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A love supreme: Cannibal Caino
A love supreme: Cannibal Caino
A love supreme: Cannibal Caino
E-book228 pagine3 ore

A love supreme: Cannibal Caino

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Info su questo ebook

A love supreme, John Coltrane. Una creazione imperfetta, ma vera, istintivamente e intimamente valida, sincera. Qualunque sia il motivo, l'oggetto che ha ispirato il lavoro di Coltrane, il risultato è genuino, nuovo, autentico.
Il mio lavoro, così come ogni opera ma forse più delle altre è imperfetto. Profondamente imperfetto. E ne sono felice.
Perché non avrebbe potuto essere diverso; perché in questo momento, seguendo i miei pensieri e le fonti di ispirazione non poteva nascere che questo.
Avete notato come sono noiosi e impersonali i prodotti perfetti? Ogni libro ferma fra le righe un momento della vita, così questo mio scritto totalmente inventato, (tranquilli... non sono cannibale e non ho mai avuto esperienze di quel genere) ferma un mio momento particolare, che ha trovato questa situazione estrema per esprimersi. Tutto qua.
Spero che vogliate entrare nella storia, che riusciate a muovervi in questo mondo feroce, che unisce momenti altissimi alla violenza dettata da un'emotività estrema.
In fondo è solo una storia, come tante.
Siete miei ospiti, anzi...siete ospiti di Marie e Caino!

LinguaItaliano
Data di uscita25 apr 2012
ISBN9781476244785
A love supreme: Cannibal Caino
Autore

Sura Bizzarri

Sura Bizzarri vive a Maresca, in Toscana con la famiglia e numerosi animali. Coltiva da sempre la passione per la scrittura. "La Primavera del Botticelli" è il suo primo romanzo. E' arrivata un'altra appassionante storia nella quale il gusto per il cibo vegetale, la carne umana e il pensiero totalmente primitivo si intrecceranno fino a dissolversi l'uno nell'altro. A Love Supreme - Cannibal Caino è disponibile per tutti qui su Smashwords e tra breve sulle pricipali librerie on-line. (Se non la trovate andate in fondo alla pagina di ricerca e disattivate l'adult filter cliccando su "Deactivate adult filter", è una storia non adatta ai bambini.)

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    Anteprima del libro

    A love supreme - Sura Bizzarri

    Chapter 1

    Avevo perso il senso delle cose, stavo lentamente prendendo le distanze dalla vita. Mi stavo allontanando, remavo in senso contrario, andavo controcorrente.

    C’erano giorni nei quali non provavo neanche un’emozione; allora tentavo di smuoverle, di stanarle. Mi ubriacavo di musica, provavo ad innamorarmi di un’idea, proiettavo i colori sulla tavolozza sbiadita dei miei desideri.

    Per un attimo mi sembrava di poter modellare qualcosa con le mani, mi sembrava di riuscire a dar vita alle figure piatte, di guidare il vento a soffiare fra le foglie, fra i capelli, fra le ciglia, fra i granelli.

    Ma era solo un attimo, una fiammella troppo debole, una dinamo che non caricava a sufficienza.

    Le increspature subito si appiattivano e le onde si livellavano orizzontalmente.

    Tornavo alla mia apatia, passi lenti, poca forza, assenza di obiettivi. Mi accomiatavo dal mondo, mi arrendevo alla noia, non volevo più prendere l’iniziativa, non mi facevo coinvolgere, lasciavo che le cose transitassero su di me, scivolassero via, passassero oltre. Ero stanco di tutto e interessato a niente. Eppure ero ancora giovane! Eppure ero ancora vivo!

    Me ne stavo da solo, nella mia casa in campagna. Camminavo molto fra l’erba, erba alta, erba indomita, mai curata. Mi era rimasto il gusto di camminare, forse era il mio modo di dare un volto alla noia.

    Poi rientravo e lasciavo che il sole filtrasse attraverso i vetri, opaco, stanco, buono perché non bruciava troppo.

    Quello era il mio modo di assaggiare i sapori semplici, le piccole cose, i segnali autentici che mi facevano sentire quanto fossi ancora vivo. In tutto questo non c’era nessuno sforzo da parte mia, non un movimento in più a quelli necessari; ero una macchina in raffreddamento, un’astronave in avaria, mi allontanavo nello spazio, andavo alla deriva.

    Ogni tanto leggevo la posta, distrattamente, senza vera attenzione.

    Cestinavo tutto, qualsiasi cosa, ovviamente suddividendo carta e plastica. Io mi stavo arrendendo ma mantenevo il senso ecologico di salvaguardia del mondo per tutti coloro che mi sarebbero sopravvissuti.

    Ero arrivato oltre, in fondo, al capolinea, al limite estremo, al di là del di là del di là del senso che comunemente, più o meno tutti diamo alla vita.

    Tuttavia c’era ancora qualcosa di irrisolto, un barlume di umanità, il mio specchio rifletteva ancora qualcosa; immagini opache, baluginanti, vecchie foto sbiadite e astronavi puntate verso il futuro. Non il mio … quello degli altri.

    Vivevo come una lumaca, nella mia chiocciola, come un mollusco, nella conchiglia.

    Mangiavo poco, male, cibi poveri, mangiavo senza bere, bevevo senza mangiare. Ma non riuscivo ad arrendermi completamente, non riuscivo a rinunciare del tutto al cibo, i sogni continuavano a popolare le mie notti.

    La vita degli altri continuava ad appassionarmi. Per me era importante sapere che la gente era felice, che le famiglie si allargavano, che le coppie vivevano il loro amore, che i bimbi crescevano, che imparavano nuove cose, che vivevano di una vita loro, simile ma diversa da quella di qualsiasi altro.

    Forse era proprio la vita degli altri a giustificare la mia. Vedevo i bimbi tornare da scuola sul pulmino giallo, gli zaini sbatacchiati in mille voli lungo la strada, una palla ai piedi e tutti a corrergli dietro.

    Vedevo ragazzine con i jeans strappati e i capelli nel vento, anziane coppie ancora attive, dignitosamente insieme, ancora capaci di trovare gusto nelle cose, di accarezzare gli animali, di abbozzare qualche passo di danza.

    In fondo, nel nucleo più interno a me stesso, quello vulcanico, quello ancora caldo ero irrimediabilmente votato alla speranza.

    Ciò nonostante la mia vita continuava a chiudersi su se stessa, non avevo urgenze, non cercavo soddisfazioni, evitavo di espormi.

    Le giornate trascorrevano lente, l’ozio della mia convalescenza dopo la caduta che mi aveva incrinato due vertebre era la condizione ideale per cullare quel mio rifiuto di rendermi parte della vita.

    Nel primo periodo ero immobilizzato, un’amica veniva a prendersi cura di me; cura materna, cura meticolosa, al limite della noia, dell’imbarazzo.

    Poi avevo cominciato ad alzarmi, avevo ripreso le piccole abitudini quotidiane dell’igiene, le prime lente passeggiate. Ma da subito era palese che avevo perso lo smalto, la voglia.

    La molla si era rotta, le motivazioni non erano sufficienti, tenermi al di fuori era più semplice. Forse non era la via giusta, ma senza dubbio era la più facile.

    Ero ammalato di una malinconia che si nutriva di se stessa, che si adagiava su se stessa, che prendeva forza da se stessa. Era un circolo vizioso, mi ci crogiolavo senza la reale volontà di interromperlo.

    Talvolta le mie malinconie erano dolci, legate alla nostalgia; pungevano appena, di una sottile fitta languida, un misto di rimpianto e dolore. Altre volte si trattava di un senso di sradicamento che mi faceva fluttuare nell’incertezza, al di fuori del tempo e dello spazio – cos’erano poi realmente? –

    Sentivo un disagio quasi fisico, ero fuori, fuori, fuori. In quei giorni camminavo molto, di tanto in tanto mi fermavo per interrogarmi sul senso di quei passi che non avevano scopo, che non avevano meta.

    Il cervello macinava i pensieri e tornava con voluttà su avvenimenti ormai passati, ormai lontani, che non trovavano spazio nella cartella ricordi digeriti.

    Uscivo da me stesso, avevo contatto con gli altri quando uscivo per comprare il cibo, per la visita di controllo alle mie vertebre dolenti, una volta al mese per la visita a mia madre. Tutto qui. Nessun altro evento da segnalare.

    Non sentivo il bisogno di frequentare qualcuno, anzi il pensiero quasi mi infastidiva. L’amica che mi aveva curato mi telefonava spesso, mi voleva bene, era preoccupata per me, ogni tanto si faceva viva.

    Le rispondevo con frasi di circostanza, le sorridevo per nascondere gli scarabocchi disordinati dei miei pensieri. Lei parlava, io non la ascoltavo, pensavo ad altro, pensavo a niente, esploravo con gli occhi le ombre sui muri.

    Quando stava per andarsene la rassicuravo; ero sempre stato un po’ distratto, di poche parole, non ero incline ai racconti, non sapevo essere troppo gentile, sapevo solo essere me stesso. Ma tutto andava bene, non era ancora il momento di tornare a lavoro, non era ancora il momento di stare fra la gente, non ero pronto.

    Lei se ne andava titubante, combattuta sulla soglia se andarsene o tornare indietro a controllare se la dispensa aveva cibo sufficiente, se il letto era pulito, se stavo leggendo qualcosa, se davo aria alle stanze, se dalle mie cose si potessero notare segnali preoccupanti, di qualunque genere, di qualunque entità.

    Dovevo spingerla, rassicurarla ancora, sorriderle con noncuranza, senza tirare le labbra, fingermi rilassato e sereno.

    La verità era che volevo stare solo, vivere solo, mangiare da solo, dormire da solo, pensare da solo. Osservare gli altri, senza contatti.

    Le mie attività giornaliere erano abbastanza semplici, più o meno sempre le stesse; pulivo poco, preferivo soffermarmi sulla lettura, che assorbiva la mia attenzione, non guardavo la televisione, troppe belle donne, troppa ostentazione di sorrisi a cinquantadue denti, la cosa mi annoiava, sviliva il significato già abbastanza vuoto delle mie giornate.

    Io amavo osservare la gente vera, quella stanca, o felice di una felicità autentica, le braccia cariche di sacchi della spesa o le spalle curve sotto la giacca da lavoro, il sorriso sdentato dei bimbi alle prime armi con la scuola e le ginocchia sbucciate dopo le corse nei pomeriggi di gioco.

    Guardavo le mamme che si trascinavano dietro bimbi arrabbiati, la giovane donna che aspettava l’autobus per andare a lavoro, ogni giorno un po’ più carina, ogni giorno un po’ più curata, il sorriso malizioso di chi aspetta di vedere qualcuno.

    Guardavo la vecchietta ancora forte che usciva per buttare l’immondizia e si guardava intorno, cercava facce conosciute per scambiare una parola, prima di tornare in casa e accendere la televisione.

    Guardavo il cane che gironzolava lì intorno, che seguiva chiunque si mostrasse gentile con lui, che annusava tutto e tutti come volesse ricordare indelebilmente l’odore di quella strada, di quella sua vita. Guardavo i gatti, e gli uccellini.

    Quel riposo forzato mi aveva spinto a osservare gli altri, attentamente, con metodo. Preferivo di gran lunga dedicarmi a quel mio studio degli individui anziché occuparmi della mia casa, della mia vita.

    Avere tanto tempo vuoto a disposizione può diventare il modo più pericoloso di disperdere le proprie energie. Viene naturale rimandare a dopo; il tempo è tanto, è statico, non ha fine.

    La vita sociale ha dei tempi ben precisi, ci sono orari, rigide tabelle da rispettare. Il mio tempo si era dilatato, era diventato una bolla in espansione, come il concetto infinito dello spazio e del tempo. Potevo gestirlo senza furia, potevo nuotarvi in lungo e in largo senza limiti.

    Così i piatti si accumulavano sull’acquaio, i vestiti si ammassavano sulle sedie e il divano era ingombro di libri, giornali, magliette.

    Il mio sguardo non vedeva niente di tutto ciò, preferiva esplorare fuori dalla finestra, seguire i passi delle persone, svoltare dove loro svoltavano, soffermarsi sulle loro parole quando incontravano qualcuno.

    Avevo cominciato ad andare al mercato, lì potevo stare vicino alla gente, ascoltare i dialoghi, osservare i gesti decisi che aprivano le borse, prendevano il portamonete, le voci sicure che chiedevano la merce e il prezzo, le espressioni appena un po’ indecise mentre valutavano il costo rispetto al valore.

    Le mie notti non erano più calme e sonnolente come il primo periodo di riposo forzato. Allora il dolore alla schiena era abbastanza forte e prendevo molti antidolorifici che acquietavano col malessere anche la mia ansia, l’agitazione.

    Dormivo pesantemente, sognavo molto. Mi svegliavo un tantino sconvolto, incapace di valutare per qualche minuto il senso della realtà, ma la notte era un posto sicuro, un attraversamento sufficientemente tranquillo per approdare al mattino successivo.

    Nell’ultimo periodo, invece, parallelamente al mio miglioramento fisico, il sonno era disturbato. Mi addormentavo relativamente presto per svegliarmi nel cuore della notte come se fosse già mattino, col bisogno di alzarmi, di fare qualcosa, di non pensare.

    Perché il pensiero per me è sempre stato un meccanismo abbastanza complicato, pericoloso. I collegamenti mi portano lontano, mi aprono nuove strade che riapprodano necessariamente al punto di partenza, al nucleo originale, all’inizio del mio percorso. E se portano lievi modifiche o nuovi motivi di ragionamento, questi non fanno che complicare la matassa, anziché sbrogliarla e avviarla al ritrovamento del capo.

    Certe notti erano intollerabilmente lunghe e niente riusciva a rendere le mie gambe meno nervose.

    La finestra era buia, non passava nessuno, nemmeno una fronda mossa dal vento, nemmeno un gatto randagio che venisse a miagolare lì vicino.

    Avrei dovuto rendermi conto che l’insonnia è un segnale evidente di un’alterazione dello stato psichico, ma non volevo affrontare l’argomento, Era più facile lasciar perdere.

    A volte mi alzavo e osservavo le stanze dalla prospettiva del buio. Gli oggetti inanimati, il calore accumulato del giorno, i rumori nuovi nel silenzio assoluto. Passeggiavo fra le sedie, facevo lo slalom attorno ai mobili, mi posavo sullo sgabello e osservavo attentamente un oggetto, uno preso a caso, uno qualsiasi, che cambiava notte dopo notte.

    Mi imponevo di guardarlo, di scandagliarlo, di trovarvi qualcosa di nuovo, di trasformarlo e riplasmarlo in base alle mie sensazioni. Un po’ come fanno i bimbi quando giocano a cavalcioni di una sedia come se fosse un’automobile, un cavallo o una barca.

    Il gioco a volte funzionava, era una rudimentale tecnica di rilassamento, perché ripensare alla mia vita passata era un groviglio di sentimenti confusi, il futuro era un concetto che evitavo di prendere in considerazione, il presente era la ragione che mi spingeva a trovare vie di fuga dal pensiero.

    La mia situazione era di quelle al limite, un equilibrio vacillante sorretto da strane abitudini e tanta fantasia, immaginazione, proiezione della vita degli altri.

    All’alba il mio corpo era sazio di stimoli, si rilassava, arrivava il sonno, il bisogno di riposare. I lenzuoli diventavano freschi, leggeri, erano casa mia. Le forme degli oggetti, i suoni della notte, le ombre sui muri erano compagni già usati.

    Il rumore degli uccellini che riempiva ogni alba era un suono felice, era il rumore di casa mia; mi addormentavo con naturalezza, il cervello si spengeva gradualmente, annegava in un mondo appena schiuso, il respiro era regolare, il corpo perfettamente rilasciato, appena tiepido, il mio guscio, la parte di me che incontrava il mondo.

    Dormivo fino al tardo mattino, il risveglio era la luce; non guardavo la stanza, non vedevo più gli oggetti, se non due o tre cose che mi seguivano da sempre, che erano il simbolo di me stesso.

    Il mio sguardo si dirigeva subito fuori. Il tempo – cos’è oggi? Che giorno è? C’è il sole? Tira vento? Piove? L’aria è limpida? –

    Mangiavo subito qualcosa, avevo fame, una fame positiva, la fame della vita, perché ogni mattina la mia vita rinasceva per poi scemare durante il pomeriggio. Protoni, neutroni, elettroni, fotoni, forza elettromagnetica, neutrini. La vita ricominciava ogni mattino, si riproduceva, lo spazio creava nuova energia che anch’io, al pari di ogni forma di vita, ero chiamato a consumare.

    Mangiavo e uscivo, coi vestiti del giorno prima, indossando la prima cosa che trovavo e sul mio volto, nei miei gesti, nel mio modo di camminare si leggeva la fame di vita.

    Bevevo le immagini con gli occhi, mi nutrivo delle cose al pari degli alimenti. A volte fissavo troppo intensamente le persone, provocavo imbarazzo o paura, mi rendevo conto di non essere compreso.

    Nei momenti di benessere arrivavo a camminare velocemente, quasi a correre … ma inevitabilmente arrivava il pomeriggio a farmi invecchiare, a togliermi la voglia di essere, la voglia di continuare.

    Allora la finestra era il mio osservatorio favorito, per cogliere non i gesti, le parole, i movimenti, ma i sentimenti degli altri.

    Attraverso questi la mia vita che non aveva scopo si lasciava raggiungere dalla forza che gli era necessaria per le funzioni vitali, quelle minime, di sopravvivenza.

    Nei mercati, quando leggevo la gente e mi imbevevo di ogni singola individualità, quando mi nutrivo della forza, della vitalità altrui, i miei occhi penetravano i corpi, come se volessero appropriarsene, come se volessero penetrarli e stabilirvisi.

    Ero equivoco, lo so, il mio baricentro era completamente spostato verso orbite altrui, che non mi appartenevano, che non avevo il diritto di indagare, seppure superficialmente.

    Eppure la vita degli altri mi rendeva abbastanza forte da poter sopportare la mia, da poterla condurre avanti, da spostare un passo dietro l’altro fino a riportarmi a casa, alle mie cose, alla confusione che ogni tanto mi costringevo a decostruire.

    Le persone erano casuali, quelle che incontravo, quelle che più attiravano la mia attenzione; in genere erano persone giovani, nelle quali la vita era pulsante, ben visibile, una fontana che zampilla, un fiume in piena, il mare cosparso dalla luce del sole. Giovani donne, giovani uomini, anche bimbi, col loro entusiasmo, con la voce gioiosa, ironica, le urla alte e acute, i movimenti veloci, pieni di forza, l’esuberanza del bisogno di fare, di costruire.

    Mi lasciavo innamorare della loro vitalità, dei lampi negli occhi al balenare delle idee, delle espressioni così vere, così inconfondibilmente genuine, uniche.

    Catturare la gioia nei loro occhi mi riportava alla mia gioia di bimbo. Sapevo cosa stavo cercando in quegli sguardi, perché ogni loro scoperta era stata molto tempo prima la mia, perché avevo reagito al loro stesso modo ogni volta che la vita mi aveva insegnato qualcosa.

    Avrei voluto poter essere loro utile, riuscire a fargli capire che non esiste la vergogna, che ogni sentimento è concesso, che anche le piccole cose, quelle che contano poco, quelle che gli adulti giudicano prive di senso possono far male. Che tutto è ancora poco, ma che nei palmi delle mani può entrare esattamente quello che ci occorre. Ma non mi avvicinavo mai. Restavo al di fuori, come era giusto che fosse.

    Sorridevo coi loro

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