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The Chosen One
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E-book326 pagine4 ore

The Chosen One

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Info su questo ebook

Erilia aveva una vita monotona finché, il giorno del suo sedicesimo compleanno, scopre di avere poteri straordinari. Lei è una Prescelta. Così chiamano quelli che sono nati sotto una buona stella, che ha conferito loro capacità ultraterrene.

Grazie ad un ragazzo strano, Erilia partirà per raggiungere la sua nuova vita.

Non si era mai sentita parte di una famiglia tanto quanto allora e attraverso allenamenti, battaglie e peripezie scoprirà pezzo per pezzo qualcosa sul suo potere, sulle persone che la circondano e sul futuro che l’aspetta.

LinguaItaliano
Data di uscita7 giu 2015
ISBN9786050385960
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    Anteprima del libro

    The Chosen One - Camilla Gertosio

    Ringraziamenti

    Un vento tra i capelli

    Correvo, veloce come nessuno riesce a fare.

    Il cielo estivo delle otto di sera sembrava seguirmi. Il sole e la luna insieme nell’azzurro, come il giorno prima, come la settimana prima, come quasi per tutto il mese passato. E’ vero, ogni tanto capita, ma non così a lungo. Cosa stava succedendo al mio cielo? Quello che mi aveva sempre tanto attirata per la sua semplicità e complessità allo stesso tempo.

    E poi le stelle … ah le stelle! Mi avevano sempre attratta … Pensare che tutti quegli astri girano attorno alla loro luna, al loro sole, per poi formare un disegno infinito. Certe volte alcune persone dicono di non avere un motivo per arrivare a fine giornata, ma perché non farlo solo per vedere quello spettacolo bizzarro, tutto nero e argento? Perché non aspettare fino all’arrivo del sole nascente e … non perdersi neanche un attimo?

    Gli edifici mi risultavano sfocati, una macchia informe, a causa della velocità. Il vento mi scivolava tra i capelli castani e mi faceva sentire libera di fare qualsiasi cosa. Dopo aver fatto per la quinta volta il giro del quartiere, non potendomi allontanare di più, ritornai a casa.

    Mancavano solo due giorni al mio sedicesimo compleanno. Due giorni e sarei potuta uscire più spesso per andare a correre. Sarei potuta andare dalla mia città, Salisdan, fino ai confini del mondo. Fino a che le mie scarpe avrebbero retto, pensai, guardandole: erano rovinatissime. Ma non potevo averne di nuove. I miei genitori adottivi, i signori Perkins, mi compravano vestiti nuovi solo quando quelli precedenti si bucavano o diventavano piccoli. E le scarpe una volta all’anno.

    Vivevo con loro da quando avevo due anni, quando i miei genitori morirono. Non mi avevano mai permesso di chiedere cos’era successo, mi dissero soltanto che erano mancati in un incidente. Loro erano i nostri vicini, quando abitavamo in America. Non gli erano mai piaciuti i miei genitori, proprio come non hanno mai accettato me. Dovevo aiutare nei lavori domestici più di Gerry e Careth, i due figli dei Perkins, il principe e la principessa di casa. Careth aveva la mia stessa età mentre Gerry era di due anni più grande. Ho sempre dovuto sottostare ai loro ordini se non volevo finire a letto senza cena. Per questa ragione cercavo di mangiare sempre abbondantemente a colazione: non mi piaceva dover tenere la bocca chiusa.

    Non mi hanno mai considerata parte della famiglia. Io ero solo una bocca in più da sfamare. Non ho mai potuto giocare con i miei fratellastri e non ho mai potuto portare a casa degli amici, ragion per cui non ne avevo molti, considerato anche che nel tempo libero dovevo aiutare la signora Perkins in cucina, o a lavare, o a riordinare. In pratica mi guadagnavo l’affitto, il cibo e i vestiti. Tranne il mercoledì, l’unico giorno in cui potevo fare altro. Da un paio di anni lavoravo per il vicinato, tagliando l’erba e guadagnandomi qualche soldo.

    Rallentai sul vialetto di casa, cercando di non calpestare l’ erba curata della signora Perkins. Quando lo feci, a otto anni, rimasi in punizione per un secolo, o almeno così mi sembrò. Forse si trattò solo di un pomeriggio ma comunque da quel giorno mi guardai bene dal farlo.

    Aprii la porta e mi ritrovai in una tipica e sana situazione famigliare: Careth e Gerry stavano litigando per qualcosa di stupido.

    - Non è giusto! - gridò lei.

    - Invece sì! Io sono il più grande! - ribatté lui.

    - Perché strillate così? – chiese la madre entrando nel salotto.

    - Mamma! Lui può tornare a casa più tardi di me! - si lagnò Careth.

    - Mamma! Dille che sono il più grande! Che è ovvio che io possa tornare a casa più tardi – replicò infastidito Gerry.

    - Non è giusto! - gridò lei.

    - Invece sì! - sibilò lui.

    - Ora basta! - disse duramente la madre - se continuate così nessuno dei due uscirà più! -

    Ultimamente i due fratelli litigavano sempre di più e la pazienza della signora Perkins diminuiva. In un certo senso mi andava bene questa situazione … guadagnavo qualche punto.

    Andai a lavarmi poi mi trascinai nella mia stanza. Era piccola e decisamente inadatta ad essere una camera da letto ma mi ci ero adattata. Era mia. Per i miei 12 anni avevo ricevuto la chiave della stanza tutta per me. La porta e le pareti erano di un verdino chiaro a cui mi ero abituata.

    Mi buttai sul letto. Avevo in mente di leggere un po’. Non avevo mai potuto praticare uno sport, così nel tempo libero leggevo ed era diventata una passione. Ancora col pensiero di quale romanzo avrei potuto scegliere, mi appoggiai al cuscino e mi addormentai.

    Era buio. Tutto sembrava silenzioso. C’era in lontananza un puntino di luce. Avanzai verso di esso ma sembrava allontanarsi sempre di più. L’ansia mi cresceva nel petto, mi dilaniava dentro. Dopo non so quanto tempo passato a camminare, la luce sembrava a portata di mano. Allungai un braccio ma non riuscivo a raggiungerla. Il terrore di restare al buio, cosa che odiavo, sembrava mangiarmi gli organi interni. Perché la mia mano non riusciva a toccare quella fonte di calore?

    Ad un certo punto sentii una voce sconosciuta provenire da dietro. Prima sembrava solo un lamento, ma poi si trasformò nel mio nome. Sussurrato, strascicato, poi lentamente più nitido e chiaro. Erilia. Mi voltai, con la speranza che la luce illuminasse la stanza,ma non accadde.

    Era tutto completamente buioe non riuscivo a vedere se ci fosse qualcuno.Un rumore di passi sempre più forte, indice che qualcuno si stava avvicinando.

    - Erilia, devi venire con me - disse la voce.

    Era una voce maschile, calda e ferma. Mi infondeva sicurezza. Mi sembrava una voce nota da sempre, anche se non l’avevo mai realmente sentita. Come conosceva il mio nome? Mi venne l’impulso di chiederglielo, ma qualcosa nella mia mente mi suggerì di fidarmi della voce. Avanzai di un passo.

    - Dove? - chiesi, abbastanza forte perché mi sentisse.

    - In una nuova vita, che sarà la tua, come ora lo è per molti altri. Come lo è per me - disse con lo stesso tono calmo e pacifico ma forte.

    Altri due passi. Uno scintillio a pochi metri da me. L’illuminazione sembrava essere aumentata un pochino perché finalmente riuscii a distinguere una sagoma a pochi metri da me. Riuscivo a distinguere solo i suoi occhi nell’oscurità. Verde scuro e acceso. Sembravano smeraldi in mezzo a tutto quel buio. Mi chiesi se anche i miei brillassero così …

    - Vieni con me e sarai felice - disse lui.

    Mi avvicinai ancora un po’. Riuscivo a distinguere i suoi movimenti. Tese una mano, in attesa che la prendessi o rifiutassi. Tutto svanì. Mi ritrovai nel mio letto. Accaldata, sudata. Con le lenzuola appiccicate alla pelle.

    Guardai l’orologio che avevo sulla piccola scrivania. Erano quasi le cinque di mattino. Era stato solo un sogno, anche se mi era sembrato davvero reale. Mi alzai e passeggiai silenziosamente per la camera, nel poco spazio che avevo. Avevo sempre fatto sogni strani ma ogni volta rimanevo un po’ sconvolta. Negli ultimi tempi erano aumentati così, per non dimenticarli, iniziai ad annotarli su un taccuino.

    - Calmati Er, sono solo sogni. Perché agitarsi tanto? - mi ripetevo in continuazione.

    Però qualcosa dentro di me sembrava suggerirmi che non era così. Cercai di non pensarci. Quel giorno era un sabato quindi non avrei dovuto fare molto in casa, se non le solite faccende. Da lì a un paio di ore mi sarei dovuta svegliare comunque, quindi decisi di non provare neanche a riaddormentarmi.

    Andai in bagno a sciacquarmi il viso per svegliarmi poi scesi silenziosamente le scale e andai in cucina a prendere la colazione da portarmi fuori.Avevo deciso che sarei andata a correre quella mattina. Quando infilai le scarpe però notai un buco in cima che prima non c’era. Speravo con tutto il cuore che resistessero ancora un po’.

    Fuori era ancora buio e le strade erano pressoché deserte.

    Corsi finché non mi mancò il fiato, fino a quando le gambe non cominciarono a dolermi troppo. Ora avevo finalmente distrutto totalmente le mie scarpe. Che bello! Tornai in casa e vidi Careth e Gerry pronti per andare a scuola. Frequentando una scuola privata anche il sabato avevano l’obbligo di frequenza. Nella mia scuola pubblica, invece, il sabato era libero per gli studenti.

    Careth lanciò un’occhiata schifata alle mie scarpe lacere. Le sorrisi sarcastica. Salii in camera mia, odiando profondamente quella viziata. Avrei tanto voluto tirarle una delle sue costosissime scarpe da ginnastica in mezzo alle sopracciglia curate. Oppure infilargliela … Aspetta! Le sue scarpe! Avrei potuto rubargliene un paio! Manco se ne sarebbe accorta.

    Sgattaiolai nella sua stanza, aprendo accuratamente la porta con una forcina. Aprii l’armadio fucsia a fiori e fui invasa da un soffocante profumo di rosa. Sotto una miriade di abiti ecco ciò che cercavo. Il mio bottino! Ne sgraffignai un paio un po’ rovinato ma perfettamente nei miei standard. Erano in un angolo e non gliele avevo mai viste indosso. Le misi dietro la schiena ed uscii. Filai nella mia stanzetta e sbattei la porta chiudendola bene. Osservai bene il mio, ecco, regalo di compleanno. Le nascosi sotto il letto ed uscii senza farmi sentire.

    Et voilà! La mia vecchia vita era così: monotona e piena di sconvolgenti colpi di scena, colma di dettagli trascurabili: la doccia dopo la corsa, le pulizie e via dicendo. Ma potrei passare tranquillamente al giorno successivo, il giorno in cui cominciò la mia avventura. A quei tempi non immaginavo neanche che sarebbe potuto capitare qualcosa del genere, il fatto più emozionante sarebbe stato trovare un regalo sotto l’albero di Natale.

    Finalmente sedicenne

    La mattina seguente mi svegliai presto, per augurarmi un felice compleanno.

    Uscii di casa e mi avviai verso le vie deserte dove correvo di solito. Era molto presto quella mattina ed era probabile che nessuno sarebbe uscito in strada, soprattutto perché era domenica, ma preferii non rischiare. Mi piaceva correre da sola, senza che nessuno mi osservasse.

    Il sole stava sorgendo, gettando una tenue luce rossa sopra i tetti delle case, come un mantello. L’aria iniziava ad essere tiepida: una temperatura perfetta per correre.

    Quella mattina mi sentivo particolarmente in forma. Avevo un anno in più d’altronde. Ne avevo 16, finalmente. Cominciai a correre appena arrivata. Mi sembrò di fare due passi ma invece … in un secondo mi ritrovai cento metri più avanti. Mi guardai indietro e vidi un puntino blu sull’asfalto. Era proprio la mia borsa. Ricominciai a correre e mi trovai bruscamente a terra mentre cercavo di frenare. Andavo ad una velocità incredibile. Mi sbucciai le ginocchia, mi rimisi in piedi e ritentai. Questa volta non provai a fermarmi e successe di nuovo. In pochi secondi arrivai alla fine della strada e per poco non andai a sbattere contro un edificio. Riprovai e riprovai, fino a che non mi resi conto di cosa stavo facendo. Mentre correvo guardavo i piedi muoversi rapidissimi. Decisi di cronometrarmi. Circa 500 metri in 7 secondi. Impossibile. Strabuzzai gli occhi guardando il cronometro, uno dei pochi vezzi di cui disponevo.

    Scoppiai a ridere e poi ricominciai a correre. Il vento mi pungeva il viso e mi faceva lacrimare gli occhi. I capelli sembravano fruste contro la mia schiena. I vestiti mi si gonfiavano all’indietro e mi davano l’impressione di volare. Mi divertii a fare le curve a tutta velocità, anche se devo ammettere che un paio di volte caddi a terra o sbattei contro un muro.

    Tornando indietro ad un certo punto notai qualcuno all’angolo tra due edifici. Mi fermai cercando di non cascare di nuovo. Lui notò subito la mia azione e tentò di nascondersi dietro il palazzo vicino. Mi venne da sorridere, non poteva scapparmi. Dovevo sapere quanto aveva visto. Quando raggiunsi l’angolo non c’era più.

    Forse mi ero sbagliata. Uno scherzo di ombre. Ripresi a correre cercando di non sentirmi osservata. Il cielo schiariva mentre la luna spariva lentamente, come ingoiata dall’azzurro. Era una sensazione bellissima e decisamente bizzarra quella che provavo. Tutto così veloce … non riuscivo ancora a spiegarmelo, ma era così … correvo rapida senza volerlo.

    Prima di tornare indietro nascosi con cura le scarpe che avevo preso in prestito da Careth. Quando entrai in casa la signora Perkins era alle prese con il caffè.

    - Eri fuori? - chiese senza girarsi sentendo la porta sbattere. No, ho aperto e sbattuto la porta perché mi diverte, pensai.

    - Sì – fu, invece, quello che risposi.

    - Beh? Che aspetti? Fila a lavarti. Mi serve una mano con la colazione - disse girandosi e incrociando le braccia. Mi feci una doccia e dieci minuti dopo ero in cucina a cuocere pancetta, senza che la signora Perkins si fosse ricordata del mio compleanno. Pazienza, ci ero abituata. Almeno, cucinando, mi assicuravo una porzione abbondante di colazione.

    Alle 9 scese Careth. I capelli scompigliati e il viso rigato dal cuscino. Sbadigliando si sedette al tavolo. Se si aspettava che le avrei messo la colazione a tavola sarà rimasta delusa. Dopo poco scese anche Gerry, seguito dal signor Perkins.

    Mi riempii il piatto e mangiai prima che gli altri si rendessero conto che stavo divorando tutte le uova strapazzate. Più tardi andai in salotto per pulire perché, come ogni domenica, era il mio turno.

    Dopo un po’ arrivò Careth, con un bicchiere di aranciata in mano.

    - So che hai preso le mie scarpe - disse sibilando.

    - Cosa ti fa pensare che le abbia io? - chiesi con voce maliziosa. Non mi interessava che lo sapesse. Non poteva lamentarsi con sua mamma, avrebbe rischiato. Scosse la testa e vuotò il bicchiere sul tappeto.

    - Buon compleanno - disse allontanandosi.

    Se questa era la sua vendetta, mi andava benissimo. Preferivo dover lavare un tappeto piuttosto che altro.

    Più tardi uscii per portare fuori la spazzatura. Quando aprii il cassonetto mi invase un odore nauseabondo.

    - Che schifo! - Sussultai sentendo quella voce. Piroettai su me stessa e vidi un ragazzo, occhi e capelli scuri, appoggiato all’auto bianca del signor Perkins. Mi rivolse un sorriso bianco e perfetto.

    - Non hai caldo con quel giubbotto? - chiesi lanciando un’occhiata alla sua giacca di pelle nera. Lui si staccò e si avvicinò a me, mi prese un polso e lo rivoltò.

    - Che fai? - chiesi strattonando il braccio.

    - Controllo - fece lui concentrato.

    - Non lo sai che agli sconosciuti non si parla? –

    Lui alzò lo sguardo e mi sorrise dolcemente.

    - Ma io so bene chi sei, Erilia. -

    Sussultai.

    - Ti manda Careth? Perché se è così sappi che conosco il karate. -

    Lui alzò un sopracciglio scuro.

    - Non so di cosa tu stia parlando. Comunque non devi preoccuparti, molto presto conoscerai anche tu me - disse. Ora fui io a sollevare le sopracciglia.

    - Erilia, sei una Prescelta - disse improvvisamente serio. Lo guardai come si guarda un bambino sporco di cioccolato che dice di non avere mangiato la torta.

    - Già, arrivederci -risposi riavvicinandomi all’ingresso.

    Lui mi prese per il polso.

    - Erilia, stamattina non ti è sembrato di correre incredibilmente veloce? - domandò.

    Sussultai a quelle parole.

    - E tu come fai a dirlo? - chiesi sospettosa.

    - Ti abbiamo osservata. Io e quelli come me. Come te. -

    - Non so di cosa tu stia parlando …-

    - Hai mai sentito parlare degli eroi? Quelli dei fumetti che creano gli umani? -

    Disse umani con un tono dispregiativo, come se non appartenesse a quella razza.

    Annuii.

    - Ecco. Noi siamo come loro, più o meno. Possiamo fare cose incredibili. Tu sei una Velocitatem. Puoi correre veloce come nessun’altro. -

    - Una parte di me non può fare a meno di darti ragione ma l’altra parte continua a pensare che tu sia pazzo - dissi meravigliata.

    - Certo, - rispose lasciandomi. - Non posso darti torto. -

    Si voltò e fece per andarsene.

    - Aspetta! Mi hai messo la pulce nell’orecchio. Voglio sapere come faccio a crederti - esclamai incrociando le braccia.

    - Corri - sussurrò lui.

    Davvero folle, ma lo feci.

    Corsi con il vento caldo ed estivo a scaldarmi, i capelli che mi sferzavano il viso. In così poco tempo che quasi non me ne accorsi fui in fondo alla strada.

    Tornai davanti al ragazzo misterioso cadendo goffamente.

    - Hai ragione, è strano - ammisi.

    Sorrise.

    - Se verrai con me ti potrò mostrare le persone come te. Ti insegneranno a padroneggiare il tuo potere.

    Nei suoi occhi c’era una scintilla spaventosa.

    - Dovrei rifletterci - mormorai.

    Lui annuì.

    – Io sarò qui quando avrai deciso. -

    Si voltò e se ne andò.

    Ma come avrebbe capito quando avrei deciso? Ero confusa. Mi sentivo come quando Harry Potter scoprì di essere un mago. Forse quello era solo un pazzo, forse ero io quella che stava impazzendo.

    Rientrai in casa frastornata. Parlarne con i signori Perkins era da escludere. Non avrebbero capito, anzi, mi avrebbero rinchiusa in un manicomio. Forse la cosa migliore era rimanermene in silenzio.

    Com’è che mi aveva chiamata? Prescelta? Dovevo pensare, dovevo pensare.

    Salii in camera mia. Spalancai la porta e corsi ad aprire la finestra. Aria, necessitavo di aria.

    Perché correvo rapida? Forse era stata solo una mia impressione, forse il cronometro e quel ragazzo avevano qualche rotella fuori posto. Forse l’unica ad avere le rotelle fuori posto ero io.

    - Non è che ci hai già pensato? -

    Alzai lo sguardo e scorsi proprio su un ramo dell’albero che dava sulla mia camera quel ragazzo.

    - Mi hai fatto spaventare - sibilai indietreggiando.

    Stava seduto comodamente sul ramo, come se fosse una poltroncina.

    - Devi abituartici. Sei una Prescelta - disse.

    Di nuovo quella parola.

    - Prescelta, eh? -

    Annuì sorridendo.

    - Ci chiamiamo così. Perché siamo stati prescelti dalle stelle. Una storia lunga, complicata, te la risparmio - disse con un gesto noncurante della mano.

    - E se decidessi di venire con te? - sussurrai.

    Si illuminò.

    - Ti darei i vestiti da mettere, perché quelle cose lì verrebbero bruciate all’istante, ed andremmo al quartier generale. -

    Osservai la mia maglietta sbiadita e pensai che aveva ragione.

    - Dovrei dirlo ai miei … -

    - Potremmo fargli un incantesimo - suggerì.

    Inarcai un sopracciglio.

    - Sì, sai, dirgli qualcosa del nostro mondo potrebbe metterli in pericolo. In più voglio essere chiaro, tutti i prescelti devono essere addestrati e, dal momento in cui tu hai accettato liberamente, loro non devono potertelo impedire - spiegò.

    - Non credo che gli fregherebbe qualcosa, -riflettei ad alta voce, - però non voglio che siano in pericolo dopo tutto …anche se Careth forse … dai, va bene, fallo. -

    Sorrise e mi porse due caramelle.

    - Caramelle? - domandai allibita.

    - Fagliele mangiare. Penseranno di averti mandata a studiare via e di doverti dare solo gli ultimi saluti - mi spiegò.

    Chiaro.

    Allora addio

    La signora e il signor Perkins erano seduti sul sofà e parlavano fitto fitto fra loro. Mi schiarii la voce. Si voltarono a guardarmi infastiditi.

    - Chiedo scusa ma necessiterei di parlarvi - dissi accomodandomi di fronte a loro.

    - Si? - fece la signora Perkins.

    - Ecco … - gli allungai le caramelle. - Mangiate, prima di sentire la notizia - dissi senza sapere cosa fare.

    - Non mi piace rovinarmi così la cena – rispose la signora Perkins lanciando un’occhiata assassina al marito che aveva già afferrato il dolcetto. Lui se lo posò sulla gamba.

    - Sono squisite - assicurai. - Fanno bene al pancreas. -

    La signora alzò le sopracciglia, non convinta.

    - E sono senza zucchero - aggiunsi.

    Lei sospirò e se la mise in bocca, imitata dal signor Perkins. Masticarono deliziati e poi sbatterono gli occhi più volte. Lei trasse un respiro.

    - Beh, allora arrivederci - disse la signora alzandosi.

    Non pensavo fosse così immediato l’effetto. Non pensavo nemmeno che potesse funzionare! Lo stavo davvero facendo? Non si tornava più indietro, quindi annuii. Lei inclinò la testa con un sorrisetto.

    - Buona fortuna - disse stringendomi la mano.

    Scossi impercettibilmente la testa a quell’addio così freddo. Il signor Perkins mi strinse la spalla con un sorriso breve.

    - Allora addio - mormorai.

    Uscii di casa e mi ritrovai davanti il ragazzo. Sospirai frustrata.

    - Sto per venire con te chissà dove e tu non mi hai nemmeno detto come ti chiami. –

    -Jonathan. Ma per gli amici John - disse ammiccando.

    - Bene, Jonathan. Andiamo. –

    - Non avevo detto per gli amici John? –

    Sorrisi.

    - Noi non siamo amici - feci fredda.

    Estrasse un pugnale dalla cintura ed io spalancai gli occhi. Cominciò ad agitarlo in aria, come se stesse affettando la brezza.

    - Che stai facendo? - chiesi.

    - Taglio la tensione - disse riponendo il coltello. Alzai gli occhi al cielo mentre estraeva un aggeggio rotondo con delle strane alette o comunque dei pezzi esterni. Aveva un pulsante in mezzo, con un quadrante pieno di numeri.

    - Cos’è? - chiesi.

    - Un mutatem loci - disse programmandolo.

    - E a che serve? -

    - Ci porterà a destinazione - tagliò corto lui.

    Mi prese una mano e me la mise sul tasto, poi fece un sorriso sghembo prima di premere. Fummo risucchiati in un vortice bollente, che mi tolse il fiato. Il cuore forse aveva smesso di battere. Caddi scomposta su un prato umido.

    Mi alzai spolverando i pantaloni.

    - Mettiteli. –

    John, atterrato perfettamente eretto, mi lanciò un mucchietto di abiti. Aggrottai la fronte. Lui alzo le mani e si girò. Lanciai uno sguardo in giro e compresi subito che non sarebbe arrivato nessuno: un immenso prato si estendeva a vista d’occhio. Non capivo come potesse essere quella la destinazione.

    Infilai i pantaloni, neri e con delle fasce elastiche sopra, e la maglietta azzurro chiaro. Immaginai che le fessure potessero essere porta coltelli.

    - Aspetta! - esclamai.

    Jonathan si voltò e mi squadrò con un sorrisetto.

    - Cosa? - fece.

    - Jonathan, non credo di voler venire con te - dissi incrociando le braccia al petto.

    Lui inarcò un sopracciglio.

    - Devi venire, insomma, devi gestire questo potere! - disse lui indicandomi tutta con le mani. Lasciai ricadere le braccia.

    - E se non lo volessi questo potere? - sussurrai.

    Lui si avvicinò fino a quando le sue scarpe non toccarono le mie.

    - Come puoi non volere qualcosa così? È un miracolo, Erilia - disse prendendomi per spalle.

    - Magari mi piaceva essere normale! –

    - Ti piaceva davvero la tua vecchia vita? Hai la possibilità di vivere qualcosa di nuovo! -

    Abbassai

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