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FEEL: l'ascesa
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E-book391 pagine5 ore

FEEL: l'ascesa

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Info su questo ebook

Era una grigia e nevosa giornata di dicembre. Aileen, venticinquenne dell'Ontario, ancora non
sapeva che avrebbe perso il lavoro. Quando aprì gli occhi, passò in rassegna tutte le cose da fare, compreso un pranzo con i genitori. Si lavò e si vestì. Infilò nella borsa tutto il necessario. Il cellulare lampeggiava, indicandole una chiamata persa. Micheal, il suo capo, le dà la brutta notizia: di lei non ha più bisogno.
Aileen non credeva davvero nell'aiuto di qualcuno. Era meglio restare sola, senza i sentimenti degli altri. Senza essere influenzata.
Tre anni prima era successo qualcosa che le aveva fatto perdere tutti. L'alcool era diventato il suo rifugio. L'alcool e l'odio.
Sconforta si richiuse in casa. La situazione lavorativa di non migliorava. Quella affettiva nemmeno. Erano passati tre giorni, ma non era cambiato nulla. Aileen lasciò la cucina, dopo una penosa cena, e si recò in camera. Raccolse gli indumenti dal pavimento. Si bloccò. Due stranieri erano nella sua camera da letto. Avevano una mantella nera, un cappuccio sopra la testa. Non voleva mostrarsi spaventata, ma era esattamente così che si sentiva. Di loro, invece, non sentiva niente. Nessuna emozione. Finché uno di loro decise di aprirsi. Un'ondata di emozioni le invasero la mente. La frastornarono. La rintronarono. Senza scelta, li seguì. Raggiunsero una vecchia villa. Lì incontrò l'Imperatrice. Lei era bellissima, con sfavillanti, lucenti, occhi verdi. Verde insolito. Lei era non era un Imperatrice qualunque. Era la Regina di un altro Mondo: Galatria. Furono cinque le cose che Aileen dovette affrontare: 1. l'esistenza di altri esseri umani nell'universo; 2. la loro presenza sulla Terra da ben 35 anni; 3. l'esistenza di una pietra, Yikira, dai fenomenali poteri; 4. essere stata pedinata da tutta la vita da dei Custodi galatriani. La quinta era la più importante di tutte: Aileen era nata con l'interazione naturale, poteva sentire le emozioni degli altri esseri umani. Era l'unica terrestre ad avere la stessa qualità che possedeva ogni galatriano. E il perchè non si conosceva. Nessuno lo sapeva.
Per Aileen non fu facile accettare tutte quelle novità. Aileen odiava i cambiamenti. Aileen odiava tutti. La nuova, complicata, vita ebbe inizio. Bugie ed inganni fecero capire ad Aileen quanto si poteva essere furbi, e fino a che punto essere ingenui. Le fecero capire quanto i comportamenti venivano influenzati dalle emozioni, e per questo era importante nasconderle. Ma questo, era solo l'inizio.

LinguaItaliano
EditoreR.R.Keyira
Data di uscita15 nov 2012
ISBN9781301935239
FEEL: l'ascesa

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    Anteprima del libro

    FEEL - R.R.Keyira

    FEEL – l’ascesa

    By R.R. Keyira

    Copryright di R.R.Keyira

    Smashwords Edition

    Smarswords Licenza d’uso. Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale. Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone. Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ognidestinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di tornare a Smashwords.com e acquistare la propria copia. Grazie per il rispetto al duro lavoro di questo autore.

    ***

    Indice

    Parte 1 – Chi sono?

    Parte 8 – Le scoperte

    Parte 14 – Il potere della Pietra

    Parte 21 – Quello che vogliono

    Parte 23 – Il rifiuto

    Parte 29 – Il ritorno

    Parte 35 – L’attacco

    Parte 40 – Un segreto spezzato

    Parte 42 – L’ascesa ufficiale

    Parte 57 – Il passato

    ***

    A Pallocchio,

    Prefazione

    Ero peggiorata.

    L'involucro. Così iniziarono a chiamarmi.

    Non so cosa volessero dire, ma da quel che avevo capito ero un guscio vuoto. Come un pacchetto di caffè, senza il caffè.

    Se ridevo? Non ridevo. Se sorridevo? Era solo la bocca a incurvarsi. Movimento meccanico del muscolo. Ordine del cervello.

    Se piangevo provavo un dolore straziante. Faceva così male che non volevo farlo.

    Involucro: volto impassibile, sguardo assente. Contenuto: nessuno.

    Emily mi guardava. Emily entrava nella camera buia. Anche lei voleva sapere. Che cosa è successo?, chiedeva. Stavo zitta. Non le rispondevo.

    Paul mi abbracciava. Paul si sdraiava sul letto accanto al mio. Non parlava. Non faceva domande.

    Lilian mi veniva a far visita. Lilian mi visitava come se fossi una malata terminale. Una mano sul polso per controllare il battito, per verificare che funzionasse ancora. Io non reagivo. Non la guardavo nemmeno.

    Bob era arrabbiato. Bob voleva spaccare il Mondo. Voleva prendere a pugni tutto.

    ***

    Sunville, Ontario, Canada.

    30 mesi dopo.

    11 dicembre

    Era Inverno. Uno degli Inverni più freddi e rigidi degli ultimi anni.

    Le strade erano lande desolate di neve. Si contavano una ventina di gradi sotto zero. Se le nuvole lasciavano il posto al sole le persone si affacciavano sulle strade, e i pezzi di ghiaccio si staccavano dai tetti. Era elevato il rischio di essere colpiti e assicurarsi una giornata al pronto soccorso.

    Due anni prima avrei dato qualsiasi cosa per essere colpita da un cubetto di duro ghiaccio. Avrei aspettato sotto i tetti di ogni casa del paese. Prima o dopo, mi avrebbe colpita. Prima o poi mi avrebbe uccisa. Un freddo, colpo, mortale. Volevo morire, quella era la realtà. Il mio posto non poteva essere quello.

    ***

    Capitolo 1 – Il rapimento

    Un rumore squillante invase la stanza.

    Aprii gli occhi.

    Avevo fatto di nuovo quel sogno.

    Lo schermo del cellulare lampeggiava, illuminava tutta la stanza, dichiarando in maniera insistente che qualcuno mi cercava.

    Ignorai la chiamata e, avvolgendomi nel piumone, mi rimisi a dormire.

    L'appartamento che avevo preso in affitto era all'ultimo e quarto piano di una casa in stile moderno. Era composto da un enorme salotto con cucina abitabile, una camera da letto, un bagno, uno studio e un piccolo ripostiglio. Il pavimento era in legno a rombi larghi. Quello della cucina e del bagno in piastrelle quadrate.

    I muri perlati di tutto il corridoio erano stati riverniciati da poco con una componente che rendeva tutta la superficie liscia e lucida.

    Di fronte alla televisione del salotto erano collocati due divani di cotone arancione, che invitavano a sedersi comodamente. Al centro della stessa stanza c’era un tavolo quadrato con quattro sedie. Sulla destra si trovavano una classica cucina americana, bianca laccata, con un bancone in marmo e un frigorifero.

    Lo studio era caratterizzato da un mobile antico, che fungeva da libreria, finemente decorato. Alla sua destra si trovava una scrivania in legno di ciliegio e un portatile di ultima generazione.

    Il terrazzo di mattonelle rosse circondava tutto l'appartamento. L'unica stanza che non permetteva di accedervi era il bagno, composto da una semplice finestra con anta ribaltabile e una tenda rigorosamente bianca.

    Due ore più tardi fui in piedi e, come sempre, non feci colazione.

    Accesi la radio e mi diressi in bagno.

    La doccia bollente era quello che ci voleva per riscaldarsi e cominciare bene una giornata di dicembre.

    Abbandonai il pigiama rosa sul pavimento e mi infilai sotto il getto d'acqua.

    Finii per svegliarmi del tutto.

    Con l' accappatoio tamponai maldestramente viso e corpo. Sorrisi guardando le immagini a stampo sul telo morbido, di cui, ammetto, mi vergognerei molto a mostrare a qualcuno, ma in casa mia non entrava nessuno dall'Era Preistorica.

    I primi occhi estranei che avevano attraversato la porta del mio appartamento erano stati quelli della mia amica Lilian, che con poco tatto aveva iniziato a sghignazzare allegramente della mia mania del rosa. Un intero arredo rosa in bagno: asciugamani, tappeti, saponette, spazzole. Una camera da letto ridipinta di rosa, con effetto spatolato. Bicchieri rosa, posate rosa, piatti rosa, canovacci rosa, tovaglie rosa.

    Posai il telo sul bordo della vasca e vagai nuda per il bagno controllando ogni centimetro del mio corpo tonico canticchiando Learning to fly dei Pink Floyd.

    Con calma mi coprii con una sottoveste bianca e un completo intimo dello stesso colore, poi andai ad aprire la finestra per far entrare un po' di aria. Un debole raggio di sole illuminò la stanza, inebriandola di colori tenui e caldi.

    Il trillo del citofono mi fece sobbalzare.

    In punta di piedi raggiunsi la sala lasciando sul pavimento qualche piccola goccia d' acqua.

    Presi la cornetta del citofono:

    - Chi è? – chiesi stringendo la cornetta tra le dita sottili. Ero sempre stata pericolosamente magra, da piccola ero nata sottopeso e con il tempo non avevo fatto miglioramenti drastici, quarantacinque chili per un metro e sessantasette. Debole oltre ogni immaginazione, avevo cominciato ad andare in palestra per tonificare il corpo ed essere in grado di portare due buste della spesa senza fermarmi ogni quattro passi.

    - Aileen, tesoro! Vuoi venire da noi a mangiare? – disse una voce mielosa. Era la mamma.

    Presi un po' di tempo prima di risponderle valutando bene la proposta.

    - Potrei essere da voi tra mezz'ora.

    - Va bene. Non fare troppo tardi.

    Sospirai e riagganciai.

    Il pranzo assieme a loro era un rito, oltre che un ottimo motivo per mangiare sano.

    Prima di uscire, e scendere di due piani per raggiungere la casa dei miei genitori, dovevo finire di vestirmi e sistemare il letto. Se mia madre fosse entrata in casa si sarebbe spaventata del disordine. Infatti, nell'eventualità che ci fosse stata un'inondazione, un terremoto o una qualunque calamità naturale, lei sarebbe stata capace di passare l'aspirapolvere, lavare il pavimento e passare la lucidatrice, dichiarando utilissime quelle azioni.

    Presi un pantalone nero e un maglioncino grigio con i bottoncini color carbone. Abbandonai i pantaloni per una gonna larga, poi tornai ai pantaloni.

    Mi guardai allo specchio e decisi per un trucco naturale, con un po' di fard rosato sulle guance. Sistemato tutto nell'astuccio, andai a prendere il pettine rosso dalla mensola del bagno. Quel giorno i miei capelli bruni erano allo stato brado e dovetti rinunciare ad un'energica spazzolata.

    Passai l'ultimo quarto d'ora a sistemare la stanza e il bagno, ormai mancava solo che iniziassi a rammendare i calzini di Colin, che cercava sempre di rifilarmi, e avrei finito per diventare una vera massaia infelice.

    Diedi un'occhiata all'orologio e mi accorsi che era quasi ora di pranzo.

    Corsi a piedi nudi per il corridoio e andai a recuperare gli stivali marrone scuro che avevo abbandonato la sera prima sul divano. Il contatto con il pavimento freddo della sala mi fece rabbrividire.

    Gettai il portafoglio, e altre cose che non mi sarebbero servite, nella borsa.

    Presi le chiavi di casa e andai a recuperare il mio smartphone. Era rimasto sulla mensola del letto. Il display del telefono segnava la chiamata persa di quella mattina. Un tocco leggero sullo schermo mi permise di vedere il numero di telefono della persona che mi aveva cercato. Non lo conoscevo. Secondo una logica ben ponderata, il mio numero lo avevano solo sei persone: mia madre Emily, mio padre Paul, mio fratello Bob, il mio fidanzato Colin, il mio vecchio capo Sarah, e la mia amica Lilian, l'unica che mi era rimasta, gli altri li avevo persi. Avevo una vita sociale poco attiva.

    Premetti il pulsante verde.

    Qualcuno rispose.

    - Pronto? Aileen?

    - Buongiorno Michael.

    Il mio futuro capo. Con lui la mia rubrica raggiungeva una nuova esaltante quota: sette.

    - Ciao ragazza. Ti ho cercata prima, dobbiamo parlare. – Il suo tono di voce non prometteva niente di buono. – Dobbiamo riconsiderare la tua posizione.

    Un soffio di vento gelido attaccò le mie mani nude. Indietreggiai, cercando un riparo, fino a colpire la barra del letto e accasciarmi su di esso. – Perché? Cosa è successo?

    - Ieri abbiamo avuto una giornata terribile! Mi sono reso conto che farti iniziare a lavorare ora sarebbe molto contro producente.

    Il mio cuore perse un battito. Forse ne perse più di uno, e quel soffio di aria fredda si trasformò un'ondata più forte, stringendosi sul petto.

    - Inoltre, – aggiunse, – non è arrivata la scrivania che avevo scelto per te. Non è arrivato il computer. Non è arrivata la sedia.

    - Quindi sarò costretta a lavorare in piedi con carta e penna? – chiesi con voce di oltretomba, sfumando in una lieve risata isterica.

    - Non puoi assolutamente lavorare in queste condizioni! – esclamò. – Dobbiamo prendere del tempo. Ricostruire un piano d'azione che riesca a raggiungere i risultati che entrambi vogliamo. Credimi, lo dico nel tuo interesse!

    Guardai fuori dalla finestra. Il sole era scomparso dietro le nuvole. Era svanito anche il mio buonumore mattutino.

    - Cosa si intende per prendere tempo?

    - Il tempo necessario per capire come possiamo fare per inserirti ed avere tutto a livello logistico! Come posso farti entrare in azienda senza avere nessuno che possa seguirti? Ieri è stata una giornata infernale, non ho avuto un attimo per respirare. Se tu avessi iniziato lavorare ti saresti spaventata. Saresti scappata! Ecco cosa avresti fatto! – si fermò un secondo per riprendere il fiato.

    Non capii come si potesse pensare, all'improvviso, dopo aver superato tre colloqui, che io potessi credere a quell'insieme di menzogne!

    Sarei scappata?

    Per il mio interesse?

    Un'ondata di calore invase il mio corpo e affievolì il freddo iniziale: la rabbia.

    - Di quanto tempo stiamo parlando?

    - E' per il tuo bene, – ripeté lui. – Si parla di qualche settimana. Potresti iniziare anche ora, ma non vorrei farti fare qualche lavoretto da archivio che non avevamo accordato.

    Se qualcuno mi avesse dato una mazza da baseball in quel preciso momento l'avrei calata su quella palla gigantesca di bugie!

    Ero furente.

    - Posso capire che ci siano dei problemi organizzativi. Dovrei dare speranze ad un futuro alquanto incerto? – ribattei serrano il pugno.

    -No, cara, – disse con voce mielosa. – Vedrò di sistemare tutto quanto. Il prima possibile. Posso trovare qualcuno che faccia da tramite tra noi due. Una nuova figura professionale. Ma tu non vedere la cosa in modo negativo. Intanto io ti lascio libera di cercare un altro lavoro, – ribatté con voce risoluta.

    Di nuovo non capii. Avrebbe sistemato tutto. Avrebbe cercato un nuovo professionista per fare quello che lui non riusciva a fare, e che avrei dovuto fare io.

    Non mi aveva messo alla prova e già mi stava licenziando.

    - Ragazza, io non ho tempo!

    Riattaccò.

    Non ebbi il tempo di salutalo. Il mio arrivederci e tutte le parole rabbiose che avrei voluto dirgli restarono incastrate sulla punta della lingua.

    Dove avrei trovato un altro lavoro il cui contatto con le altre persone tendeva allo zero?

    Sospirai.

    Feci l'unica cosa che potessi fare in quel caso: urlai. Scagliai un carillon contro il muro, una decina di oggetti in ceramica a terra. Sbattei i piedi sul pavimento con una furia tale che, se fosse stato possibile, avrei rotto il pavimento, sarei finita nell'appartamento del piano inferiore e avrei continuato a sbattere i piedi urlando!

    ***

    Capitolo 2

    Dopo aver avvisato mia madre della mia assenza a pranzo, passai il resto della giornata con sbalzi di umore fulminei. Un momento prima ero triste e un secondo dopo mi trasformavo in una furia buia.

    Non toccai cibo. Parte del pomeriggio lo trascorsi nello studio, davanti al PC, a fare un po' di ricerche. Raccolsi alcuni dati sul tasso di disoccupazione attuale perché, non contenta della situazione che stavo vivendo, mi piaceva continuare a farmi del male.

    Ecco cosa diceva un articolo di giornale:Non sono confortanti i dati che giungono a noi. Si comunica che sulla base di stime provvisorie il tasso dei senza lavoro risulta in lieve aumento dal 8,3% all'8,6%. Ad aumentare pericolosamente, invece, è la disoccupazione giovanile, tra i venti e trentacinque anni, il tasso si è attestato al 28,9%, con un aumento di 0,9 punti percentuali rispetto a ottobre e di 2,4 punti rispetto a novembre. Anche in questo caso si tratta di un livello record dall'inizio delle serie storiche di gennaio.

    La forte percentuale di disoccupazione non mi rinfrancava, infatti non riuscivo ad accettare di essere finita in una percentuale.

    La crescita di disoccupazione aveva, inoltre, incrementato il numero di suicidi e di persone in cura da psicologi, analisti, terapeuti:Una ricerca dell'Eures, istituto di ricerche economiche e sociali, delinea un aumento dei suicidi legati alla crisi economica. Dallo studio è emerso un incremento di suicidi tra i disoccupati. Si tratta di un fenomeno aumentato a dismisura nel corso degli ultimi anni e che, dall'inizio dell'anno, ha raggiunto il record di 338 morti, uno al giorno. La perdita di identità dovuta alla mancanza di indipendenza economica è dunque la causa che spinge al gesto estremo. Aumenta anche il numero di persone che si rivolgono ad uno specialista per cercare di curare la depressione emersa per motivi economici.

    I dati non erano confortanti, non volevo certo arrivare a suicidarmi, ci voleva troppo coraggio per farlo, e io non ne avevo mai avuto molto.

    Sapevo già che più tardi avrei visto Colin, così mi alzai dalla poltrona, spensi il computer, e andai in camera. La mia relazione amorosa veniva derisa dalla mia amica Lilian: Passatempo la chiamava. Non potevo darle torto. Da quando ero stata abbandonata dal mio ex, Bryan, stavo con Colin. Ma non era mai scattata la scintilla. Tutto questo, tuttavia, rendeva molto tranquilli i miei genitori e quel lato masochista di me stessa che non accettava di dover stare sola per sentirmi bene. Stavamo insieme da due anni, troppi per essere un'avventura, pochi per sposarsi. Non era un rapporto come gli altri.

    Il telefono squillò puntuale alle sei di sera.

    - Ciao, sto tornando a casa, – disse Colin. – Ci vediamo?

    - Va bene, – risposi.

    - Ottimo. Al solito posto. Dobbiamo festeggiare!

    Non ero dell'umore adatto per un party, non volevo esaltarlo troppo. Optai per un jeans e un maglione blu, largo. Quella sua strana voglia di festeggiare mi aveva preoccupato. Mi legai i capelli in una crocchia.

    Prima di uscire di casa con piumino, cappello e sciarpa, presi una borsa capiente per infilare un cambio di vestiti, nel caso più tardi mi fossi vista con Lilian.

    Cinque minuti più tardi arrivai al portone di casa di Colin. Anche lui viveva in un appartamento, ma era molto più grande del mio. Era composto da quatto camere, cucina, sala e due bagni. Ho sempre creduto che, nonostante tutto, il mio appartamento fosse più incantevole per il bellissimo terrazzo e le pareti colorate.

    Senza entusiasmo ricontrollai l'orologio. Soffiai aria calda tra le mani, il freddo si infilava in ogni parte scoperta del mio corpo. Battei i piedi a terra per cercare di riscaldarmi. Muovermi era l'unica cosa che potessi fare prima del suo arrivo. Colin, infatti, si era rifiutato di darmi le chiavi di casa. Ero sicura che non volesse farsi beccare mentre pomiciava con qualche altra ragazza. Non che mi importasse, ma era piuttosto fastidioso rendersi conto che mi credesse così stupida.

    Lo vidi arrivare in lontananza con cappotto nero e valigetta blu. Era un uomo ordinario emigrato dal Nord Europa, quindi: capelli biondi e occhi chiari. Trenta anni con un' ottimo percorso di studi alle spalle, si era subito affermato come Product Manager.

    - Ciao, – disse con freddezza a disinteresse, dandomi un bacio frettoloso sulla guancia.

    - Come va? – chiesi strofinandomi le mani e evitando di guardarlo negli occhi. Mi metteva soggezione.

    - Ho grandi notizie! – dichiarò, raggiante, prendendo le chiavi e rigirandole nella serratura del portone.

    Io gli sorrisi malevolmente, anche io avevo grandi notizie, ma non erano troppo entusiasmanti.

    Spalancò il portone, e posizionò il proprio corpo in modo da farmi passare per prima.

    - Grazie, – risposi secca, dirigendomi il più velocemente possibile verso l'ascensore.

    Premetti il pulsante rotondo e bianco, aspettando impazientemente. Il suono metallico, simile ad un dlin-dlon, mi avvisò del suo arrivo al piano. La cabina era lucida e metallizzata, grigio topo. All'interno vi era un solo specchio.

    Io e Colin entrammo senza dire una parola. Il mio respiro caldo e affannoso si mescolò al suo, calmo e controllato. Era distaccato.

    Un altro dlin-dlon ci avvisò di essere arrivati. Aspettammo che le porte dell'ascensore si aprissero e uscimmo.

    Su quel piano c'erano tre porte, e tre tappeti rossi: due sbiaditi, uno nuovo di zecca. Io mi diressi verso quello. Strofinai gli stivali sullo zerbino dell'ingresso per togliere i residui di neve.

    Colin, invece, prese le chiavi dalla tasca del cappotto e infilò la chiave nella serratura con la perfetta maestria di chi ha ripetuto quel gesto un migliaio di volte. Aprì la porta senza pulirsi le scarpe e si diresse verso la camera da letto, io andai in cucina. Aprii il frigorifero per vedere cosa potessimo mangiare quella sera. Restai sconsolata nel notare quanto poco cibo ci fosse. Avremmo mangiato di nuovo tonno con pane e pomodori.

    Urlò dall'altra stanza: – Aileen, prepara qualcosa da mangiare, ho fame.

    Non era facile farlo contento, temevo che mi avrebbe cacciato due urla per qualche motivo che non avrei capito. Una volta fu capace di arrabbiarsi perché la tovaglia era blu invece di rossa.

    Sciacquai i pomodori sotto il rubinetto dell'acqua e li tagliai in piccoli spicchi. Li condii con olio e sale, poi aggiunsi il tonno.

    Apparecchiai il tavolo, e misi il cibo in due piatti.

    - Se vuoi mangiare ho preparato due cose di là, – dissi affacciandomi alla porta della sua stanza bianca. La camera era spaziosa ed essenziale. Un letto a due piazze, un armadio a cinque ante, una cassettiera ed una scrivania sommersa da una parte da agende, fogliettini e penne. Il computer occupava il lato destro.

    - Entra un attimo Aileen, – disse gesticolando. – Voglio farti vedere una cosa.

    Mi avvicinai alla sua scrivania. Avevo poca voglia, sia di ascoltarlo, sia di vedere qualsiasi cosa avesse voluto mostrarmi.

    - Ma come ti sei conciata? – disse contraendo la faccia in un'espressione stranita. – Sembri appena uscita dal letto!

    Disgusto. Rabbia.

    Sorrisi. Il disgusto era il sentimento perfetto per acquietare il bollente spirito del festeggiamento.

    - Guarda qua, – disse con compiacimento, orgoglio e una dose notevole di egocentrismo, indicando il monitor del computer. – Il mio nuovo contratto di lavoro!

    Il sorriso precedente si affievolì immediatamente, trasformando il mio viso in una maschera cinerea.

    - Oggi mi hanno contatto quelli della Oracle, sono alla disperata ricerca di una persona con le mie competenze. E indovina? – disse appiccicandomi la faccia contro lo schermo. – Mi daranno cinquecento mila dollari all'anno!

    Stima. Fierezza.

    Io per poco non svenni. Per fortuna ero così vicina alla scrivania da potermi appoggiare.

    - Ti rendi conto? – fece sorridendo sornione. – Questo cambia tutto!

    Vero, cambiava tutto. Sarebbe diventato ricco e io sarei finita sotto i ponti a elemosinare qualche moneta per poter campare. E tutto perché non riuscivo a lavorare con molte persone attorno.

    - Mi potrò permettere molte più cose! Fare molti più viaggi!

    Entusiasmo. Egoismo. Rabbia.

    Mi scostai guardando a terra. – Certo, – risposi tremando. – Vado di là a controllare che non si bruci niente.

    Ma quanto sei disfattista! – ringhiò. – Possibile che tu non abbia voglia di ascoltare? Non hai mai voglia di fare un cazzo!

    Rabbia. Inconcepibilità.

    - Torno subito, – farfugliai sforzandomi di sorridere. Staccai le mani dalla scrivania e corsi in bagno. Chiusi la porta di legno alle mie spalle. Avvolsi la testa nell'asciugamano bianco e soffocai la rabbia e l’egoismo. Perché mi sentivo così arrabbiata? La mia testa martellava pulsante di quel sentimento.

    Sciacquandomi il viso con l'acqua fredda, pensai che non avrei retto un'intera serata con lui, e nemmeno con Lilian. Così le inviai un messaggio declinando il suo invito.

    Armata di coraggio tornai in camera, scoprendo che Colin non c'era. Lo schermo accesso del computer mostrava in lontananza il contratto di lavoro che stavo odiando.

    Recandomi in cucina udii il rumore di una forchetta che sbatteva.

    - Dov'eri finita? – chiese Colin senza alzare gli occhi dal piatto. – Siediti, così mangiamo.

    Collera.

    Presi un po' di tonno e lo ficcai in bocca.

    Masticai lentamente cercando di fare pensieri più allegri, come la faccia di mio fratello quando inciampai e finii di testa nella torta di nostra madre.

    - Sono contento di vederti sorridere, Aileen, – disse Colin riportandomi al presente. – Finalmente ti sei accorta di quando sia importante questo contratto per me.

    Compiacimento.

    - Già, – annuii tutt'altro che felice.

    - Tu quando cominci con il nuovo lavoro?

    Invadenza.

    - Bhe, ecco... – cercai di tergiversare infilando in bocca un paio di pomodorini. Non avevo voglia di parlarne con lui dato che lo percepivo indisponente.

    - Allora? – insisté.

    Con la bocca piena gli feci un sorriso. Poi deglutii rumorosamente. – Credo di... di essere stata licenziata.

    Colin abbandonò la mano sul tavolo.

    Disappunto. Ostilità. Sdegno.

    - Cara, si pentiranno, tu sei in gamba. Ti aiuto io, – disse impassibile e altezzoso. – Visto che non avrai niente da fare, potrai venire a casa mia a dare una pulita.

    Spalancai gli occhi colta da quella rigidità. Dalla sua freddezza.

    - Con il mio nuovo lavoro, – proseguì, – avrò meno tempo da dedicare alla casa, per fortuna, potrai farlo tu.

    Mi diede una pacca sulla spalla e si alzò. – Lavi tu i piatti, vero?

    Arroganza. Superbia.

    Sorrise lasciando la cucina.

    Lasciai cadere la forchetta nel piatto quasi pieno. Mi ero sforzata di mangiare qualcosa, ma non avevo fame. Colin aveva contribuito in maniera decisiva a farmi chiudere lo stomaco. Appoggiai la testa sul tavolo, presa da nuove emozioni: disinteresse e rabbia. Non erano mie. Ci volle uno sforzo considerevole, ma alla fine riuscii a scrollarmele di dosso.

    Decisi di andare via. Quella non era casa mia, né c'erano persone che mi avrebbero aiutato. Con il peso nel cuore mi alzai dalla sedia. Mi affacciai nel corridoio. La porta della camera era chiusa. Avevo campo libero.

    Misi il piumino, presi la borsa e, più silenziosamente possibile, aprii la porta. La socchiusi fregandomene altamente di chiuderla.

    Scesi le scale due gradini alla volta.

    Giunta fuori, presi delle lunghe boccate di aria fredda che entrarono nel mio corpo, raggelandolo. Eppure la temperatura rigida non era niente in confronto all'abbattimento emotivo che provavo.

    Mi incamminai con il passo pesante e lo sguardo basso. Guardai gli stivali scuri calpestare la solida neve.

    Gli sgombraneve passavano incessantemente, gettando sale e raccogliendo, o accatastando. Il sentiero era una melma dura, gelida e biancastra.

    Svoltai a destra, passai oltre la piccola Chiesa e la farmacia

    Uno dei miei stivali slittò. Cercai di tenermi in equilibrio mettendo il peso del corpo in avanti, ma il ghiaccio ebbe la meglio. La schiena ondeggiò in avanti, perdendo completamente l'equilibro.

    Pattinai verso il pericolo.

    Stavo per schiantarmi, già immaginavo il male che mi sarei fatta. Misi le mani davanti al viso, e mi chiusi a riccio per ripararmi.

    Chiusi gli occhi condannata al peggio, ma finii addosso a qualcos'altro. Un uomo. Fu una fortuna, in verità, perché mi sarei potuta schiantare contro la vetrina del negozio di fronte.

    Quando aprii gli occhi, vidi un busto robusto coperto da una mantella nera. L'uomo mi resse per le spalle. Ci mise poco a spostarmi e rimettermi in piedi.

    Ero perfettamente diritta e, notai con piacere, che le gambe mi reggevano.

    - Grazie, – dissi alzando lo sguardo verso il mio salvatore, ma il cappuccio sulla testa gli nascondeva il viso.

    Non disse una parola e non fece alcun cambiamento nella sua postura. Il silenzio assoluto. Non era la prima volta che non percepivo le emozioni di qualcuno. A volte succedeva, ma era raro. Fu per quello che lo guardai stranita, inclinando il capo per capire se da una posizione diversa avrei avvertito qualcosa. Ma non accadde nulla.

    Si scostò lateralmente, facendo svolazzare la sua mantella nera contro la mia gamba, poi si dileguò in tutta fretta.

    Non gli corsi dietro, non era importante. Rimasi per un minuto a fissare il mio riflesso nella vetrina del negozio. Erano esposti una gran quantità di cappotti e cappelli invernali, fissati su dei manichini alquanto magri e privi di espressione. La mia immagine si perdeva in quegli abiti di lana e cashmere.

    Ero io. Un'autostima spezzata all'interno di un corpo integro.

    Scrollai la neve dai vestiti e mi incamminai, lentamente. Il capo chino. Lo sguardo perso.

    Davanti al portone di casa trovai Lilian, appoggiata al muro, che mi stava aspettando.

    Preoccupazione.

    - Era ora! – esclamò scompigliando i suoi capelli castano chiaro. – Credevo di fare la notte qui! Cosa significa quel messaggio che mi hai mandato? Non puoi darmi buca!

    - Lilian io... – le parole mi morirono sulla lingua sentendo un groppo in gola.

    - Stai bene? – chiese avvicinandosi e prendendomi per mano. – Pare proprio di no.

    Interesse. Premura.

    - Lilian... – singhiozzai.

    - Lascia stare, – rispose. Prese le chiavi dalla mia borsa e mi condusse a braccetto nel mio appartamento. Dolcezza. Affetto.

    Da buona amica, o pessima, dipende dai punti di vista, aveva versato un goccio di liquore nel flute e me lo aveva porto.

    - Ti ascolto, – disse.

    Io tra un singhiozzo e l'altro non dissi nulla. Piansi. Bevvi. Non parlai. Piansi e mi addormentai.

    Il giorno dopo mi svegliai con una coperta sulle spalle e un mal di testa terribile. Lilian mi aveva lasciato un biglietto sul tavolo: Chiamami appena ti svegli.

    ***

    Capitolo 3

    Vendita cervello, poco usato.

    Tre giorni dopo il mio successo lavorativo misi in vendita ironicamente il mio cervello. Non ce la facevo più a vederlo così solo, così atrofizzato.

    Mi sedetti sulla poltrona dello studio e sospirai affranta. Lo schienale alto e comodo mi avvolgeva completamente il dorso, quasi volesse confortarmi.

    Diedi un'occhiata al cellulare per vedere se avevo ricevuto qualche telefonata di lavoro, ma trovai solo quella di Colin. Erano tre giorni che lo ignoravo. Erano tre giorni che mi cercava. Ma io sapevo che non era carico di preoccupazione per me, era adirato perché non aveva più nessuno con cui parlare dei suoi successi e dei suoi immensi problemi. Ero riuscita a leggere il messaggio che aveva mandato quando ero scappata: Aileen devi chiudere la porta quando te ne vai. Peccato che io non avessi le chiavi.

    Un trillo sfuggente mi fece sobbalzare. Alzai lo sguardo verso lo schermo del computer. La mia casella di posta elettronica si era illuminata, indicandomi l'arrivo di una nuova email.

    Mittente: Colin Carter. Oggetto: Dove cazzo sei finita?

    Selezionai il messaggio e lo cestinai.

    Aspettavo proposte lavorative, non avevo tempo da perdere con i suoi rimproveri inutili.

    Abbandonai lo studio e andai a prepararmi un panino. Mi ero imbottita di cioccolatini tutto il giorno e avevo saltato il pranzo.

    Accesi la luce della cucina perché la sera aveva portato con sé il buio. Mi affacciai sul terrazzo per osservare il panorama che mi circondava. Il cielo era plumbeo e prometteva un'altra nottata di neve.

    Rientrando, rabbrividii. La differenza di temperatura mi fece pensare all'estate, al mare, al costume da bagno e alle vacanze che non potevo permettermi. Sospirai e rientrai.

    Avevo il coltello incastrato nella fetta del pane quando squillò il cellulare. Era mio fratello maggiore, cinque anni ci separavano. Da un anno si era trasferito per lavorare

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