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Catherine ed il velo d’ombra
Catherine ed il velo d’ombra
Catherine ed il velo d’ombra
E-book301 pagine4 ore

Catherine ed il velo d’ombra

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Info su questo ebook

Catherine è una ragazza come tante fino a quando, pochi mesi prima del suo diciottesimo compleanno, la sua vita viene sconvolta da un evento che le farà scoprire che la realtà nella quale ha sempre vissuto non è che un velo d’ombra che nasconde verità e profondi misteri. Catherine dovrà così cominciare una nuova vita che la sorprenderà ogni giorno: nuovi amici, nuovi amori, ma anche una nuova sé stessa, nuove capacità, una nuova visione del mondo in cui ciò che credeva scontato, come l’amicizia con Miles, che conosce fin da bambina, si rivela diverso da ciò che sembra. Tra magia, draghi e combattimenti, Catherine affronterà il più antico nemico dell’umanità, Lucifero.


Arianna Dalle Vedove ha 24 anni. Vive a Pontinia (Lt) e studia Scienze Pedagogiche all’Università degli Studi Roma Tre. Appassionata di teatro e canto, sta realizzando un musical inedito con l’Associazione Culturale con la quale collabora. La lettura e la scrittura fanno parte della sua vita sin da piccolissima e continuano ad essere attività che adora e coltiva continuamente. Catherine e il velo d’ombra è il suo romanzo d’esordio. 
LinguaItaliano
Data di uscita17 ago 2022
ISBN9788830671157
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    Anteprima del libro

    Catherine ed il velo d’ombra - Arianna Dalle Vedove

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    A tutti coloro che, cadendo,

    sono riusciti a spiccare il volo.

    Le persone sono come le vetrate.

    Scintillano e brillano quando c’è il sole,

    ma quando cala l’oscurità rivelano

    la loro bellezza solo se c’è una luce dentro.

    (E. Kubler-Ross)

    «È ora di andare a letto, piccola mia.»

    Queste furono le ultime parole che mio padre mi disse. La mattina dopo, quando mi svegliai, lui non c’era più.

    Avevo sette anni quando ciò avvenne, ma nonostante la tenera età quel giorno segnò profondamente la mia infanzia. Non potevo sapere che esattamente dieci anni dopo sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe segnato per sempre la mia intera vita.

    E non solo la mia.

    1

    «Catherine, alzati!», il tono di mia madre non ammetteva repliche, aprii gli occhi a fatica e mi girai verso l’orologio appeso alla parete. Segnava le nove meno un quarto. Merda!

    Mi alzai di scatto, corsi verso il comodino dove avevo appoggiato i vestiti pronti per essere indossati e poi mi lanciai fuori dalla mia camera. Spalancai la porta del bagno, poggiai i vestiti, mi spogliai e mi gettai nella doccia. Mi sarei dovuta alzare un’ora prima per aiutare mia madre a svegliare e preparare i gemellini Judith e Jeremy prima di andare a scuola e invece non avevo fatto nulla e sarei arrivata pure in ritardo. Il loro padre naturale se l’era svignata quando aveva scoperto che Judy (solo in famiglia si lasciava chiamare così) non sarebbe vissuta a lungo e così l’incarico di prendersi cura dei bambini era toccato a me. Stranamente non ricordavo nulla di lui, pur sapendo di aver condiviso mesi insieme, ma non me ne importava nulla. Meglio così dopotutto. Contrariamente a quanto avevano previsto i medici, la mia sorellina era ancora viva, anche se era una creatura alquanto singolare. Le persone quando la incontravano per strada distoglievano lo sguardo, impauriti dalla sua corporatura esile, quasi timorosi di vederla svanire o volare via da un momento all’altro. Ma ciò che più di tutto agli altri faceva paura era lo sguardo di mia sorella: i suoi occhi nerissimi sembravano in grado di guardare dentro l’anima e devo ammettere che a volte una sensazione di disagio percorreva anche me, mentre mia sorella mi scrutava. Mi fiondai fuori dalla doccia, mi avvolsi in un accappatoio per asciugarmi, mi rivestii e scesi le scale senza neanche guardare dove mettevo i piedi. Una manciata di secondi dopo entrai scivolando in cucina dove mia madre mi aspettava con i due bambini. I gemelli avevano poco più di cinque anni, ma Judy sembrava allo stesso tempo molto più grande e molto più piccola. Jeremy, al contrario, era un bambino ordinario, con capelli color paglia e dolcissimi occhi verdi, così diversi dai miei e da quelli della sorella.

    «Rine», mi chiamò correndomi incontro per farsi prendere in braccio. Solo lui utilizzava le ultime lettere del mio nome per chiamarmi: per tutti gli altri ero Cat, o Catherine se combinavo qualche guaio.

    «Il mio piccolo Jem», dissi prendendolo e chiamandolo con il diminutivo che gli avevo dato appena nato. Lo strinsi forte annusando il suo inconfondibile profumo di sapone e zucchero. Questo era un altro aspetto che lo differenziava dalla gemellina, che al contrario non voleva essere toccata da me. L’unica cosa che mi era permesso di sfiorarle erano i capelli lunghi fino alle spalle e corvini come i suoi occhi, che ogni mattina pettinavo. Oggi però era la mamma che glieli aveva acconciati in due codini bassi.

    «Scusa per il ritardo», dissi voltandomi a guardare mia madre.

    «Non preoccuparti», mi rispose lei, scuotendo il capo lentamente e avvicinandosi per spostarmi un ricciolo ribelle dalla fronte. «Ora pensa a mangiare qualcosa prima di andare via».

    Poggiai Jeremy a terra e mi avvicinai al tavolo della colazione. Avevo appena messo in bocca un biscotto quando sentii un colpo di clacson provenire dal vialetto. Mi alzai e mi affacciai. Era Miles, il mio migliore amico, come tutti i giorni era venuto a prendermi per portarmi a scuola.

    «Mamma io vado!», urlai mentre raccoglievo lo zaino nel corridoio e mi dirigevo verso la porta.

    «Mi raccomando!», fu la sua risposta. Ci guardammo per un secondo, poi io corsi fuori. Salii in auto e Miles partì a razzo.

    «Siamo in ritardo!», mi disse ridendo ed accelerando.

    «Scusami», gli risposi io allacciandomi la cintura.

    «Non scusarti, grazie a te posso saltare fisica!». Dopo pochi minuti arrivammo al nostro liceo e lui mi accompagnò fino alla mia aula.

    «Ci vediamo a ricreazione», mi disse mentre si allontanava, salutandomi con la mano. Dopo cinque interminabili ore di lezione intervallate solo da una pausa di dieci minuti finalmente uscii da scuola, Miles mi stava già aspettando accanto alla sua auto.

    «Possibile che tu sia sempre in ritardo?».

    «Ehi, guarda che sei tu ad essere uscito prima del suono della campanella!». Lui non mi rispose, ma si limitò a sorridermi. Salimmo in auto e dopo poco eravamo già davanti casa. Notai subito che la porta era socchiusa, Miles seguì il mio sguardo e sbiancò. Corremmo fuori dall’auto senza neanche chiudere le portiere e in un secondo ci trovammo davanti al portone… ormai impauriti e indecisi se entrare o meno. Miles si mise davanti a me e spinse delicatamente la porta. Entrammo. Tutto era silenzioso. Fin troppo. A quell’ora di solito mia madre era già a tavola con i bambini e quando per un motivo o per un altro la nostra routine era stravolta non mancavamo mai di avvisarci. Proseguimmo il nostro giro ed ispezionammo ogni angolo della casa. Non c’era traccia di loro. Poi d’improvviso un rumore. Ci girammo di scatto e vedemmo Judy uscire dalla sua cameretta.

    «Tesoro mio, tutto bene? Dove sono Jeremy e la mamma?» Le chiesi. Lei mi indicò la sua camera.

    «Ma no, li ho già visto io», disse Miles.

    Entrammo, ma come aveva detto Miles non c’era nulla. Mi voltai verso mia sorella che nel frattempo si era diretta verso la finestra. La seguii e mi si gelò il sangue nelle vene. Mia madre era sdraiata sul prato a faccia in giù e al suo fianco c’era anche il piccolo. Non emisi un suono, ma dentro di me esplose un grido di dolore e di incredulità. Il mondo cominciò a vorticare e sarei certamente caduta se il mio migliore amico non mi avesse afferrata in tempo e stretta a sé. Lo guardai, ma non vedevo altro che nebbia intorno a me. Poi d’improvviso la vista mi si schiarì e riuscii a reggermi di nuovo sulle gambe. Uscii dalla stanza e come se fossi in trance, mi diressi verso il giardino. Li raggiunsi e mi misi in ginocchio. Presi mia madre e cercai di girarla. Sul suo petto c’era un taglio profondo dal quale continuava ad uscire sangue. Riuscii a metterla seduta e mi sentii sollevata quando mi resi conto che il cuore batteva ancora.

    «Mamma, mamma riesci a sentirmi?», sussurrai incapace di capire cosa stesse succedendo. Miles mi si affiancò e fece lo stesso con Jeremy, ma quando lo vidi spalancare gli occhi capii che il mio fratellino ormai era morto. Strinsi mia madre e cercai di mettermi in piedi prendendola in braccio. Le gambe per la seconda volta in pochi minuti mi tradirono. Caddi in ginocchio, ma anche se mi feci male, non sentii nulla. Tutte le sensazioni erano sparite e mi sentivo come un guscio vuoto. Cominciai a piangere, senza volerlo. Le lacrime solcavano le mie guance, ma io non feci nulla per fermarle o per asciugarle. Miles rimase a fissarmi senza dire o fare nulla, ma in effetti cosa avrebbe potuto fare? In quel momento mia madre aprì gli occhi, quel tanto che mi permise di tirare un sospiro di sollievo per la sua vita… ed egoisticamente anche per la mia.

    «Catherine». Il mio nome non mi era mai parso così bello come ora che lei lo pronunciava.

    «Sì mamma, sono qui», le risposi cercando di non far trapelare la mia preoccupazione.

    «Mi dispiace».

    «Cosa?».

    «Speravo che potessi vivere tranquilla, ma a quanto pare non sarà così…».

    «Mamma, no, non dire così! Sei solo un po’ confusa, adesso ti porto dentro e ve…».

    «Ascoltami!», la sua voce aveva assunto una punta di durezza e io non potei far altro che ammutolire. «Devi scappare e portare tua sorella con te».

    «Mamma davvero tranquilla, ora ti porto in casa e con un po’ di riposo passerà tutto», provai a dire, sperando di riuscire a crederci. Lei mi guardò negli occhi e mi sorrise.

    «Catherine, non sono pazza, devi scappare prima che vi trovino. Voi siete troppo importanti». Poi girò lo sguardo verso Miles e si rivolse a lui: «Sai cosa fare». Lui si limitò ad annuire. Spostai lo sguardo da lui a mia madre, confusa. Lei gli prese la mano e se la portò al cuore. «Prometti», e lui, senza esitazione, promise.

    Un secondo dopo mia madre posò il suo sguardo su di me ed i nostri occhi si incrociarono. Le sue iridi nocciola mi catturarono: sembravano brillare come gioielli e mi persi nel suo sguardo dolce e rassicurante. Non ebbi però il tempo di fare nulla perché un momento dopo divenne vitreo. Rimasi immobile stringendo il corpo morto di mia madre per non so quanto tempo, quando Miles mi alzò di peso costringendomi a deporla per terra. Senza sapere cosa stessi facendo e dove stessi andando cominciai a camminare mentre lui mi conduceva mano nella mano dentro casa. Sulla soglia ci aspettava Judy. Miles prese per mano anche lei e io mi resi conto che era la prima persona (oltre a nostra madre) a cui veniva concesso questo onore. Ci accompagnò nella sua auto e mi fece sedere davanti. Mi allacciò la cintura e sentii il rumore emesso dal motore che si accendeva. Un momento dopo ero immersa nelle tenebre.

    2

    Quando aprii gli occhi ci misi parecchio tempo a capire dove mi trovassi… Ero in una stanza sconosciuta, ma in qualche modo familiare. Ero distesa su un morbido letto, ma solo dopo essermi messa seduta mi resi conto di non avere addosso i miei soliti abiti. Quella mattina avevo indossato il mio pullover preferito: azzurro con maniche e colletto bianchi insieme ad un paio di jeans chiari; ora invece mi ritrovavo addosso una camicia da notte di un tenue rosa… Orrore! Qualcuno mi aveva spogliato e messo quell’improponibile indumento… chiunque fosse stato l’avrebbe pagata cara. Mi alzai a fatica dal letto e mi diressi verso la porta, ma proprio mentre la mia mano sfiorava la maniglia questa si abbassò. Feci un balzo indietro e in quel momento entrò Miles.

    «Salve madamigella», mi salutò con un piccolo inchino. Probabilmente in un altro momento, o forse in un’altra epoca, avrei sorriso di rimando, ma in quella situazione mi sembrava di non avere neanche la forza di guardarlo in volto. Dato che non gli risposi sospirò e mi si avvicinò: «Va bene, credo di doverti una spiegazione. Da dove cominciare?».

    Ci guardammo per qualche istante poi si avvicinò e mi porse la mano destra, il palmo rivolto verso l’alto. Al centro esatto c’era un minuscolo segno nero.

    «Wow! Un neo», gli dissi ironica.

    Lui mi rivolse un sorriso sghembo: «Non è un neo. O almeno non un semplice neo, è un Segno».

    Lo guardai sconcertata: «Miles, che ti sei fumato?».

    «Smettila di fare la scettica», disse cominciando a sbottonarsi la camicia.

    «Miles, cosa cacchio stai facendo?». Feci un passo indietro, ma lui si girò dandomi le spalle e fece cadere la camicia a terra. Non appena questa toccò il pavimento, vidi la sua schiena irrigidirsi e un momento dopo tra le due scapole c’era un paio di ali. Non avrei saputo come descriverle poiché non erano ricoperte di piume, ma molto più simili a quelle delle farfalle. Erano trasparenti e sembravano fatte d’aria, ciò che riuscii a vedere era solo lo spostamento d’aria che provocavano.

    «Cosa significa?», chiesi sbigottita, mentre il mio sguardo passava in rassegna la sua schiena, sperando di scovare un qualcosa che mi permettesse di svelare il suo trucco.

    «Significa che sono il tuo Custode», rispose semplicemente.

    «Il mio cosa?».

    «Custode. Vivo per proteggerti».

    Lentamente mi misi seduta sul letto. Miles si sedette accanto a me.

    «Cat, ricordi la prima volta che ci siamo visti?», mi chiese.

    Ci pensai un momento: «All’asilo!», che razza di gioco era quello?

    Lui scosse la testa: «Io e te siamo nati insieme, o meglio io sono nato per te, c’è un solo giorno della tua vita in cui io non ti sia stato vicino?».

    Ripercorsi mentalmente le tappe della mia vita: in ogni giorno, in ogni ricordo, lui c’era. C’era quando a otto anni un cane mi aveva rincorso per tutto il quartiere, c’era quando a tredici anni mi ero finalmente tolta l’apparecchio, c’era quando mi ero rotta il femore in bici. Mi voltai verso di lui e scossi la testa.

    Mi sorrise: «Ci credi ora?».

    Non seppi cosa rispondere. «Quindi saresti il mio angelo?».

    «O buon Cielo, no!», rispose scoppiando a ridere.

    «Ma hai anche le ali!».

    «E che vuol dire? Non sono un Angelo solo perché ho le ali. Insomma, è una forma di pregiudizio non ti pare? È come se dicessi che tutte le ragazze con i capelli ricci sono scorbutiche solo perché tu hai i capelli ricci e sei scorbutica», disse cercando di non ridere della sua stessa battuta. Lo guardai in cagnesco e mi girai dandogli le spalle. Lui trattenne il respiro e mi strinse da dietro in un abbraccio. Per un istante ebbi l’impulso di lottare per allontanarlo, poi mi rigirai e posai la fronte sul suo petto. Capendo che non lo avrei scacciato, mi strinse ancora più forte e sentii tutti i suoi muscoli tendersi verso di me, la sua pelle a contatto con la mia… Probabilmente in un’altra situazione mi sarei goduta quel momento d’intimità, lo avrei stretto e ricambiato il suo abbraccio, ma in quell’istante non potei fare altro che bloccarmi e cercare invano di darmi un contegno mentre realizzavo che la mia intera vita era andata in frantumi. Come me. Tutto ciò che conoscevo ora non esisteva più. Mia madre e mio fratello erano morti. Ero chissà dove, di certo lontana da casa mia, e mi sarei dovuta occupare di mia sorella che a malapena mi sopportava. Miles forse mi lesse nella mente, o molto più facilmente intuì a cosa pensavo perché mi mise una mano tra i capelli e si piegò su di me sussurrando: «Ci sono io, non preoccuparti».

    Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: il mio corpo iniziò a tremare, mentre i miei singhiozzi si fecero più forti. Affondai il viso nel petto del mio migliore amico, mentre con le braccia gli cingevo il collo. Il mio autocontrollo era andato a farsi fottere, ma se non avessi potuto mostrare a lui il mio lato debole, non avrei potuto farlo con nessuno. Dopo quella che mi parve un’infinità finalmente riuscii a calmarmi e smisi di piangere. Alzai lo sguardo verso di lui e poi lentamente ebbi il coraggio di parlare: «Grazie». Lo avevo a malapena sussurrato e non lo avevo neppure guardato negli occhi, ma lo vidi illuminarsi e sorridermi.

    «È tutto ciò che mi serve per essere felice», rispose sincero.

    Poi mi alzai sospirando e lo guardai. Analizzai il suo viso, che conoscevo meglio del mio e mi soffermai sui suoi capelli color cenere. Di solito erano sempre ben curati, di certo meglio dei miei, ma quel giorno erano in disordine… segno che non si era riposato mentre io invece dormivo. In quell’istante mi trovai a riflettere: «Dove sono?», chiesi titubante.

    «In un posto sicuro», mi rispose rabbuiandosi un poco.

    «E cioè?».

    «Non posso dirti nulla di più fino a quando i Saggi non mi convocheranno».

    «I Saggi?».

    «Non fare domande, non posso parlarti neppure di loro».

    «Non ancora».

    «Non ancora», mi rispose accondiscendente.

    «Miles, ma perché non ho mai visto le tue ali? Insomma, ci conosciamo da sempre…».

    «Perché non ho mai voluto mostrartele. Se avessi voluto, come oggi, o se tu fossi stata addestrata le avresti viste…».

    «Addestrata?».

    «Sì, dovrai farlo. Dovrai essere pronta a proteggere tua sorella. Ma soprattutto devi imparare a proteggerti».

    «Da cosa? Da chi?», gli chiesi allarmandomi.

    «Non posso parlartene».

    Mi stavo davvero incazzando: prima stuzzicava la mia curiosità e poi mi diceva che non poteva mettermi al corrente… Insomma, che almeno stesse zitto a questo punto!

    «Tranquilla, ti dirò tutto a tempo debito. Al massimo tra due giorni saprai tutto. Te lo prometto!».

    Non potei fare altro che annuire e poi mi diressi verso la porta. Lui mi raggiunse: «Dove vai?».

    «Posso almeno vedere questo posto sicuro? O devo addirittura restare segregata in camera?».

    Lui si spostò di lato permettendomi di uscire in corridoio, quando improvvisamente mi ricordai del sacrilegio.

    «Ah senti un po’… chi è che devo picchiare per avermi messo addosso questo?», chiesi indicando il vestito.

    Lui arrossì fino alla punta delle orecchie: «Me, credo», rispose guardando il pavimento.

    «Fermo, fermo, fermo! Tu hai avuto il coraggio di spogliarmi mentre ero incosciente… e per di più mettendomi questo?», chiesi infuriata.

    «Beh non potevi rimanere con quei vestiti addosso…».

    «E perché no?», lo interruppi. Mi sentivo frustrata. Mi aveva spogliata e vista nuda. Certo ci conoscevamo fin da piccoli, ma cavolo! Quello era il mio corpo! Non avrebbe dovuto e non lo avrei perdonato facilmente.

    Stavo per urlargli di nuovo contro quando mi rispose: «Il sangue». Lo sussurrò, come sperando che non lo sentissi, ma non potevo non sentirlo. Quella parola mi colpì facendomi male. Non potei fare altro che abbassare lo sguardo anch’io e serrare i pugni. Le unghie mi stavano infilzando la carne, ma non sentivo dolore. Solo rabbia. Anzi no, amarezza. Sentivo il suo sguardo addosso, ma non volevo incontrarlo. Mi diressi nuovamente verso la camera. Ormai tutta la curiosità era sparita lasciandomi solo un senso di vuoto. Non chiusi la porta e Miles mi seguii. Sospirò di sollievo e fui

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