    niente figli.

    Grazie a un caso

    o a una scelta istintiva

    o a una remora

    che ha trascinato la questione

    fino oltre il limite,

    non sarò io ad abbandonare

    (…)

    La gioia

    di non sapere

    che significa

    quel potere senza controllo;

    di non aver dovuto capire

    la fatalità dei miei difetti

    addosso a qualcun altro.

    — Anna Segre, Maternità

    «Ho paura di perdere la mia identità, la mia libertà e il mio futuro se decido di avere figli. D’altra parte, però, ho paura di avere dei rimpianti se non lo faccio».

    Come un messaggio dentro una bottiglia lasciato nel mare del web, questa frase galleggia in uno dei tanti forum dedicati a chi sta cercando di decidere se avere un figlio, a chi vuole assolutamente diventare mamma, a chi sta diventando mamma oppure a chi è diventata mamma da poco. Un paio di righe che riassumono uno dei dilemmi più ardui da sciogliere nella vita di una donna (ma dovrebbe esserlo anche per un uomo), per chi non si sente predestinato per natura o per cultura a diventare genitore. Un novero che sta aumentando con gli anni e che ha portato, soprattutto nei Paesi anglosassoni, alla nascita di una nuova professione: gli psicologi della maternità, a cui si sono affiancati nell’ultimo decennio i coach specializzati in fare figli o meno. Se da una parte può esistere un percorso personale, emotivo e razionale allo stesso tempo, che può portare a decidere di avere un figlio, in realtà in ogni caso, in qualunque situazione e per chiunque, si tratta di una scelta totalmente imponderabile. Si può scegliere di essere madre con cognizione di causa, solo una volta che madre già si è. Sono troppe, infatti, le variabili che una simile decisione deve tenere in considerazione, talmente tante che la stessa intelligenza artificiale alza le mani

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