Un amore al mandarino
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Anteprima del libro
Un amore al mandarino - Daniela Trombetta
Hanh
PROLOGO
Un giorno qualunque nel marzo primaverile del 1979
Correvo a perdifiato quando cozzai in un paio di mani esili. Fui scaraventato a terra all’indietro. Nonostante lo scontro impetuoso, le mani non smisero di eseguire l’operazione; sembrava non esistere null’altro di più importante. Gentili e precise, procedevano con movimenti lenti, quasi ipnotici, a sbucciare un piccolo mandarino. Incuriositi, i miei occhi guizzarono rapidi al volto. La curiosità venne ripagata da uno sguardo fiero, sicuro, eppure dolce, pronto a restituirmi un sorriso che non avevo mai visto. Desideravo interagire con lei, ma avrei rischiato di spezzare la magia: non osai disturbarla e mi limitai a osservare il suo viso e le sue mani.
Le corse per il parco e la compagnia dei miei amici mi avevano impedito di accorgermi di lei, almeno sino a quel momento.
Spesso mi veniva dato del maldestro
. Io non ne capivo il significato, ma avevo intuito che potesse riferirsi al mio andamento goffo e, forse, atipico per un bambino della mia età. Qualunque significato avesse quella parola, fu la prima volta in cui non mi sentii a disagio per un disastro appena commesso o, meglio, fui solo io a ritenerlo un disastro; lei rimase impassibile, a stento incurante di me. Il colpo che ci fu tra di noi non destabilizzò la sua concentrazione, sebbene mi sfuggì un lamento dato dal fastidio alla testa. Subito ne compresi il motivo: colava sangue, molto sangue, e l’istinto mi spinse a tamponare la ferita con la mano, ma non servì. Presto mi ritrovai con la maglietta zuppa e con un terribile senso di nausea.
Mentre i suoi piedi continuavano a spingere sulle pietruzze del parco per non far cessare il dondolio dell’altalena, lei infine mi scrutò, non senza stupore, forse interrogandosi sull’accaduto.
Ancora a terra, ma non privo di sensi, notai che aveva liberato il mandarino dalla buccia con una spirale perfetta, che gettò proprio sotto il mio naso. L’odore aspro del frutto mi assalì mischiandosi al dolore alla testa: mi era aumentato quasi all’improvviso. Mi stropicciai gli occhi e cominciai a urlare. Le fitte mi stavano sfinendo e mi vidi costretto a portarmi le mani ai capelli, fin quasi a strapparli, nella speranza di strappare via quella tortura.
Fu il suo tocco sulla mia spalla a indurmi a smorzare le grida; fu il suo gesto a sconcertarmi: per quanto non bastasse tamponare con un piccolo fazzoletto il taglio che mi ero procurato, i suoi occhi s’incastrarono nei miei e mi sentii in trappola. Fu a quel punto che mi sollevai con tutte le forze rimanenti, sfruttando le sue gambe come appoggio. Fu a quel punto che udii la sua voce. «Non avere paura. In due è meglio, non credi?»
CAPITOLO 1
Traslochi e biscotti al cacao
«Tesoro, svegliati! Le ragazze sono pronte e a noi aspetta un gran daffare oggi.» La voce mi spaventò come accade con i palloncini quando scoppiano. Lo so, può sembrare patetico e, infatti, a scuola sono stato bersaglio dei miei compagni fin troppe volte. Ma non ho mai potuto farci niente, così è sempre stato e così continuerà a essere. Un uomo, fatto e finito, che si tappa le orecchie allo scoppio di un palloncino, e non solo.
La voce era quella di Liz che, puntuale, strillò alle otto e dieci del mattino per buttarmi giù dal letto, ben conscia che io non avessi badato all’ennesimo rinvio della sveglia. C’era un qualcosa di stridente in lei che il trillo della sveglia non possedeva, e questo mi terrorizzava. Liz mi terrorizzava. Sotto ogni punto di vista.
«Sammy! Mi hai sentito? Faremo tardi!»
«Sì, piccola, scendo subito» le rimandai col mio tono mattutino, secco e gutturale, che quasi sicuramente non le arrivò. Decisi perciò di darmi una mossa, scendendo di corsa dal letto per fiondarmi ad aprire le finestre. Il fracasso della serranda avvolgibile mi avrebbe salvato la pelle.
«Dovresti aggiustarla, quella serranda, prima o poi.»
Ecco il secondo sollecito, puntuale pure quello, ma almeno lei capì che stavo per scendere e tanto mi bastò a non rispondere per l’ennesima volta. In fondo, per la serranda, aveva ragione. Mi concessi soltanto un sospiro: un sospiro che si fece più prolungato quando vidi che fuori stava piovendo di nuovo.
Ci eravamo trasferiti a Lynnwood da ormai cinque anni, da quando la più piccola delle nostre tre figlie aveva avuto il piacere di unirsi a noi.
Nell’arco della nostra vita insieme, io e Liz avevamo cambiato casa quattro volte.
La prima perché lei, accumulatrice seriale di ogni oggetto, stabilì che ci occorresse per forza di cose una stanza in più. «Questa casa è troppo piccola, Sam. Non so dove mettere la roba» mi diceva. E io, paziente, le rispondevo: «Potresti cominciare a buttarne un po’, per esempio.» Ma lei mi rimbeccava sempre con la solita solfa. «Scherzi? Si tratta di ricordi, non potrei» e sfoggiava quel suo faccino melanconico che poneva fine alla conversazione. In fondo, però, volevo andarmene anch’io da quella casa che non sentivo mia e da cui, in compenso, a causa della posizione, sentivo tutto il baccano delle auto, dei camion, degli scooter, delle moto e chi più ne ha più ne metta.
Ci trasferimmo così in un appartamento più grande, con la benedetta stanza in più, che si trovava lungo una strada silenziosa, ma sempre nella periferia di Seattle. La nostra storia era cominciata proprio da lì, da Seattle. Tuttavia, Seattle durò ben poco, il tempo di decidere che la prima casa era troppo piccola e che la seconda non aveva un giardino per poter prendere un cane. Lo desideravo anch’io, beninteso, ma desideravo anche un po’ di tranquillità. Era passato a malapena un anno e lei voleva di nuovo spiccare il volo per realizzare un suo sogno di bambina. «Ci pensi, Sammy? Potremmo allargare la nostra famiglia!» aveva esclamato un giorno in preda all’euforia. Io ero sbiancato. «Sei incinta?» Lei mi aveva guardato stranita, quasi scioccata, e mi aveva detto: «Ma no, stupido! Sto parlando del cane. Quando saremo nella casa nuova, avrà tutto lo spazio per girovagare qua e là!»
E da Seattle ci siamo spostati a Edmonds, acquistando una villetta non troppo lontana dal mare con ottanta metri quadri di giardino. «Saranno sufficienti per Sally?» mi aveva domandato una sera mentre sistemavamo le ultime cianfrusaglie dentro gli scatoloni. Mi bloccai e la guardai. «È un bassotto che per ora ha le dimensioni di mezza bottiglia d’acqua. Secondo te?» Una risata fu la sua risposta, e intanto io facevo scommesse con me stesso sul tempo che avremmo trascorso lì, nella nuova dimora.
Mi ritrovai a stringermi la mano perché – colpo di scena – in una bella sera d’estate in cui l’afa aveva ceduto il posto a un fresco venticello e in cui per una volta, spensierato, giocavo con Sally a strappa l’osso
, lei si avvicinò e bisbigliò: «Sono incinta.»
«Come? Vuoi allargare ancora la famiglia? Beh, tesoro, in effetti sono d’accordo. Un compagno di giochi è quello che ci vuole per Sally. Però stavolta non un bassotto, prendiamo un bel Foxhound. Snello, alto... il contrario di Sally, in pratica.»
«No. Sono incinta» ripeté marcando l’ultima parola. E d’improvviso mi si sturarono le orecchie. «Non vorrai di nuovo cambiare casa?» fu la mia prima domanda.
«Ti dico che sono incinta e tutto quello che sei capace di chiedermi è questo?» Va bene, avevo esagerato e l’avevo sottovalutata. «No ... è che ho pensato che in tre questa casa fosse troppo stretta.»
«In quattro. E no, non lo è» rispose seccata dal mio scarso entusiasmo alla notizia.
«In quattro?» inciampai sul bastone di Sally che approfittò della situazione per aggiudicarsi l’osso.
«Esatto.» Mi sorrise guardandomi dall’alto verso il basso, mentre mi massaggiavo la natica dolorante dopo la caduta. «Ma hai ragione, il Foxhound è perfetto per fare compagnia a Sally.»
Si voltò e se ne andò con fare tronfio nel momento in cui io, ancora inebetito per terra, le gridavo dietro: «Non mi piace il Foxhound! È dannatamente egocentrico!» Sapevo già di uscirne sconfitto.
Negli anni successivi, non solo i figli avrebbero richiesto attenzioni, ma anche il nuovo compagno di Sally. Quando voleva qualcosa, Elizabeth Cook non se l’andava a prendere: ordinava a me di andarla a prendere. Tanto per dare l’idea.
Il parto diede alla luce due gemelle, contrariamente alle aspettative di Liz che era certa si trattasse di due maschietti. Aveva già deciso i nomi e, siccome volle tenere fede alle sue convinzioni, quando nacquero le bambine si ritrovò del tutto spiazzata e, per la prima volta, udii le impercettibili parole avevi ragione
, quasi le costasse una fatica tremenda ammetterlo.
Il senso dell’ironia non mi aveva mai abbandonato, quindi gonfiai il petto e le proposi: «Potremmo chiamarle Star e Light, che ne dici? Per ricordarci che sono inaspettatamente venute al mondo a illuminare ancora di più il nostro cammino insieme.» Conclusi la frase cimentandomi in un effetto scenico di classe, col braccio a disegnare nell’aria un semicerchio.
«Diventare padre ti rende filosofico» commentò lei.
«Lo sono sempre stato, tesoro, è che tu non te ne sei mai accorta.» Ma le mie parole divennero insignificanti perché l’attenzione di Liz deviò sull’infermiera che le stava adagiando le due bambine tra le braccia.
«Star, Light. Benvenute in famiglia. Presto conoscerete Sally e il suo nuovo amichetto» disse. Se non altro, avevo avuto voce in capitolo sui nomi.
Quando le gemelle compirono dieci anni e Sally perdeva ormai tutte le partite a strappa l’osso
per via di un problema alle anche, e quando Cody, il Foxhound, era nel pieno della sua vita e s’improvvisava cacciatore di una qualunque cosa o essere che si muovesse, Elizabeth annunciò: «Famiglia, non resisto oltre. Avrei voluto dirvelo la sera della vigilia ma sono troppo eccitata. Vi anticipo il regalo.» Mancavano sei giorni a