L'angelica fiorisce in estate
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Anteprima del libro
L'angelica fiorisce in estate - Ilaria Gerolin
info@youcanprint.it
CAPITOLO 1
La prima volta che ho letto Gli indifferenti
di Alberto Moravia avevo circa quindici anni; lo avevo trovato tedioso e mi era scivolato addosso senza avermi lasciato niente.
Lo avevo ritrovato qualche anno dopo, quando avevo deciso di portarlo all’esame di maturità, solo perché si legava alla mia tesina.
L’avevo riletto velocemente la notte prima degli orali, ma quella volta ne ero rimasta rapita; c’era qualcosa in quel libro che sembrava parlare di me, ma ancora non riuscivo a mettere a fuoco cosa fosse.
Superati dignitosamente gli esami, avevo chiuso quella sensazione in un cassetto e non ci avevo più pensato per qualche anno; in fondo a quel cassetto, però, c’era un’inquietudine costante che cercavo in tutti i modi di ignorare.
Un giorno quel libro dalla copertina rovinata mi capitò tra le mani mentre riordinavo i miei vecchi materiali scolastici; appena lo vidi, ebbi la sensazione che tra quelle pagine ci fosse un messaggio per me. Cercai di ignorare quel pensiero per qualche giorno, ma non mi abbandonava, quindi alla fine presi coraggio e iniziai a leggere con attenzione. Mi ci volle un bel po’ di tempo, ma alla fine capii.
Io ero la volontà di cambiare vita di Carla, la necessità di salvare le apparenze di Mariagrazia, il menefreghismo di Leo, la decadenza di Lisa, ma soprattutto l’indifferenza di Michele.
Il mio nome è Angelica: nei primi anni della mia vita mi definiva alla perfezione, essendo io una bambina tranquilla e serena. Per assurdo il mio nome non è solo un aggettivo, ma anche un fiore, bruttino a dire il vero, dalle proprietà digestive. A un certo punto mi resi conto che nessuno dei due mi rispecchiava: la mia anima era tormentata e avevo grossi problemi nel digerire quello che ero diventata.
Mentre la mia indifferenza cresceva di pari passo con me, avevo coltivato la capacità di mettere la testa sotto la sabbia per convincermi che andasse tutto bene. Arrivò però il giorno in cui dovetti ammettere a me stessa che la mia famiglia, all’apparenza perfetta, celava delle enormi falle.
Mio padre era fortemente alcolista.
Non me ne ero accorta all’inizio, in quanto, nelle serate peggiori, tornava a casa molto tardi e il mattino successivo rimaneva a letto fino a mezzogiorno lamentando delle emicranie; nei giorni in cui riusciva a limitarsi, invece, rientrava allegro e non avevo gli strumenti per capire quanto la sua contentezza fosse innaturale.
Mia madre soffriva di depressione. Lo scoprii molto tempo dopo l’insorgere della malattia: grazie ai farmaci che prendeva, e che teneva sotto chiave, riusciva comunque a condurre una vita all’apparenza normale, finché la situazione familiare non degenerò al punto che niente avrebbe potuto farla stare meglio.
Avevo scoperto l’alcolismo di mio padre per caso; una sera avevo sentito i miei genitori litigare sull’argomento e in un attimo avevo messo a fuoco tanti particolari che non mi avevano mai colpito fino a quel momento.
Dopo questo fulmine avevo iniziato a osservare i dettagli e a farmi domande sui farmaci che assumeva mia madre.
Avevo rovistato ogni giorno tra i rifiuti di carta, finché avevo trovato una scatola e, facendo una ricerca in Internet, avevo capito che si trattava di antidepressivi.
A ogni scoperta che facevo, per quanto spiacevole, mi sentivo come se mi si stesse snebbiando gradualmente la mente.
Tuttavia c’era una cosa che mi angosciava: tutto questo non suscitava in me alcuna sensazione, non riuscivo a disperarmi o a preoccuparmi.
La famiglia era composta anche da mia sorella Beatrice, che aveva tre anni meno di me ed era il mio opposto. L’ironia inconsapevole dei nostri genitori nello scegliere i nostri nomi valeva anche per lei: mia sorella era tutt’altro che portatrice di beatitudine, almeno per me. Non perché fosse una ragazza problematica, anzi, tutt’altro, ma il suo modo di fare vulcanico mi metteva in agitazione.
Io ero tranquilla fuori e in fermento dentro di me, Beatrice era sempre in movimento ma, quando si fermava un attimo, rivelava la sua natura riflessiva e perfezionista.
Tanto io ero riservata e con una cerchia ristretta di conoscenze – non amicizie, non provando sentimenti non riuscivo ad affezionarmi a nessuno in maniera così intima- quanto lei aveva una ricchissima vita sociale.
Durante gli anni delle superiori, avevo sentito anch’io le farfalle nello stomaco per qualche ragazzo, avevo preso le mie cotte, avevo dato i primi baci, ero uscita con gli amici; le sensazioni che provavo però erano affievolite rispetto a quelle che descrivevano le mie amiche, già allora me ne rendevo conto.
Avevo avuto un ragazzo: era molto intelligente, belloccio, ma stavo con lui unicamente perché speravo che riuscisse a dare uno scossone al mio animo insensibile. Avevo acconsentito a ogni sua richiesta, fingendo sempre di essere felice e coinvolta, ma in realtà non provavo niente. Dopo qualche mese mi lasciò, dicendomi che mi sentiva lontana e che non ero la ragazza giusta per lui. Cercai di mostrarmi dispiaciuta, ma in realtà mi sentivo quasi sollevata. Non riuscii a far scendere nemmeno una lacrima.
Più il tempo passava, meno le persone si avvicinavano a me; chiunque provasse ad attaccare bottone si scoraggiava quasi subito, vedendo che non mostravo alcun interesse.
Dopo il diploma avevo deciso di studiare psicologia, sperando che mi desse gli strumenti per aiutarmi a capire e a capirmi, in una sorta di autoanalisi. Nel frattempo lavoravo per qualche ora a settimana come segretaria in un ufficio nei pressi di casa; era un impegno limitato, che mi permetteva di seguire le lezioni e di studiare, anche perché non avendo stimoli e interessi non facevo nient’altro. Riuscivo anche a mettere via qualche soldo ogni mese, non avevo desideri materiali da esaudire. Compravo solo il minimo indispensabile per me e contribuivo un po’ alle spese di casa, anche se i miei genitori lavoravano entrambi.
Mio padre faceva il falegname, ed era anche piuttosto bravo: scoprii solo in seguito che aveva iniziato a bere in un momento in cui non riusciva a creare. Per fortuna tra una sbornia e l’altra lavorava, ma buona parte dei suoi guadagni scompariva in alcol.
Mia madre invece faceva la commessa in un negozio del centro, di livello medio-alto. Il fatto che dovesse vestire con una certa eleganza giustificava in parte il fatto che acquistasse un sacco di abiti, ma alla luce della scoperta della sua depressione cominciai a pensare che per lei lo shopping fosse una specie di compensazione, un modo per riempire il vuoto che sentiva dentro.
Mi laureai col massimo dei voti in linea con i tempi, ma ancora non ero riuscita a capire l’origine del mio problema, tanto meno la cura. Durante gli anni universitari avevo fatto la pendolare, non avevo quindi avuto bisogno di andare a vivere con altre persone. Non avevo stretto nuove amicizie, tenevo tutti alla larga. Avevo provato a frequentare qualche ragazzo, credevo che avrei potuto innamorarmi, sperando forse di trovare la soluzione in un’altra persona. Quando qualcuno mi invitava a uscire ero terribilmente esplicita nel dire che non cercavo una relazione, al malcapitato non lasciavo neanche l’indirizzo o il mio numero di telefono: andavo agli appuntamenti in autonomia e se mi davano buca me ne tornavo a casa quasi sollevata. Quando la serata non terminava al pub, al cinema o in pizzeria, si concludeva nell’avventura di una notte. Non rimanevo mai a dormire con la conquista del momento, mi rivestivo e me ne andavo con una freddezza dettata dal disinteresse. Non mi vergognavo di questo, facevo senza successo dei tentativi per smuovere la mia coscienza, ma dopo ogni incontro dubitavo sempre di più di averne una. Probabilmente mi consideravano semplicemente libertina e a me stava bene così.
Dopo la laurea, trascorsi un paio di mesi pensando a cosa fare del mio futuro, se continuare gli studi o cercarmi un lavoro, se restare al mio paese o andare via di casa, magari in una grande città che offrisse nuove opportunità.
Nel frattempo mia sorella si diplomò.
Arrivò settembre.
Io ancora non avevo deciso come continuare a vivere, mentre Beatrice stava iniziando a preparare i bagagli e si accingeva a iniziare l’università. Aveva scelto Giurisprudenza e questo l’avrebbe portata lontana da casa. Aveva già trovato un appartamento con un’amica che avrebbe frequentato la stessa facoltà e probabilmente sarebbe tornata a casa una volta al mese.
Dovevo pensare seriamente al mio futuro, ma niente mi scuoteva, niente mi preoccupava.
Nel giro di una settimana tutto cambiò.
Mio padre una sera tornò a casa talmente ubriaco da non reggersi in piedi, mia madre lo aggredì subito e lui reagì in maniera molto più violenta del solito; non alzò le mani, ma le gridò ogni tipo di nefandezza, la accusò di essere la responsabile di tutti i suoi problemi, lanciò un paio di soprammobili sul muro e poi si chiuse in camera.
Lei pianse per un po’, scacciando me e Beatrice che avevamo provato a consolarla, poi si alzò dalla sedia con uno sguardo vuoto e uscì. Dopo un paio d’ore, vedendo che non rientrava, avevamo provato a cercarla senza successo, quindi avevamo allertato le Forze dell’Ordine.
Il mattino successivo, molto presto, squillò il telefono: erano i Carabinieri, che ci comunicavano che l’avevano trovata impiccata a un albero.
Pur sentendo un grande dispiacere e anche un enorme senso di colpa per averle permesso di uscire in quelle condizioni, ero cosciente che quello che provavo non era ciò che avrei dovuto provare. Beatrice pianse senza sosta per ore. Nostro padre invece, alla notizia, rimase di sasso e uscì senza dire una parola. Rientrò il giorno successivo, ubriaco marcio, poi si chiuse nuovamente in camera. Rimase per qualche giorno al buio, senza quasi mangiare, probabilmente non dormiva nemmeno, senza dire una parola. Le poche volte in cui usciva dalla camera aveva gli occhi rossi, quindi credo trascorresse le ore piangendo silenziosamente. In ogni caso, per tutto il tempo in cui era rimasto a casa, non aveva toccato un goccio di alcol.
Per dare degna sepoltura a nostra madre dovevamo attendere qualche giorno per permettere che le fosse fatta l’autopsia (scoprimmo poi che prima di impiccarsi si era riempita di psicofarmaci, quindi non sarebbe sopravvissuta comunque e in ogni caso, dopo la lucidità che l’aveva portata al suicidio, non si era resa conto di quello che le stava capitando). Quando finalmente giunse il nulla osta, fissammo la data della celebrazione. A quel punto nostro padre, sempre senza parlare, si lavò, si sbarbò, si mise dei vestiti puliti e uscì. Dopo pochi minuti sentimmo le sirene di un’ambulanza non lontano da casa e un brivido mi corse lungo la schiena. Beatrice ed io uscimmo a vedere cosa fosse capitato, in un muto accordo, mosse dallo stesso pensiero.
Tempo di svoltare l’angolo e sulla strada c’era nostro padre disteso a terra vicinissimo