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Giustizia popolare
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E-book259 pagine4 ore

Giustizia popolare

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Info su questo ebook

Un barbone e due fratelli disperati decidono di colpire i politici italiani per aizzare una terribile rivolta popolare. Tra colpi di scena imprevedibili, in un clima di altissima tensione, la storia si svolge coinvolgendo mafia, camorra, istituzioni, gente comune, fino ad un epilogo inaspettato ed emozionante. Un romanzo sull'Italia attuale, con straordinari risvolti in Senegal, Cina e Mauritania. Un libro che non dà respiro fino all'ultima pagina.
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2015
ISBN9788893155281
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    Anteprima del libro

    Giustizia popolare - Bruno Ippolito

    successo?»

    «Ventisei anni»

    Per un minuto che sembra interminabile decido di non parlare e anche lei sta zitta. Guida con prudenza, fasciata dalla cintura, con fari accesi, ben posizionata sulla destra. Ne approfitto per guardarla meglio. Forse ho sbagliato, non deve avere ancora quarant’anni, di certo quattro o cinque in meno, indossa una gonna al ginocchio, di lana grigia, una camicia bianca e un maglioncino nero con due bottoni aperti. Porta un braccialetto d’oro molto semplice, ha il rossetto chiaro, i capelli scuri, le mani curate, è leggermente su di peso e non deve essere molto alta, forse un metro e sessantacinque. Ha una postura compitissima. Guardo meglio il viso: le rughe ci sono e il fondotinta chiaro non riesce a nasconderle, ma sono leggere; gli occhi sembrano chiari forse castani, il naso è regolare, il collo è un po’ gonfio ma è lungo. Non mi sembra per niente spiacevole. Non riesco ad immaginare nulla sotto i vestiti perché vedo donne nude solo pagandole e, quando decido di averle, in piedi in un portone non ci si può spogliare. Ora ho cinquant’anni. Quando ho lasciato il mondo civile ne avevo quaranta e mi sentivo forte come un ventenne. Da un po’ invece avverto qualche dolorino alla schiena, ho qualche dente cariato, di sicuro ho il fegato a pezzi, ma ho una buona muscolatura che curo con esercizi quotidiani. Da giovane, frequentavo palestre di arti marziali e la passione per i combattimenti e gli esercizi di difesa mi è rimasta.

    Questa donna mi ha parlato come se davvero fossi una persona per bene. Potenza delle scarpe. Oppure del fatto che so usare i congiuntivi. Forse influisce anche il mio viso gradevole e in fondo i miei gesti sono ancora garbati. Io ho scelto di fare il disgraziato, ma fondamentalmente non lo sono. Me lo dico adesso che trovo il coraggio di chiederle:

    «Io mi chiamo Giorgio, posso sapere il suo nome?»

    «Elena. Elena Conti, faccio l’insegnante d’inglese in una scuola media superiore»

    «Nice job», commento, sforzandomi di assumere un accento anglosassone.

    «Oh, so you speak English too!» mi dice sorridendo.

    «Not at all, l’ho solo studiato a scuola, poi sa… oggi con i computer…»

    «Che lavoro fa?»

    Decido di fare un colpo di tosse, giusto per guadagnare quei tre secondi necessari ad improvvisare una risposta.

    «Sono un compositore, scrivo pezzi per le colonne sonore dei film, qualche jingle pubblicitario».

    «Davvero?! Mi dica qualcosa di noto che ha fatto!»

    È realmente interessata, non mi sta semplicemente mettendo alla prova, non ha nessun sospetto, si sente davvero alle prese con un povero cittadino rapinato. Forse si augura di aver salvato un personaggio famoso, magari sogna un trafiletto sul quotidiano. O forse no. Vuole davvero verificare se ha mai sentito qualche mio pezzo.

    «Beh, io non sono famoso. Le mie composizioni sono limitate a scene di passaggio, non ho mai avuto la fortuna di essere scelto per una colonna sonora di un film. Io sono tra quelli che musica magari anche il 30% di un film ma è destinato a non essere ricordato. Il bello è che la cosa non mi dispiace, perché in fondo io compongo per me, la musica è la mia vita. Ora, mentre viaggiamo, sto immaginando un brano musicale di sottofondo».

    «È meraviglioso quello che fa», mi dice convinta. «E che musica ci accompagna?»

    «Il genere? Diciamo New Age. Molto armonico»

    «Dev’essere bella»

    «Guardi che alla prossima dobbiamo uscire, appena fuori del viadotto io scendo. Devo correre a casa prima della polizia»

    «Sua moglie l’aspetterà, immagino»

    «No, non sono sposato. Ho finito una convivenza quattro anni or sono e da allora ho detto stop. Troppi impegni, troppe complicazioni»

    «Così giovane? Via, non ci posso credere!»

    «Guardi che ho 50 anni, lei potrebbe essere mia figlia!». Il mio forzato complimento è un’indubbia provocazione, alla quale abbocca.

    «Magari! Io ne ho 44 da tre giorni!».

    Ora che mi ha detto la sua età mi do dell’imbecille per non averla individuata subito. Sarà colpa della mia tendenza a vedere le cose migliori di quelle che sono. Sorrido e chiedo in tono retorico:

    «E lei ce l’ha un compagno?»

    «Dalla morte di mio marito non ho avuto più nessuno»

    «Davvero?! Nemmeno… be’ scusi forse sono affari che non mi riguardano»

    «Se allude ad avventure, no, mai più»

    «Ecco, dobbiamo uscire. Si fermi pure lì all’angolo»

    Elena accosta, rigorosamente con freccia e il più in disparte possibile.

    «Grazie» le dico «davvero non so come avrei fatto senza di lei»

    «Non mi ringrazi, è un dovere aiutare il prossimo.»

    «Elena, vorrei poterla invitare a cena uno di questi giorni, naturalmente senza secondi fini: mi piacerebbe semplicemente poterla ringraziare e magari chiacchierare un po’ senza ansia, come adesso. Le dispiace se le chiedo il numero di cellulare?»

    «Mi dia lei il suo, la chiamerò appena posso».

    «Impossibile, non ricordo il numero. Ogni volta che devo darlo a qualcuno digito un tasto per vederlo sul display e lo leggo. Comunque, capisco la sua riservatezza. Se non vuole, non insisto, grazie ancora e arrivederci!».

    Apro la portiera della macchina e lei mi interrompe: «347.73.90.663, chiami pure quando vuole, sono curiosa di sapere come andrà a finire questa sua disavventura.. Arrivederci Giorgio!».

    Io scendo e lei riparte. Andrà a casa, mentre io ci sono già, visto che ogni strada è la mia casa. Ma ho il cervello ormai in fermento. Penso ininterrottamente.

    Mi scelgo un sotto-tangenziale, già utilizzato altre volte, abbastanza riparato. È incredibile non c’è nessuno, è come avere un appartamento di 100 metri quadri tutto per sé. Vado in giro in cerca di un bel cartone, che trovo immancabilmente. Forse dovrei passare per una fontana. Il problema è che non è così tanto tardi da potermi mettere in libertà. Che faccio? In fondo, seppure barbone, mi sono sempre lavato. Una sciacquata mi piacerebbe. Nel mio zainetto ho anche un asciugamano. Quasi quasi vado.

    Mentre Giorgio si dedica meticolosamente alla sua pulizia, la sua mente corre indietro nel tempo. Ha una visione dei suoi genitori che non vede più da tanti anni. Suo padre non approvò mai la scelta del figlio di lasciare il lavoro per andare a vivere in mezzo alla strada, gli tolse la parola e obbligò sua madre, sua succube, a fare altrettanto. Il padre era un uomo tutto di un pezzo (lo diceva spesso), credeva fortemente nell'affermazione professionale e nel raggiungimento di una solida posizione sociale. Frequentava assiduamente diversi ambienti borghesi e la decisione di Giorgio gli faceva temere di perdere la faccia. Cosa vuoi fare della tua vita? Vuoi buttare via la tua laurea e le esperienze professionali che hai avuto? Credi che quella sia la libertà? Ti sbagli, è solo una fuga. Ti manca il coraggio di affrontare la vita, non hai mai dimostrato carattere, sei stato sempre una delusione, non sembri figlio mio. Non approverò mai questa tua stupida scelta, ricordatelo!, questi ed altri discorsi simili erano stati fatti dal padre, che tentò in tutti i modi di dissuaderlo, ma l'ostinazione dell'uomo gli fece perdere la pazienza e decise che quello non era più figlio suo.

    I genitori si erano sposati tardi e Giorgio era nato dopo diversi tentativi di gravidanza mal riusciti. Rimase così figlio unico, esattamente come suo padre e sua madre, per cui niente zii e cugini.

    Da piccolo si era circondato di tanti amici per supplire alla mancanza di parenti, ma crescendo aveva imparato ad apprezzare la solitudine, fino al punto da preferirla. Così, quando decise di fare il barbone, non ebbe nessuna difficoltà a rinunciare alle compagnie.

    Si chiese se Mamma e Papà fossero ancora in vita, ormai aveva rotto il cordone ombelicale con la famiglia da molto tempo, ma ogni tanto ci pensava, un giorno forse li avrebbe rivisti. Sarebbe avvenuto per caso, lui non sarebbe andato a cercarli. Non lo aveva fatto mai in dieci anni e non si era pentito neanche una volta della decisione. In fondo, se i genitori lo avessero davvero amato, non lo avrebbero rinnegato né condannato. Decise che erano morti, pace all'anima loro.

    CAPITOLO 2

    È mattina. Non ho dormito molto, me ne sono stato sotto il cartone a pensare: erano anni che non mi succedeva. Passare del tempo a pensare. Il tutto per una donna? Oppure perché si sta insinuando in me nuovamente il virus? Il virus del sociale, quello che ti fa venire voglia di ritornare tra gli altri, che ti fa desiderare un bel vestito, un’auto, magari un cellulare, una serata in un ristorante.

    Sono in tilt.

    Io queste cose le ho rimosse completamente, anzi le ho aborrite. Sono dieci anni che me ne frego, dieci anni che sono felice. E allora? Cosa mi succede? Voglio di nuovo l’infelicità? Ma l’infelicità nasceva davvero dal mio malessere sociale oppure dalla mia incapacità di trovare nel sociale il mio spazio libero? E la libertà dipende da quello che fai o da quello che sei dentro? Si può fare il dirigente o l’impiegato, essere sposati e continuare ad essere liberi? Oppure si può fare tutto, perché la libertà è indipendente da tutto, è una realtà intima? Una realtà intima non è una realtà oggettiva. Forse è un inconscio ammorbidimento della realtà, magari un’interpretazione. Un desiderio, un’azione istintiva. Uno scudo, una difesa, oppure un’arma. Non ci capisco niente, mi sembra di essere tornato ai tempi del liceo quando, interrogato in filosofia, dicevo qualcosa e la rinnegavo, compiacendo così la mia professoressa, convinta che la filosofia non avesse verità assolute. So solo che stasera ho fatto finta di essere quello che non sono, ma che in realtà evidentemente dentro di me sono, quindi forse non ho fatto finta. E se non ho fatto finta, che ho fatto? Probabilmente niente di strano, a parte giocare un po’, appoggiarmi alla menzogna, assecondare la vanità di mostrare le scarpe nuove. In effetti sono confuso, forse dovrei semplicemente dirmi: hai voglia di rivedere quella persona, e non sai come fare, visto che sei un bugiardo, barbone, puzzolente e squattrinato.

    Decido di mettermi alle strette e mi chiedo: e perché la vuoi vedere? Ti piace fisicamente? Vuoi una storia d’amore? La risposta è triplice: sì, no, non lo so. So solo che non sono tranquillo. E mai come adesso mi sta piacendo molto non esserlo. Okay, ho fatto la mia introspezione, ho fatto il Gran Ragionatore, forse è ora di seguire l’istinto. Devo ripartire dalle mie scarpe.

    Ce l’ho, sono belle e sono nuove. Sono il mio simbolo, adesso. Posso camminare verso qualcosa. Volendo, potrei addirittura correre. Ma io non voglio correre, voglio solo dirigermi, è ora che io proceda. Devo mettermi in cammino, mi alzo, mi spazzolo le pezze che indosso, butto fuori l’aria dai polmoni e tiro un po’ su il mento. Vado.

    Oggi è domenica e il tempo è buono, l’aria è fresca ma non c’è vento, non ho freddo. Decido di fare la parte del reduce di guerra, scampato alle bombe e allo sterminio. Chiedo una penna in prestito ad un giornalaio e scrivo su di un cartone formato locandina Mia famiglia morta, io solo, no casa, ho fame. Ringrazio con un sorriso l’ignaro complice e mi dirigo verso una chiesetta in collina, poco frequentata dai mendicanti, ma abbastanza piena di fedeli, con un programma di ben tre messe al mattino. Se tutto va bene, potrò racimolare anche 20 o 30 euro. Mi sistemo proprio dinanzi alle scale dell’entrata, scelgo una postura pietosa e simulo anche di avere freddo. Ho messo le scarpe nuove nello zainetto e mi propongo con calze sdrucite ai piedi che scaldo ogni tanto con un quotidiano vecchio. Vedo entrare famiglie e persone sole, anziani e bambini in odore di prima comunione, li immagino già pregustarsi il pranzetto domenicale con dolci e liquori.

    Alle 13:00 ho racimolato 29 euro e decido di cambiare posto. Vado alla mensa dei poveri dove mangio pasta e patate, carne bollita e un’arancia. Ho deciso che ho bisogno di soldi e vado in un garage dove lavano le macchine. Per 20 euro posso lavare auto dalle 14:00 alle 18:00. Un quarto d’ora dopo aver finito ho mal di schiena ma i 49 euro che ho guadagnato oggi mi danno forza. Vorrei guadagnare ancora, abbastanza soldi per poter andare in un centro e farmi un bagno e la barba, magari comprarmi un maglione e dei pantaloni. Le scarpe ce l’ho e sono perfette, ci vorrebbero delle calze e un giaccone. Scegliendo bene in un buon mercatino con circa 100 euro in tutto potrei farcela. Mi servono 51 euro allora. Decido di lavare qualche vetro al semaforo, un paio d’ore e ho incassato altri 9 euro.

    Sono stanco, non voglio più fare niente, domani con 58 euro comprerò tutto, magari andrò al mercatino dell’usato, quello vicino alla stazione sempre pieno di immigrati e bancarelle, mi costerà un paio di euro di metropolitana ma potrò scegliere con calma e bene, il tempo non mi manca.

    È lunedì e stamattina ho cambiato tutti i miei piani. Niente mercatino, sono andato a comprarmi una lametta, della schiuma da barba e un pennello, poi sono andato in un bagno pubblico dove mi sono rasato e lavato a lungo. Ora mi trovo dal barbiere, taglio e shampoo. È incredibile come la cura di sé faccia apparire diversi. Sembro più giovane di almeno 9-10 anni, mi trovo gradevole e, come succede a tutti, per questo sono anche di buon umore. Vorrei telefonare alla mia soccorritrice, ma mi sono rimasti solo 42 euro, dove vado con questi soldi? Niente ristorante, niente vestiti, niente buffonate e menzogne credibili. Ma è mai possibile che tutto dipenda dal denaro? Non va bene, non va bene così. Mi è passato il buon umore e mi è venuta un’idea folle. Voglio chiamare Elena e non voglio più mentire, le voglio dire tutto, confessare l’inganno, presentarmi per quello che sono e vedere se mi accetta. Tanto lei mi accetta, perché è una cristiana e lo farà per spirito religioso. E che me ne faccio io di una donna che mi accetta per spirito religioso? Questo ragionamento mi fa capire che io, senza fare troppe chiacchiere, evidentemente voglio quella donna. Devo riconoscermi che mi è piaciuta, così compita, pura, caritatevole, disponibile. E io l’ho ingannata, ne ho approfittato per giocare un po’ con le mie scarpe nuove. Mi sono comportato come un folle. E senza sforzo, perché io sono un folle: 15 anni fa avrei chiamato così uno che avesse fatto quello che ho fatto io. Quello là dev’essere un pazzo! avrei detto, sicuro di non sbagliare, continuando per la mia strada con la borsa di lavoro imbottita d’affari. Assurdo, sto facendo una valutazione di me stesso come se fossi quello di un tempo, perché il mio io attuale non mi valuterebbe così. Dunque il virus sociale si sta sviluppando. Mi sa però che avrà vita dura, i miei anticorpi da barbone hanno già scartato l’idea del ristorante e della menzogna continuata, si sono subito difesi con la confessione della verità. Bene, sono fiero di questo rigurgito d’onestà intellettuale e perseguirò il mio proposito, chiamerò Elena. All’inizio simulerò per ottenere l’incontro e poi le parlerò. Aspetto che si facciano le 19:00, seduto davanti l’uscita principale del centro direzionale con il mio cartone da povero-serbo e intasco altri 9 euro. Poi, cerco nello zainetto il suo numero telefonico e tiro fuori 1 euro da investire in una telefonata. Certo che quando decido, decido…

    «Pronto?»

    «Ciao Elena, sono Giorgio»

    «Giorgio chi, scusi?»

    «Dai, sono Giorgio! Quello che hai salvato sulla tangenziale, il rapinato!»

    «Oh ciaooo! Scusa, conosco un altro Giorgio che suona in chiesa e volevo essere sicura che fossi tu»

    «Vuoi dire che ti aspettavi la mia chiamata?»

    «Be', ho pensato che dopo esserti ripreso, dopo aver regolato le faccende burocratiche, forse mi avresti chiamato»

    «Non ti ho disturbata, spero»

    «Per niente, sono appena rientrata dal lavoro, stavo mettendo un po’ d’ordine in casa e cercavo di capire cosa fare per cena, non ho avuto neanche il tempo di passare per il supermercato»

    «Niente cucina stasera, Elena. Se vogliamo mantenere la nostra promessa, dobbiamo vederci per un ristorante e quattro chiacchiere»

    «Sei gentile Giorgio, ma è lunedì, io sono un po’ stanca e domani devo alzarmi presto. Magari verso il fine settimana, che ne dici?»

    «Peccato avevo proprio voglia di vederti. Senti, se ci vedessimo solo per l’aperitivo? Così dopo torni a casa per la cena senza fare tardi»

    «È successo qualcosa? Come mai hai così premura di vedermi?». Il tono della voce è simile a quello che ha usato la volta scorsa quando mi ha chiesto le mie composizioni più note. Mi convinco che è solo curiosa e rispondo:

    «Va tutto bene, stai tranquilla. Questa volta non ho bisogno d’aiuto. Solo che mi andava di incontrarti, tutto qua. Ma se non ti va, non fa niente…». L’altra volta, quando le ho chiesto il numero del cellulare, la tattica dell’abbandono ha funzionato. Anche questa volta lei cede subito.

    «Va bene, vada per l’aperitivo. Dimmi l’ora e il posto»

    «Alle 20:00 al Blue Star vicino Piazza Europa? O preferisci che ti venga a prendere?»

    «No no, va benissimo, è a una fermata di bus da casa mia e l’orario è decente, magari al ritorno mi accompagni, okay?»

    «Certo, a dopo allora! E grazie per la disponibilità!»

    Sono le 19:10, tra venti minuti i negozi chiudono. Ho due scelte: correre a comprarmi un maglione o un paio di pantaloni e presentarmi all’appuntamento più o meno decente, oppure comprare un bel mazzo di fiori, una scatola di cioccolatini e conservarmi almeno 20 euro per l’aperitivo.

    Certo, per Elena vedermi così malvestito potrebbe essere uno choc, potrebbe addirittura decidere di non volermi neanche ascoltare. Ma ho deciso di rischiare, del resto solo un maglione pulito (scarpe a parte) non basterebbe a rendermi presentabile, seppure lo shampoo e il taglio ai capelli mi abbiano quasi messo a posto. Così faccio la mia spesa di fiori e cioccolatini e a piedi mi dirigo all’appuntamento, in mezz’ora sarò arrivato. Ho giusto il tempo per pensare cosa dire, come dirlo, quando dirlo. Cammino, ho la testa nelle nuvole, non guardo nessuno, a stento scanso le macchine. Ormai mi manca poco per arrivare e il tempo impiegato mi ha schiarito le idee. Dirò tutto di me, le chiederò scusa, mi dichiarerò pronto ad accettare che questo nostro primo incontri resti l’unico, forse è giusto così. E’ meglio che io ritorni alla mia semplice vita da barbone, è preferibile lasciare che questa storia resti un ricordo piacevole e niente più. Mi sento pronto, un barbone con i fiori in mano dev’essere ridicolo, ma se lo avessi guardato io anni fa mi avrebbe fatto tenerezza. Chissà cosa proverà Elena.

    Sono arrivato. Mi posiziono davanti all’ingresso del bar e aspetto. Prima da fermo, poi camminando avanti e indietro per qualche metro. Elena è in ritardo, pochi minuti ma è in ritardo. Se non venisse affatto? Se non venisse…

    «Ciao Giorgio!» la sua voce mi arriva alle spalle, sembra allegra. Mi giro e la vedo: è ben curata, truccata, indossa un vestito di lana leggera e un soprabito sportivo, ha le scarpe con i tacchi un po’ alti, la sua postura è molto elegante e mi sta squadrando.

    «Ciao Elena, grazie di essere venuta. Questi sono per te», le porgo i miei doni che lei accoglie dicendo:

    «Sono bellissimi questi fiori! E ai cioccolatini non so resistere. Non avresti dovuto, davvero»

    «Elena non intendere questi pensierini come la voglia di sdebitarmi, quello che hai fatto per me è fuori misura. Entriamo?»

    «Volentieri, mi è venuta sete e berrò volentieri una bibita fresca»

    Ci accomodiamo ad un tavolino un po’ in disparte, le faccio scegliere il posto e mi metto di fronte: chiedo al cameriere un’aranciata e una birra chiara

    «Eccoci qua, Giorgio. Come stai? Ti è passato tutto?»

    «Sì sì, sto bene e mi è passato tutto, e a te come va?»

    «Il lunedì è un giorno durissimo per me, faccio cinque ore a scuola, poi ho la riunione con il Preside e gli altri insegnanti e poi vado in biblioteca a correggere i compiti, preferisco farlo a scuola perché così mi obbligo a finire. Quando torno a casa divento pigra… Allora, raccontami tutto, dimmi un po’ come hai risolto quel problema». Ancora una volta mi dico: è solo curiosa, non sospetta niente. Anziché rispondere, azzardo una provocazione.

    «Ho visto che mi squadravi quando ci siamo incontrati, c’è qualcosa che non va? Sicuramente il mio abbigliamento, vero?»

    «Se è per questo, mi hai squadrato anche tu, dalla testa ai piedi, il tuo abbigliamento non ha niente di diverso dall’abbigliamento che mi aspettavo, ma che importa?»

    «Un momento, un momento: cosa vuoi intendere con l’abbigliamento che mi aspettavo

    «Andiamo Giorgio, perché

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