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E-book567 pagine8 ore

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Info su questo ebook

Alice ed Emma sono due giovani amiche che tutte le estati partono all’ avventura per divertirsi e trascorrere le vacanze insieme. Quest’anno hanno deciso di recarsi in Messico, un paese misterioso e ricco di fascino e storia, dove si lasceranno sorprendere dalla natura selvaggia e incontaminata e da antichi siti storici ancora inesplorati. Sarà proprio all’ interno di questa cornice che le loro vite verranno stravolte completamente. E’ sufficiente un attimo, un fugace scambio di sguardi all’ aeroporto, due mani che si sfiorano, perché Alice si innamori perdutamente di Alex, ragazzo molto attraente ma che nasconde un pericoloso segreto. E sarà proprio questo segreto che metterà a rischio la loro stessa vita, ma che contribuirà anche a rafforzare i loro sentimenti, catapultandoli in un vortice di passione, desiderio, amore, odio, adrenalina, gelosia e mettendo in dubbio tutte le loro certezze. 
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2018
ISBN9788829541133
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    Anteprima del libro

    Nonostante tutto - Chiara Bertini

    Ringraziamenti

    Prologo

    Faceva freddo, avevo la bocca secca, facevo fatica a respirare, era come se avessi un blocco poco sotto la gola che impediva all’aria di giungere ai miei polmoni. Non sentivo alcun rumore intorno a me, tutto era immobile e silenzioso.

    D’un tratto venni pervasa da un senso di pace, serenità e rilassatezza a cui mi abbandonai per qualche istante. Poi, lentamente, aprii gli occhi, ma tutto rimase esattamente come prima, continuavo a non vedere nulla. Mi faceva male la testa e sentivo un forte fastidio alla cervicale. In realtà sentivo dei lievi dolori un po’ ovunque, soprattutto all’altezza delle spalle e della schiena. D’un tratto, all’improvviso, il mio corpo fu attraversato da un lampo, il mio cuore iniziò a battere più velocemente, mi resi conto che qualcosa non andava. Dov’ero? Dov’era Alex? Perché era tutto buio?

    Iniziai ad agitarmi, sentivo che era successo qualcosa di grave ma non riuscivo a ricordare nulla.

    Ero sdraiata a terra e avevo le mani e i piedi legati talmente stretti da non riuscire a muoverli nemmeno di qualche millimetro. Mi trovavo in un luogo chiuso e angusto, la mia mente elaborò immediatamente l’immagine di una cella di una prigione quadrata e di piccole dimensioni, come quelle che si vedono spesso nei film. Il pavimento era freddo, ruvido e irregolare al tatto, ero quasi sicura che fosse fatto di pietra, ma l’oscurità mi impediva di cogliere altri dettagli.

    Seguii con gli occhi un piccolissimo fascio di luce che proveniva da una minuscola fessura che si apriva poco sopra di me nella parete alla mia destra. Era un filo di luce giallastra e calda, che si muoveva lentamente e sembrava cambiare continuamente di intensità, talmente fioca che quasi non la notavo nemmeno.

    Solo un filo, a cui la mia mente cercava di aggrapparsi con tutte le sue forze, determinata a spazzare via quel senso di angoscia e di disperazione che sentivo montare incessantemente dentro di me. Un filo di luce, un filo di speranza, un filo di determinazione che improvvisamente diventò una luce accecante appena l’immagine di Alex si stagliò nitida nella mia mente ancora confusa.

    Non potevo stare lì immobile, dovevo alzarmi, cercare di liberarmi, capire cosa potesse essere successo. Ma soprattutto dovevo trovarlo. Anche lui avrebbe potuto essere in pericolo, l’ultima volta che ci eravamo visti era stato… Quanto tempo era passato dal nostro ultimo incontro?

    Cercai di riportare alla mente il ricordo dell’ultima volta che i miei occhi si erano posati sul suo viso, perfetto dai lineamenti spigolosi e accentuati, ma addolcito e illuminato dal sorriso di cui mi ero perdutamente innamorata. I miei ricordi degli ultimi momenti trascorsi con lui erano però vaghi, si intrecciavano e si sovrapponevano in maniera disordinata, creando un intrico che non riuscivo a districare.

    Costrinsi la mia mente a fare uno sforzo ulteriore e improvvisamente davanti ai miei occhi comparve di nuovo il suo volto, che però stavolta non mi sorrideva più ma era molto rigido e preoccupato. Tesi l’orecchio e cercai di ascoltare le parole che uscivano dalla sua bocca, che mi stava comunicando che c’erano stati dei nuovi sviluppi e che doveva andarsene. Concentrai tutta l’attenzione e le poche energie che avevo in corpo sull’immagine del suo viso che fluttuava davanti ai miei occhi, ma non riuscivo in alcun modo a ricordare altri particolari.

    Decisi quindi di arrendermi e cercai invano di alzarmi per provare a capire dove mi trovassi, ma le corde che tenevano legate le mie caviglie e i miei polsi mi impedivano di stendere le ginocchia e di trovare l’equilibrio necessario per mettermi in piedi. L’unica cosa che potevo fare fu strisciare e rotolare verso il muro della cella in cui ero rinchiusa, per cercare qualche fenditura che mi aiutasse a scovare una porta o una via di salvezza.

    Passavano i minuti, forse le ore ma non trovavo nulla, nemmeno in corrispondenza della piccola fessura da cui intravedevo il fascio di luce riuscivo a trovare qualche segno che potesse indicarmi una via d’ uscita. Ero sola, nella totale oscurità, in un luogo silenzioso e buio che non riuscivo a collocare nel tempo e nello spazio.

    Mi misi a gridare ma nessuno mi rispose, non riuscivo in alcun modo a liberarmi dalle corde che mi stringevano le caviglie e i polsi. Iniziai quindi a ripetere a me stessa di non disperare, di mantenere la calma e di cercare di ragionare, avrei sicuramente trovato una soluzione, ma non sapevo davvero come avrei fatto a uscire da lì.

    Ero completamente sola. In trappola.

    Improvvisamente dietro di me si aprì un passaggio e una luce calda e fioca invase la mia prigione. Mi voltai, guardai verso la luce e vidi la figura di un uomo alto, grosso e muscoloso stagliarsi sulla soglia. Feci fatica a mettere a fuoco l’immagine che avevo davanti, i miei occhi non si erano ancora abituati alla penombra che mi circondava.

    L’uomo mi si avvicinò lentamente, senza dire una parola e con un’andatura decisa e sicura. Conosceva perfettamente il posto in cui ci trovavamo e sapeva esattamente cosa doveva fare. Con un gesto rapido ed energico mi prese la faccia stringendo il mento con le sue dita ruvide e callose, mi aprì la bocca e mi obbligò a ingoiare una pastiglia di cui non sentii nemmeno il sapore.

    Mentre mi era talmente vicino da poter sentire il suo odore acre di sudore e il suo fiato caldo sul mio viso, senza nemmeno rendermene conto mi ritrovai a chiedergli chi fosse, cosa volesse da me, come ero finita in quel luogo. Lui non rispose, posò un vassoio a terra e se ne andò, lasciandomi di nuovo immersa nel buio e nella solitudine.

    Un senso di sconforto e di impotenza mi invase, iniziai a gridare per invocare aiuto, battei con tutta la forza che avevo in corpo i piedi a terra e presi a pugni i muri che mi intrappolavano, ma sapevo già che sarebbe stato tutto inutile. Mi feci prendere dal panico, dovevo assolutamente capire cosa potesse essere successo e come potessi uscire da lì, ma sentivo che a ogni secondo che passava i miei pensieri diventavano sempre più indefiniti e sconnessi, la mia mente sempre meno lucida, facevo fatica a ragionare e a tenere gli occhi aperti.

    Prima di sprofondare nuovamente nel sonno sentii una fitta allo stomaco, provocata dall’ansia e dal terrore per la situazione in cui mi trovavo. Non vedevo vie d’uscita e iniziavo a pensare che sarei morta sola in questa cella buia.

    Capitolo I

    Emma ma sei sicura di voler portare tutta quella roba? Guarda che stiamo via tre settimane, non stiamo facendo un trasloco! urlai esasperata alla mia migliore amica, che continuava a gettare roba nella valigia aperta ai piedi del letto, completamente incurante delle mie richieste.

    Era sempre la solita storia. Ogni volta che dovevamo partire Emma doveva portarsi dietro l’intero armadio. Dovevo ammettere che a volte la sua grande previdenza, come era solita chiamarla lei, ci era tornata estremamente utile. Ricordai ad esempio di una sera che eravamo andate a trascorrere un weekend a Londra e faceva talmente freddo che Emma mi aveva dovuto prestare una sua felpa perché non avevo altri maglioni da indossare sotto al cappotto. Mi rinfacciò quel fatto per settimane e da quella volta mi ripromisi che non mi sarei mai più azzardata a chiederle di prestarmi dei vestiti mentre eravamo in vacanza, sarei piuttosto morta per il freddo o per il caldo.

    Vedrai che non sarà troppa e non supereremo il peso massimo del bagaglio da stiva, non conosci il Messico e non sai di cosa puoi avere bisogno! mi rispose la mia amica dagli abissi del suo immenso guardaroba, che sembrava averla completamente inghiottita e dal quale iniziai a dubitare che sarebbe mai potuta riemergere sana e salva.

    Mi arresi, forse aveva ragione lei e anche se avesse avuto torto sarebbe comunque stato impossibile farle cambiare idea. Era vero, era la prima volta che avremmo visitato il Messico, quindi non sapevamo bene cosa ci aspettasse, però era davvero necessario portarsi dietro tre paia di scarpe tacco dodici?

    Era da quando avevamo finito le scuole superiori che ogni anno trascorrevamo le vacanze insieme. Si trattava del nostro piccolo premio dopo un anno intero di lavoro e di studio. Da quando avevamo iniziato a frequentare l’università e, successivamente, a lavorare non ci vedevamo più molto spesso, anche se cercavamo di sentirci almeno un paio di volte alla settimana, giusto per tenerci aggiornate su ciò che ci accadeva. Emma aveva condiviso con me le tappe più importanti di gran parte della mia giovane vita ed era sempre stata presente nei momenti essenziali.

    Ci incontrammo per la prima volta in prima superiore, quel giorno ero molto agitata, mi ero appena trasferita a Milano con mia madre e non conoscevo davvero nessuno. A questo bisognava aggiungere pure l’ansia di dover iniziare il liceo, la paura di non farcela, di non riuscire a stare al passo dei miei compagni e degli insegnanti, di non essere abbastanza sveglia e intelligente per frequentare il liceo classico più rinomato della città. Ero sempre stata brava a scuola, avevo sempre preso il massimo dei voti e studiato molto, ma sapevo che il liceo sarebbe stato molto duro e le aspettative su di me erano davvero molto alte.

    Quella mattina arrivai pure a scuola in ritardo, le pile dell’orologio si erano esaurite durante la notte e quindi la sveglia non aveva suonato. E, naturalmente, mia mamma aveva aspettato le 7.45 per chiamarmi!

    Mamma ma non potevi svegliarmi prima??!! Non farò mai in tempo! le urlai rotolando giù dal letto e correndo come una pazza verso l’armadio, da cui tirai fuori un paio di vecchi jeans e la prima maglietta a maniche corte che mi capitò sotto mano.

    Arrivai a scuola alle 8.15, per fortuna ero riuscita a prendere al volo la metropolitana e la professoressa della prima ora non era ancora arrivata.

    Appena entrai in classe, una stanza quadrata delimitata da tristi e spogli muri sbiaditi e con due file di banchi ordinatamente disposti al centro, vidi che quasi tutti i miei futuri compagni stavano chiacchierando divisi in piccoli gruppi di due o tre persone e mi sentii subito esclusa, fuori posto, sbagliata. Quante altre volte avrei dovuto provare questa sensazione?

    Era già la terza volta che io e mia madre ci trasferivamo in una nuova città. Da quando mio padre se ne era andato avevamo già cambiato tre città per permettere a mia madre di assecondare i suoi desideri di carriera e, soprattutto, di iniziare una nuova vita che le permettesse di superare e dimenticare le delusioni del passato. E ogni volta che approdavamo in un nuovo paese dovevo iniziare l’anno scolastico da capo, sola, con mille paure e consapevole che il mio carattere timido e introverso non mi avrebbe per nulla aiutato a conoscere nuove persone e ad ambientarmi in un luogo completamente estraneo e sconosciuto.

    Ma quell’anno provavo anche una nuova sensazione, una sorta di impotenza e di rassegnazione che mi impediva di affrontare questo nuovo inizio con la positività che ogni adolescente dovrebbe avere. Questa nuova città non sarebbe stata diversa dalle altre, nulla sarebbe cambiato rispetto al passato e sarebbe stato completamente inutile sforzarsi troppo per creare nuove amicizie e nuovi legami, tanto sapevo che l’anno successivo o, se ero fortunata, dopo un paio di anni al massimo mi sarei ritrovata a varcare l’ingresso di una nuova classe, in una nuova città, in una nuova vita.

    Era come trovarmi in un labirinto di cui era impossibile scovare l’uscita. Ogni volta mi impegnavo a vivere la mia nuova vita, a crearmi nuove amicizie, a farmi piacere la mia nuova casa, il mio nuovo quartiere, i miei nuovi vicini, ma appena mi illudevo che tutto ciò che avevo costruito potesse durare mi ritrovavo al punto di partenza, costretta ad abbandonare la realtà a cui inconsciamente mi ero già affezionata e a ricominciare tutto da capo.

    Fu con questi pensieri nella testa e con il fiatone per la corsa forsennata dalla fermata della metropolitana alla scuola, e poi su per le scale dell’istituto fino all’ultima porta in fondo al corridoio, che varcai la soglia della mia nuova classe. La prima cosa che notai fu la luce brillante che entrava dalle grandi finestre che mi ritrovai di fronte e che si affacciavano su un giardino verde e rigoglioso, anche se mal tenuto.

    Era una bella mattina di settembre e, nonostante l’autunno fosse ormai alle porte, l’estate sembrava non volersene assolutamente andare e sprigionava tutta la sua bellezza attraverso il calore e lo splendore di un sole che si stagliava solitario in un cielo limpido e senza nuvole. Davanti alla porta di ingresso della stanza la cattedra si ergeva su un piedistallo di legno e alle sue spalle una lavagna immacolata e nera come il carbone stava appesa al muro, in attesa degli scarabocchi, degli esercizi e dei disegni degli alunni.

    L’aula era davvero affollata, ricordo che dovevano esserci state più di una ventina di persone, tutte riunite in piccoli gruppi, che si salutavano, si abbracciavano, si spintonavano e parlavano a voce alta. C’erano solo cinque persone in disparte, in silenzio e con le spalle lievemente curvate in avanti e un’espressione dimessa e disorientata che mi suggeriva che anche loro erano nella mia stessa situazione. Quattro di loro erano sedute, accoppiate, ai loro banchi, una invece era sola e il banco accanto al suo era libero. Mi avviai a passo spedito verso quel banco e quella ragazza, per paura di non trovare un altro posto disponibile e con lo sguardo rivolto verso il pavimento, cercando di farmi notare il meno possibile.

    Mentre attraversavo l’aula tenendo gli occhi puntati verso il basso e facendo lo slalom tra i miei futuri compagni potevo sentire gli sguardi degli altri ragazzi puntati su di me e le loro conversazioni che si interrompevano e si trasformavano in lievi sussurri e bisbigli che certamente mi riguardavano. Proseguii a passo svelto fingendo di non accorgermi delle loro attenzioni e della loro curiosità. Quando finalmente raggiunsi il banco vuoto alzai lo sguardo e intonai la solita frase che ripetevo ogni volta che arrivavo in una nuova scuola e dovevo presentarmi a qualche nuovo compagno.

    Ciao, mi chiamo Alice, mi sono appena trasferita da Roma e non conosco nessuno. Posso sedermi qui?.

    Ero consapevole del fatto che non avrei sicuramente lasciato un’impressione positiva al mio interlocutore, il mio sguardo basso e la mia voce monotona non rappresentavano di certo un gran bel biglietto da visita. Tuttavia la risposta di colei che sarebbe presto diventata la mia migliore amica mi colse di sorpresa e mi fece capire che anche la ragazza che avevo di fronte condivideva la mia angoscia e non mi avrebbe messo in difficoltà.

    Certo, io mi chiamo Emma, anche io mi sono da poco trasferita a Milano e non conosco nessuno mi rispose con un sorriso e con un tono speranzoso che mi obbligò ad alzare lo sguardo e a guardarla dritto negli occhi. Sono felice che tu sia arrivata, temevo di rimanere sola per tutto l’anno! terminò poi il suo saluto mentre con una mano tirava indietro la sedia del banco accanto al quale stava seduta, incoraggiandomi a prendere posto.

    Quando, in quel momento, lessi sul suo volto sincero tutto il suo sollievo e la sua gioia per il mio arrivo non potei fare a meno di sentirmi rassicurata dalla sua positività.

    Fu così che in maniera molto semplice e spontanea nacque la nostra stupenda amicizia, che durava ormai da quasi dieci anni. Essendo molto diverse sotto parecchi punti di vista, nemmeno dopo tutti gli anni trascorsi insieme avrei saputo dire cosa ci legava così tanto. Forse proprio quei tratti quasi opposti del nostro carattere e della nostra personalità, che ci permettevano di compensare i nostri limiti e di darci la forza di affrontare insieme ogni situazione sostenendoci a vicenda. O forse quel filo che legava le nostre menti e ci consentiva di capire al volo cosa una delle due stava per dire o fare.

    Da quel momento io ed Emma diventammo inseparabili, sia a scuola che fuori. Sembrava fosse passata una vita da quei pomeriggi trascorsi da Emma a studiare, guardare la tv, leggere le riviste di gossip, ascoltare la musica. Spesso poi arrivavano Chiara e Lucia, cenavamo insieme e, nel weekend, trascorrevamo interi pomeriggi a discutere su come vestirci, truccarci e acconciarci per uscire la sera.

    Emma, che viveva con la madre ma in pratica era sempre a casa sola, aveva un armadio immenso. Amavo sbirciare tra i suoi vestiti colorati e vaporosi, indossare le sue scarpe eleganti e sfilare nel lungo corridoio che divideva i vari locali della sua abitazione. E quando c’era anche Simona passavamo le ore in bagno a truccarci e a lisciare i capelli con la piastra, cantando a squarciagola le canzoni di Ligabue e spettegolando sui nostri compagni di classe.

    Solo dopo qualche anno iniziai a rendermi conto di quanta spensieratezza ci fosse in quei momenti. Non avevo problemi, dovevo solo preoccuparmi di andare bene a scuola, cosa che non mi risultava per niente difficile visto che ero una delle migliori studentesse di tutto l’istituto, e avevo molto tempo libero. Al contrario di ora. Non avevo mai un attimo da dedicare a me stessa, lavoravo tutto il giorno e il tempo che non passavo in ufficio lo trascorrevo in metropolitana o a casa a fare i mestieri o sdraiata sul divano a cercare di rilassarmi e di liberare la mente davanti a programmi televisivi noiosi e senza senso.

    Questo non significava che io non fossi soddisfatta della mia vita. Avevo un bel lavoro, mi ero laureata a pieni voti ed ero circondata da molti amici. L’unica cosa che sentivo mancare era una persona al mio fianco con cui condividere le mie gioie, le mie delusioni, i miei successi, e che mi facesse vivere quell’amore intenso e totalizzante che sognavo fin da quando ero bambina, quell’amore di cui si parla nei libri e nei film, che cambia la vita di chi ne viene toccato, dandole un nuovo significato e un nuovo scopo. Ma non era per niente facile trovare la persona giusta, soprattutto quando si aveva poco tempo a disposizione da dedicare alla ricerca e si era talmente timidi da non riuscire mai a fare il primo passo.

    Menomale che avevo Emma al mio fianco, che mi dava il sostegno e le attenzioni di cui spesso avevo bisogno. Pur non vedendoci molto spesso, ci sentivamo praticamente tutti i giorni e dopo aver finito le scuole superiori ci eravamo promesse di trovare, almeno una volta all’anno, del tempo da dedicare a noi stesse e alla nostra amicizia, per evitare di perderci di vista. E cosa c’era di meglio di un bel viaggio estivo? Due belle ragazze single, un’intera estate davanti, sole, mare e tanto divertimento. In questi ultimi anni avevamo visitato la Sardegna, la Corsica, Cuba e quest’anno avevamo optato per il Messico, incuriosite dai racconti di una mia collega che ci aveva appena trascorso le vacanze invernali.

    Due settimane di ferie, destinazione Mèrida, la capitale dello Yucatán, e poi da lì l’inizio di una vera e propria avventura. Decidemmo di noleggiare un’auto così da poter essere indipendenti e girovagare per la parte orientale del Paese esplorando la natura incontaminata, gli affascinanti siti Maya e le caratteristiche città coloniali di cui tanto avevamo letto nei lunghi mesi di preparazione del viaggio.

    Ero sicura che sarebbe stata un’ esperienza indimenticabile, uno dei migliori viaggi della nostra vita.

    Dici che se porto la crema protezione 50 sarà sufficiente? Tu cosa porti? mi chiese urlando la mia migliore amica dal bagno.

    Emma la 50 va benissimo, è da giugno che prendiamo il sole in piscina, non siamo più così bianche! Piuttosto, va bene se domani mattina ti passo a prendere alle 8.00? Questa volta ce la fai a non farmi aspettare troppo a lungo? le domandai, ma dal sorriso poco rassicurante che ricevetti come risposta capii immediatamente che il giorno seguente avrei dovuto aspettarla, come al solito.

    E infatti eccomi qui, sabato mattina alle 8.00 in punto sotto casa di Emma… che naturalmente non era ancora pronta. Mentre l’ aspettavo scorsi la lista delle cose da mettere in valigia che avevo preparato nei giorni precedenti, controllando per l’ennesima volta di aver portato tutto, certa però di aver dimenticato qualcosa, che sperai non fosse così importante.

    Emma mi raggiunse alle 8.20, con un sorriso enorme stampato sulla faccia e tanta voglia di partire.

    " Vedrai, sarà una vacanza indimenticabile! Vieni subito qui e scattiamoci un bel selfie prima della partenza!" mi travolse la mia amica con il suo entusiasmo, nonostante fosse ancora mattino presto.

    Ecco un altro aspetto del carattere di Emma completamente opposto al mio. Non avevo mai amato tutte queste nuove mode tecnologiche, i selfie , Facebook, Twitter, Instagram. Non avevo abbastanza tempo da dedicarci e non facevano proprio per me. Che gusto ci trovavano le persone a far sapere a tutti dove andavano, cosa stavano facendo, cosa avevano mangiato a pranzo, con chi erano uscite la sera prima? E dove lo trovavano il tempo di rispondere a tutte le notifiche che ricevevano, di trascorrere ore guardando i video più stupidi (ma a volte più divertenti) della rete, di inviare messaggi e curiosare sulla bacheca dei loro contatti?

    Avevo sempre avuto un pessimo rapporto con i computer e le nuove tecnologie e lo dimostrava il fatto che io non fossi nemmeno iscritta alla maggior parte di questi nuovi social network . Naturalmente Emma non perdeva occasione per farmi notare che ero io quella strana, altrimenti a quest’ora Mark Zuckerberg non sarebbe stato uno tra gli uomini più ricchi al mondo. E purtroppo sapevo benissimo che aveva ragione, ma cosa ci potevo fare?

    Dai Alice non fare la vecchia, vieni qui e sorridi, questa foto la posto immediatamente su Facebook mi ordinò la mia amica, obbligandomi a mettermi in posa davanti all’obbiettivo dell’ultimo modello di smartphone appena uscito sul mercato.

    Dopo averla accontentata finalmente partimmo. Arrivammo in aeroporto dopo circa quarantacinque minuti e anche stavolta, nonostante la mia abitudine a viaggiare, mi lasciai colpire e travolgere completamente dal fascino che questo luogo esercitava su di me. Un luogo di passaggio, dove si potevano osservare persone e situazioni di ogni genere: che correva disperatamente per non perdere il proprio volo e gente appisolata sulle poltroncine in attesa di partire o di accogliere qualcuno che stava tornando, vecchi e bambini che aspettavano qualcuno o la chiamata per l’imbarco, persone ansiose di decollare e persone tristi per essere appena atterrate, uomini d’affari vestiti di tutto punto che viaggiavano in business class e gruppi di giovani che partivano con zaino e sacco a pelo in spalla per una vacanza all’insegna del risparmio, dell’improvvisazione e del divertimento.

    Non avemmo difficoltà a individuare il banco del check-in del nostro volo, che sarebbe partito di lì a un paio d’ore. Dopo solo trenta minuti di attesa ci accolse una hostess di terra cordiale e sorridente, ci chiese di pesare le nostre valigie (Visto Alice? Avanza anche un chilo! Avrei potuto portare anche la mia borsa di Armani che mi hai fatto lasciare a casa!), superammo i controlli di sicurezza e, finalmente, ci imbarcammo sull’aeromobile.

    Nonostante il volo durasse più di undici ore, il tempo passò piuttosto velocemente. Io e Emma guardammo un paio di film, chiacchierammo sui temi più disparati e dormimmo persino un po’.

    Finalmente la voce del pilota ci diede il benvenuto a Mérida in uno spagnolo perfetto che diffuse nell’abitacolo un’atmosfera esotica e trepidante.

    Alice, non vedo l’ora di noleggiare l’auto e partire, chissà cosa ci aspetta! si mise a gridare Emma appena le ruote dell’aereo toccarono terra, tanto che la signora seduta accanto a lei le lanciò un’occhiata di rimprovero.

    Scendemmo dall’aereo e la prima cosa che mi colpì fu l’aria afosa e pesante che ci avvolse, quasi si faceva fatica a respirare a causa dell’elevato tasso di umidità, ma confidavo che ci saremmo abituate presto al clima tropicale messicano.

    Dopo aver recuperato le valigie ci dirigemmo al banco del noleggio auto, ritirammo la nostra macchina, una Fiat Palio bianca che da quel momento in poi sarebbe diventata la nostra fedele compagna di viaggio e partimmo. Nonostante fosse la capitale dello Yucatán, Mérida era una tipica città messicana piuttosto tranquilla, le strade non erano particolarmente trafficate, anche se ci accorgemmo sin da subito di quanto fosse difficile guidare in mezzo a un traffico non troppo intenso ma estremamente indisciplinato.

    Facciamo attenzione, l’assicurazione non coprirà i danni causati da noi e ho letto su internet che spesso i messicani tendono a scappare dopo aver fatto un incidente, per evitare che intervenga la polizia e che vengano messi in carcere dissi a Emma, completamente irrigidita al posto di guida, che stringeva il volante così forte che le nocche delle mani le erano diventate totalmente bianche.

    Ma stai tranquilla Emma, vai per la tua strada e vedrai che non succederà niente! mi affrettai ad aggiungere per cercare di incoraggiarla e rassicurarla.

    Percorremmo quindi lentamente le strade che ci portavano al centro della città dove avrebbe dovuto trovarsi il nostro hotel. Guardando fuori dal finestrino vidi persone e animali ovunque. Gente che aspettava alla fermata dell’autobus, gruppetti di due o tre persone che chiacchieravano sul ciglio della strada, uomini e donne di mezz’età seduti da soli o in compagnia a lato della carreggiata, tantissimi cani randagi e bambini che giocavano per strada o nei campi adiacenti.

    La strada era in buone condizioni ma mi accorsi subito che, nonostante ci trovassimo nella capitale di uno stato, il popolo che vi abitava non viveva nel benessere. Le case nella periferia erano diroccate, i muri scrostati e invasi da disegni e scritte colorate. Sbirciai ripetutamente all’interno delle finestre delle abitazioni che superavamo, completamente aperte e prive di vetri e serramenti, e ogni volta notavo stanze vuote e grigie, talvolta con qualche coperta o una tv appoggiata a terra.

    Ogni tanto, tra una casa e l’altra, si intravedevano anche dei piccoli negozi che vendevano diversi tipi di merce. Prevalevano i negozi di alimentari, principalmente banchetti della frutta a dir poco spettacolari, con una miriade di differenti tipi di frutti esotici che neanche sapevo riconoscere sistemati in tanti piccoli mucchietti ordinati e colorati, che sembravano chiedermi soltanto di assaggiarli. Poco più avanti notai un minimarket, un carrozziere e un altro banchetto con delle carni crude appese a ganci arrugginiti e circondate da uno sciame di mosche e insetti che la padrona del banco cercava ogni tanto, e alquanto svogliatamente, di scacciare via con uno straccio lurido, senza però ottenere alcun risultato. Mentre osservavo con disgusto la scena che si svolgeva all’esterno dell’abitacolo dell’auto in cui viaggiavamo mi ripromisi di non mangiare mai cibo di strada, specialmente carne.

    Ma l’aspetto che più mi colpì e che accomunava tutti questi luoghi erano le persone che li abitavano. Tutti coloro che incontravo mentre viaggiavamo lentamente erano sorridenti, avevano un viso dai lineamenti gentili e un’espressione serena e appagata che poco si addiceva alla povertà e alla fatiscenza di certi quartieri che attraversavamo. Vidi persone rilassate e placide che ridevano e scherzavano con i loro amici e familiari, che non avevano fretta di andare da nessuna parte e si accontentavano di ciò che la vita aveva da offrire loro. Sentii sin da subito il desiderio di scendere dall’auto e scambiare quattro chiacchiere con queste persone, per respirare un po’ della loro serenità e imparare qualcosa dal loro modo di vivere, considerato il fatto che provenivo da una delle città più caotiche e frenetiche al mondo. Ma non avevamo tempo, pian piano stava scendendo la sera e io ed Emma non eravamo ancora arrivate al nostro hotel.

    Gira a sinistra nella prossima via, l’hotel dovrebbe essere tra un paio di blocchi ordinai alla mia amica sbadigliando.

    E dopo qualche minuto ecco il nostro albergo che, a causa della nostra stanchezza e del bisogno di fermarci e di mettere i piedi a terra, apparve ai nostri occhi come un miraggio e un resort a cinque stelle, sebbene si trattasse di una semplice pensione a conduzione familiare. Finalmente eravamo arrivate, dopo più di undici ore di viaggio. L’hotel era piccolo, dotato di un parcheggio privato al coperto dove lasciammo la nostra Palio, e non si trovava molto distante dal centro della città. La ragazza della reception ci accolse con un sorriso, ci chiese di comunicarle i nostri dati per effettuare la registrazione, ci consegnò i telecomandi della tv e dell’aria condizionata e ci accompagnò a passo lento nella nostra camera.

    Attraversammo un lungo corridoio immerso nella penombra su cui si affacciavano tutte le stanze e finalmente arrivammo alla nostra camera. Il locale era piccolo ma confortevole, le pareti erano dipinte di un forte colore ambra caldo e accogliente e abbellite da qualche quadretto rappresentante motivi floreali. Al centro giaceva un letto matrimoniale in legno scuro fiancheggiato da due comodini abbinati, mentre sullo sfondo individuai un armadio a quattro ante e una porta che dava accesso a un piccolo bagno con doccia.

    Dopo aver sistemato borse e valigie in un angolo io ed Emma ci lavammo con cura per levarci di dosso le ore di viaggio e la stanchezza, ci cambiammo i vestiti e, con i gorgogli della fame sempre più forti e insistenti provenienti dai nostri stomaci, ci incamminammo verso un ristorante tipico messicano definito proprio dalla ragazza della reception come il migliore e più famoso ristorante di tutta Mérida.

    Appena individuammo la porta di ingresso del ristorante capimmo che la ragazza aveva ragione, visto che c’erano ben dieci persone prima di noi in attesa di accomodarsi. Decidemmo comunque di fermarci e di aspettare il nostro turno e dopo qualche minuto di attesa potemmo finalmente entrare.

    Il locale era estremamente affollato e rumoroso ma l’atmosfera era intima e accogliente, anche grazie ai piccoli e numerosi lampadari di vimini che pendevano dal soffitto e diffondevano una luce calda e soffusa. Anche il profumo speziato e intenso di cibo che ci avvolse appena varcammo la soglia era davvero invitante e mi fece venire ancora più fame.

    Una ragazza vestita di un costume tipico della regione, dai colori sgargianti e decorato con motivi floreali, ci accompagnò a un tavolo circolare di legno, sistemato accanto a una signora seduta su uno sgabello, intenta a impastare e cuocere decine e decine di tortillas che poi sarebbero state servite ai clienti. Anche questa donna indossava un abito tipico della regione e portava una piccola corona di fiori tra i capelli, raccolti in una treccia che le cadeva lungo la schiena. Appena ci accomodammo la donna alzò lo sguardo, distogliendo per un attimo la sua attenzione dalle tortillas che sfrigolavano sulla piastra di fronte a lei, e ci diede il benvenuto nel suo ristorante e nel suo paese con uno sguardo intenso, vissuto e carico di emozioni, e con un sorriso che le illuminava gli occhi e che mi confermò quanto fosse ospitale e gentile questo popolo.

    Ci accomodammo e ci dedicammo alla scelta di ciò che avremmo mangiato, rassicurate dal fatto di aver cenato più volte in passato al ristorante messicano nel nostro paese di origine. In realtà le prime difficoltà iniziarono proprio con il menu, in quanto la vera cucina messicana aveva davvero poco a che fare con quello che si poteva trovare solitamente a Milano.

    Ordinammo del cochinita pibil , un piatto di carne di maiale marinato in salsa achiote , e una sopa de lima , una zuppa di pollo e tortillas con lime. Io ed Emma divorammo in un secondo tutto quello che ci venne portato, avevamo mangiato poco e male in aereo e avevamo bisogno di energie per poter fare una breve visita della città prima di andare a dormire.

    Dopo un paio d’ore lasciammo a malincuore l’atmosfera calda del ristorante e, dopo aver passeggiato per la Plaza Grande con la sua imponente cattedrale in stile coloniale e per le numerose viuzze circostanti piene di venditori ambulanti, bar, negozi di prodotti tipici e artisti di strada, ci dirigemmo verso l’hotel, consapevoli del fatto che il vero viaggio sarebbe iniziato il giorno seguente e che ci aspettava una lunga ed emozionante avventura.

    Capitolo II

    Dai Emma, dobbiamo andare! Altrimenti non riusciremo mai ad arrivare a Uxmal prima della massa dei turisti! gridai alla mia amica mentre la aspettavo seduta sul bordo del letto.

    Dammi un attimo, devo rendermi presentabile. Ti ricordo che non siamo venute fino a qui solo per visitare i siti e le rovine Maya, ogni tanto ci vuole anche un po’ di divertimento e chissà quanti ragazzi troveremo per strada! mi rispose Emma frettolosamente dal bagno.

    Me la immaginai davanti allo specchio, intenta ad applicare chili di mascara sulle sue ciglia lunghe e a disegnare con attenzione il contorno delle sue labbra carnose, e sperai che non ne avesse ancora per molto e che fosse già a buon punto.

    Si si certo, ma se non ti sbrighi a uscire da quel bagno non avrai proprio il tempo di conoscere nessuno! le urlai, stizzita e rassegnata.

    Dopo qualche minuto salimmo in macchina e finalmente partimmo per la nostra avventura. Avevamo deciso che avrei guidato io, era una bellissima giornata di sole, faceva già caldo alle otto del mattino e le strade erano semi-deserte. Eravamo sole sulla statale che collegava la città di Mérida al sito di Uxmal e durante il viaggio ci godemmo il panorama che ci circondava: distese interminabili di prati e alberi, una giungla verde e rigogliosa di cui non si vedeva la fine all’orizzonte. Le poche auto che incrociammo procedevano piuttosto lentamente, e i villaggi che attraversammo erano ancora addormentati e sembravano quasi disabitati.

    Nonostante il timore iniziale, causato soprattutto dal fatto di non essere abituata a viaggiare all’estero e di non sapere cosa aspettarmi dalle abitudini alla guida degli automobilisti locali, presi presto confidenza con l’auto e spesso mi ritrovai a sbirciare fuori dal finestrino, soffermandomi sulla vegetazione rigogliosa e alla ricerca di qualche animale selvatico accovacciato tra le piante e gli arbusti.

    Dopo circa mezz’ora svoltammo su una strada secondaria che si addentrava nella foresta. Spensi l’aria condizionata e aprii il finestrino. L’afa e la calura del mattino invasero subito l’abitacolo, sarebbe stata una giornata estremamente calda, ma, nonostante le piccole gocce di sudore che dopo qualche minuto iniziarono a imperlare i nostri volti, non ci pentimmo di avere spento l’aria condizionata, perché in questo modo ci sentivamo più vicine al paesaggio e alla natura che ci circondavano.

    Alzammo al massimo il volume della radio e allungammo le braccia fuori dal finestrino, ridendo e gridando in modo spensierato e rompendo il silenzio in cui eravamo immerse. Mi rilassai sul sedile di stoffa dell’auto e lasciai cadere la testa all’indietro, adagiandola pigramente contro il poggiatesta. Una piacevole sensazione di calma e serenità mi pervase e pensai che questo sarebbe stato solo l’inizio di una vacanza indimenticabile e ricca di eventi e di emozioni.

    Anche Emma si era messa comoda e sembrava completamente persa nei suoi pensieri mentre canticchiava il ritornello di una canzoncina che stavano trasmettendo alla radio. Ricordai di averla già sentita, si trattava di una canzone piuttosto famosa negli anni Novanta e mi concentrai per cercare di portare alla mente il nome della band che la cantava. Odiavo quando non riuscivo a ricordare il nome di una persona o di un luogo, il titolo di un libro, di una canzone o di un film, o la data in cui era accaduto un evento particolare, sebbene l’informazione che cercavo fosse proprio sulla punta della mia lingua, in attesa soltanto di essere pronunciata.

    Stavo per stizzirmi quando a un tratto venni distratta da un insieme di ombre indefinite che si muovevano senza sosta in lontananza davanti alla nostra auto. Strizzai gli occhi e li sfregai con la mano libera, temendo di avere problemi alla vista, ma le macchioline colorate non scomparvero. Decisi quindi di rallentare e di procedere nella stessa direzione ma, pur avvicinandomi, continuai a non capire a cosa stavamo andando incontro.

    Sembrava trattarsi di un vortice molto grande che formava un muro fatto da migliaia di puntini colorati, i quali ricordavano tante formichine che si muovevano velocemente e disordinatamente proprio in mezzo alla strada che stavamo percorrendo, per poi disperdersi e diradarsi nella giungla che fiancheggiava la carreggiata. Dai lati della via vidi infatti delle scie gialle e arancioni che si muovevano nella direzione di quel vortice, che si faceva sempre più grande e imponente a mano a mano che ci avvicinavamo.

    Alice rallenta, tiriamo su i finestrini, cosa può essere? mi chiese Emma con tono preoccupato.

    Anche lei ora sembrò essersi risvegliata completamente dal torpore in cui era sprofondata fino a qualche secondo prima e osservava con ansia il muro che si stagliava di fronte a noi, indecisa sul da farsi.

    Emma, non ne ho idea, vedo solo delle macchie che si muovono, sembrano tanti piccoli puntini colorati, non sarà mica qualche insetto pericoloso? le domandai spaventata.

    Avevo sempre avuto il terrore degli insetti, sin da quando da bambina un’ape che si era infilata nel mio casco mentre mia madre mi accompagnava a scuola in motorino mi aveva punto accanto all’occhio destro. Ricordo perfettamente il forte dolore e, in seguito, il rigonfiamento che aveva quasi sfigurato il mio viso, nonché lo spavento che mi ero presa in quel momento. Con gli anni questa paura non aveva fatto altro che crescere ed estendersi anche ad altri insetti, anche i più innocui come cimici, bombi e coleotteri. Insomma, a tutti i piccoli animali volanti, a esclusione di farfalle e uccellini, anche se dovevo ammettere che a volte mi era capitato di spaventarmi anche alla vista di una farfalla che mi svolazzava un po’ troppo vicino.

    Chiusi immediatamente le ventole d’aerazione dell’auto e, quasi inconsapevolmente e alquanto stupidamente, abbassai anche le sicure delle porte, non avrei mai voluto che le cose a cui stavamo andando incontro, di qualunque cosa si trattasse, fossero entrate nell’abitacolo attraverso qualche fessura.

    Ci avvicinammo quindi al vortice lentamente, gli occhi fissi sulla macchia indefinita davanti a noi, il cuore che batteva sempre più forte, la curiosità e la paura che aumentavano a ogni metro che percorrevamo.

    Emma era immobile nel suo sedile, non cantava e non parlava più, guardava fissa davanti a sé e ogni tanto si girava per chiedermi se avevo capito di cosa si trattasse. Ogni volta le facevo segno di no con la testa. Era la prima volta che la vedevo spaventata e se solo non avessi avuto anche io così tanta paura sarei riuscita a capire quanto entrambe fossimo davvero poco avventurose e inadatte per un viaggio in mezzo alla natura più selvaggia.

    Continuammo ad avvicinarci lentamente, confortate dalla sicurezza che ci offriva l’abitacolo dell’auto e a un tratto frenai bruscamente. Un’ enorme farfalla gialla si era appoggiata sul vetro del parabrezza, proprio davanti ai miei occhi. La osservai con attenzione, ammirando le grandi ali simmetriche caratterizzate da fini striature arancioni che si diramavano su tutta la superficie alare, immerse in un giallo canarino brillante e luminoso e attaccate a un piccolo corpicino allungato sulla cui sommità spuntavano delle lunghe antenne sottili. Subito dopo ne arrivò un’altra e poi un’altra ancora, e in meno di una decina di secondi ci ritrovammo in mezzo a un vortice di farfalle che danzavano intorno a noi.

    Mi girai verso Emma, notai immediatamente la sua espressione a metà tra il sollevato e il divertito e mi bastò un secondo per capire che anche lei stava pensando ciò a cui stavo pensando io. Spensi l’auto, scendemmo insieme dall’abitacolo e ci tuffammo nel vortice colorato che ci travolse e iniziò a vorticare intorno a noi.

    Sentii le farfalle posarsi ovunque sul mio corpo e sbattere le loro piccole ali contro di me, mentre inscenavano una danza disordinata, caotica e frenetica.

    Io ed Emma ci lasciammo coinvolgere completamente da spettacolo della natura a cui avevamo avuto la fortuna di assistere e iniziammo a saltare, a ballare e a gridare in mezzo alla strada, senza preoccuparci minimamente del possibile ma improbabile sopraggiungere di altre auto e completamente immerse nel vortice colorato. Non avevo mai provato nulla di simile, una sensazione di libertà e gioia scorse ovunque nel mio corpo e rimasi ferma immobile per almeno cinque minuti con gli occhi chiusi e le braccia aperte a godermi il fruscio delle ali delle farfalle e il contatto con la natura.

    Lasciai che i secondi e i minuti passassero lentamente e solo quando mi ricordai del motivo per cui ci trovavamo in questo luogo e dell’intenso programma della giornata riaprii gli occhi e mi voltai per cercare Emma per suggerirle, seppur a malincuore, di riprendere il nostro viaggio. La intravidi a qualche passo da me, la chiamai per attirare la sua attenzione e le comunicai con un gesto che era ora di ripartire.

    Appena mi voltai per raggiungere l’auto il mio sguardo si posò per caso sulla figura di una moto ferma in lontananza e rivolta nella nostra direzione. In sella alla moto notai un ragazzo, il cui viso rimaneva nascosto da un casco nero su cui si rifletteva la luce del sole. Dedussi si trattasse di un uomo dall’ altezza, almeno un metro e novanta centimetri, e dalla corporatura, longilinea e muscolosa, che intravidi attraverso la giacca di pelle e i vestiti scuri e aderenti che indossava.

    Nonostante non ci fosse nulla di strano in ciò che vedevo il mio corpo si mise subito in allerta e provai una strana sensazione di pericolo e timore, che però non fui in grado di definire con precisione. Pur non conoscendone il motivo, di una cosa ero assolutamente sicura. Quel ragazzo non era lì per caso, ci stava osservando attentamente, magari già da un po’, e forse ci aveva anche seguite fino a qui. Altrimenti non avrebbe avuto alcun motivo di fermarsi dietro alla nostra auto, avrebbe potuto benissimo superarci e proseguire per la sua strada.

    Feci per chiamare Emma per avvisarla di quello che avevo appena visto quando il ragazzo si accorse di essere stato scoperto, mise in moto la sua moto, fece inversione e scomparve a tutta velocità dalla mia vista dandomi conferma dei miei sospetti.

    Hai visto quel motociclista che se n’è appena andato? Cosa credi che stesse facendo? chiesi a Emma nella speranza che la mia amica riuscisse tranquillizzarmi.

    No Alice, non ho visto nessuno, sei sicura? Mi sembra che di qui non passi mai anima viva, ti sarai confusa mi rispose la mia amica in maniera distratta mentre si incamminava verso l’auto.

    No, Emma, sono sicura di quello che ho visto. C’era un ragazzo fermo sulla sua moto che ci stava osservando da lontano e magari ci stava seguendo insistetti, infastidita dalla sua replica frettolosa e superficiale.

    " Ma dai, Alice, magari invece era solo un turista che si è accorto di aver sbagliato strada e si è fermato per cercare di capire in che direzione andare. Facciamoci un bel selfie in mezzo a questo spettacolo e poi andiamo, i Maya ci aspettano!" ribatté la mia amica, cercando di tranquillizzarmi e di cambiare argomento.

    Anche se le parole di Emma non erano riuscite a convincermi decisi di lasciare perdere e di salire di nuovo in macchina per ripartire. Guidai per un’altra mezz’ora quando finalmente arrivammo a Uxmal. Era ancora presto, il parcheggio era semivuoto e la calca dei turisti per fortuna non era ancora arrivata. Eravamo praticamente sole alla biglietteria e tra i primi visitatori a entrare nel sito. Scegliemmo di non avvalerci di una guida locale, volevamo essere libere di girovagare autonomamente per la zona archeologica e di soffermarci sugli edifici che ci colpivano di più.

    Appena oltrepassammo i tornelli all’ingresso venni colpita dal silenzio assoluto che pervadeva l’area mentre ci incamminavamo lentamente lungo un sentiero circondato da alberi e piante. Tutto ciò che sentivo era infatti il rumore dei miei passi e il frusciare delle foglie degli alberi mosse dalla leggera brezza mattutina, o da qualche animale che saltava e si muoveva indisturbato nella vegetazione rigogliosa.

    Al termine del sentiero si apriva un vasto prato verde al centro del quale si innalzava un’ imponente piramide di pietra alta circa trenta metri, la Piramide dell’Indovino, la cui vista ci tolse letteralmente il fiato. La piramide era interamente costruita di pietre ed era attraversata al centro da una scalinata molto ripida che conduceva al tempio dedicato a Chaac, il dio della pioggia, situato al quarto livello della costruzione.

    Non ho mai visto nulla del genere, ma come avranno fatto a costruire un tempio così grande con le tecniche di quel periodo? mi domandò Emma, affascinata dallo spettacolo.

    Anche io rimasi sbalordita di fronte all’opera, pensai che mi sarebbe piaciuto molto salire sulla cima e magari esplorarne l’interno, ma dovetti accontentarmi di osservarla da fuori e dal basso, rapita dalla sua bellezza e incredula di fronte alla sua imponenza. Decidemmo quindi di camminare lungo il perimetro dalla forma ovale della piramide e, dopo averla ammirata in tutta la sua maestosità e aver letto qualche informazione in proposito sulla nostra guida, decidemmo di proseguire nella nostra visita al sito.

    Iniziai a sentire il sole battere sempre più forte sulle membra nude del mio corpo e

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